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Storia 6. Nuovo anno in Italia

Dalla copertina del Forest Sangha Newsletter, luglio 1997

Quest’anno Ajahn Sucitto ha fatto visita al sangha di Santacittārāma, trovandosi a partecipare alle celebrazioni del nuovo anno thai.

DOMENICA 13 aprile: tutto il sud-est asiatico celebra il nuovo anno. Per di più, come qualsiasi thailandese sa, una simile festività dev’essere celebrata con un misto di riverenza e allegria. Non si tratta certo di due poli opposti in Thailandia. Questo è Songkran (dal sanscrito sankranti, cioè il passaggio del sole da un segno zodiacale all’altro) e dà l’opportunità alle persone di spruzzare acqua ovunque, rispettosamente sulle statue del Buddha e sui bhikkhu e, con fragorose risate, gli uni sugli altri. Tutto ciò è valido anche in l’Italia: quest’anno, anche se a Santacittārāma ci è stato risparmiato il bagno completo, la cerimonia si è comunque conclusa con circa settanta donne thai che, sfilando davanti al sangha dei bhikkhu, hanno versato acqua sulle nostre mani.

I fedeli laici in arrivo al monastero

L’acqua simboleggia fertilità e l’atto di fluire insieme: entrambi questi significati sembrano decisamente segni appropriati di ciò che accade attorno alla presenza del sangha in Occidente. Quando si parla di diffusione del Dhamma in Occidente, generalmente si tratta di una fecondazione in senso orizzontale; tuttavia il sangha può stimolare una mescolanza tanto culturale quanto intellettuale. Non convincereste mai settanta donne thai a viaggiare di notte, in bus, da Milano e da Napoli fino a Sezze Romano per partecipare a una conferenza interconfessionale, ma la presenza del sangha spinge i buddhisti asiatici a fare esperienza della loro religione da una nuova prospettiva, e persino alcuni disorientati mariti ne traggono qualche riflessione.

 

Cerimonia nel giardino

La presenza dei monaci crea un rapporto e una risonanza con la società italiana in qualche modo più intensi rispetto a quelli che potrebbe creare un insegnante di meditazione laico. Il ritiro che ho da poco condotto si è svolto, come quello di Ajahn Sumedho dell’anno scorso, in un monastero benedettino situato in un incantevole contesto, sulla cima di una collina a circa un’ora a nord di Roma. La Madre Superiora ci ha fatto visita per accoglierci personalmente e sei giorni più tardi ha porto a me e al Venerabile Dhammiko i suoi saluti. Per tutto il nostro soggiorno, delicate Madonne esitavano nelle cappelle all’interno dei cortili o ci osservavano gentilmente dai muri; nessuno tuttavia pareva disturbato dal fatto che noi, due volte al giorno, rendessimo omaggio a un’elegante statua singalese del Buddha che sorrideva dall’altare nella nostra sala di meditazione. I meditanti italiani, molti dei quali sono rimasti delusi dalla debolezza della Chiesa, hanno appreso nuovamente a esprimere devozione, a permettere che le immagini riflettano le loro aspirazioni non verbali, a sperimentare la bellezza del Rifugio. Alla fine, dopo tutti questi secoli sanguinari, il “gioco sacro” può ancora essere possibile in Occidente. Talvolta questo gioco sembra deliberatamente malizioso: ma è stato solo dopo aver conferito un nome al nostro vihāra a Sezze che è divenuto evidente quanto simile fosse “Santacittārāma” (Giardino del cuore sereno) all’italiano “Santa città di Roma”. Intanto l’accettazione del Buddhismo da parte del Vaticano rimane in stato di riserbo. Non che il sangha possa rappresentare chissà quale minaccia: Santacittārāma è in una posizione marginale, con una comunità composta da Ajahn Chandapālo, i Venerabili Jutindharo e Dhammiko e mae chee Amara – un inglese, due thai (anche se per ora mae chee Amara è in ospedale per un’operazione alla schiena) e un italiano. Ajahn Chandapālo è felice di trascorrere gran parte del suo tempo nel monastero, imprimendo alla piccola comunità un senso di stabilità dopo che Ajahn Thānavaro ha lasciato l’abito. Il monastero continua con la sua pratica: le pūjā, la meditazione, qualche lavoro e alcuni ospiti. L’insegnamento è dato in gran parte in modo informale. Gli ospiti sono in maggioranza italiani ma in questo momento c’è un uomo thai proveniente da Napoli che, per una strana coincidenza, aveva incontrato uno degli altri ospiti del vihāra 20 anni fa, lavorando a un progetto d’ingegneria a Kanchanaburi in Thailandia. Per quelli di noi che sono abituati a vivere nei vihāra, conversazioni poliglotte all’ora del tè e casuali (o kammici) collegamenti sono dati per scontati. È tutto parte del rimescolamento e dello straripamento di confini che caratterizza la presenza del sangha in Occidente.

Il spruzzare dell’acqua santa

Insieme al silenzio e alla ordinarietà, c’è un senso di promessa dal quale le cose crescono spontaneamente. La residenza monastica attuale sta diventando troppo piccola per il corretto svolgimento della vita che racchiude: durante l’anno passato, i sostenitori laici si sono guardati attorno alla ricerca di una nuova sede. Subito dopo il ritiro, alcuni di noi sono andati a dare un’occhiata a quel che sembra essere un possibile acquisto: un’ampia casa di campagna provvista di 22 stanze e 5 acri di terreno, sulla cima di una collina in un’area rurale a circa 50 miglia a nord-est di Roma [Nei pressi di Roccasinibalda]. Le donne italiane che ci hanno accompagnati non avevano dubbi: “Dobbiamo avere questo posto!”. Sette giorni dopo, durante la cerimonia dell’offerta di cibo che ha accompagnato il Songkran, i thailandesi sono stati più che lieti del fatto che le loro offerte economiche avrebbero potuto essere investite in una simile avventura. Nuovo anno, vecchie usanze; nuove possibilità, vecchie aspirazione: proprio un gran rimescolamento.

 

Continua la storia con “7. Perseveranza paziente”