del venerabile Ajahn Jayasaro
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Traduzione di Laura Russo.
Una riflessione sul Dhamma offerta da Ajahn Jayasaro il 29 maggio 2006 al Monastero Buddhista Amaravati. Pubblicato in inglese nel sito web amaravati.org.
Uno degli insegnamenti più noti di Luang Por Chah è quello del lasciare andare, e una delle frasi chiave, che egli usò per spiegare cosa significasse il lasciare andare e come sviluppare questa abilità è che dovremmo lasciare andare “all’interno dell’azione stessa”. Questo ci ricorda subito che lasciare andare non è un astenersi dall’agire, non è passività, bensì si verifica all’interno dell’azione stessa.
In quanto monaci e monache di questa Tradizione thailandese della Foresta, possiamo a volte ritrovarci ad essere noi stessi accusati di attaccamento nei confronti del Vinaya, dell’attaccamento ad una disciplina. Questa è un’accusa difficile da confutare. Se qualcuno dice che sei attaccato al Vinaya, significa che devi smettere di mantenere i precetti per dimostrare che non ne sei veramente attaccato? Io penso che sia necessario fare una distinzione tra l’attaccamento e la devozione o fedeltà.
Infatti, in Pali esiste un’interessante distinzione tra due importanti parole: upādāna e samādāna. Upādāna è una parola che per molti di voi risulterà familiare, la parola che di solito traduciamo con “attaccamento” o “aggrapparsi”. Samādāna è una parola che appare nei precetti, è la parola che indica l’assunzione di un precetto. La differenza è che con upādāna ci attacchiamo attraverso l’ignoranza. Con samādāna teniamo qualcosa con saggezza, la manteniamo per il tempo necessario che occorre per trattenerla. Ajahn Chah questo lo spiegherebbe dicendo che non è che non si prenda l’oggetto. Ad esempio, prendete in mano una bottiglia d’acqua, inclinate la bottiglia fino a quando avete la quantità d’acqua necessaria e poi la mettete giù. Se non prendete affatto la bottiglia, non avrete mai acqua nel bicchiere. Così samādāna è il prendere qualcosa, usando, assumendo un precetto o una pratica con saggezza. O avendolo assunto, relazionandosi ad esso con devozione e fedeltà.ù
Lasciare andare non significa che non ci assumiamo delle responsabilità, che non ci facciamo carico delle pratiche, ma che lasciamo andare all’interno di quelle pratiche. Cos’è esattamente ciò che lasciamo andare? Lasciamo andare i cinque khandha. Essi sono il corpo, le sensazioni, le percezioni, i pensieri – i dhamma (fenomeni, oggetti mentali) salutari e non salutari presenti nella mente – e la coscienza dei sei sensi. Quando diciamo che li lasciamo andare, usiamo questa breve espressione per dire lasciare andare la brama e l’aggrapparsi a quelle cose attraverso l’ignoranza. Ma ovunque noi ci troviamo, chiunque noi siamo, qualsiasi pratica intraprendiamo, abbiamo sempre a che fare con questi cinque khandha o aggregati.
Lasciamo andare il nostro attaccamento al corpo fisico. Ciò non vuol dire essere negligenti o non prendere medicine se ci ammaliamo, ma che esaminiamo le nostre menti e stiamo attenti a non identificarci con il corpo fisico. La pressione della nostra identificazione è molto forte, particolarmente al giorno d’oggi. Una volta la maggior parte della gente viveva in comunità abbastanza piccole con non molte opportunità per viaggiare, in particolare in Thailandia e, prima della rivoluzione industriale, anche nel mondo occidentale. Le volte in cui vi sareste confrontati con qualcuno più attraente di voi sarebbero state piuttosto poche. Ma di questi tempi, particolarmente se vivete a stretto contatto col mondo, ovunque andiate, venite bombardati da immagini di persone attraenti. Che si tratti di cartelloni pubblicitari e televisione, o di riviste e giornali, siete costantemente tentati a confrontare voi stessi, il vostro corpo con quei corpi, e a sentirvi scontenti del vostro aspetto. In particolare, le donne sono state sfortunate nel corso della storia per quanto siano state sottoposte al lavaggio del cervello o costrette a misurare il loro valore come essere umani dal fascino dei loro corpi.
Se vi identificate con il corpo, naturalmente vi state identificando con qualcosa che vi tradirà. Il corpo non è un buon amico. Fate ogni cosa per il corpo, ve ne prendete cura così diligentemente, trascorrete così tanto tempo a occuparvene, siete così gentili col vostro corpo e, alla fine, come vi ripaga? Diventa vecchio, si ammala, cade a pezzi e muore. Questo è un promemoria della verità fondamentale sulla quale dovremmo riportare la mente ancora e ancora e ancora: niente dura per sempre. È una frase così potente. È un promemoria di una verità molto semplice, la semplice verità di anicca, l’impermanenza. Non c’è niente che duri. Ed è attraverso il riportare le nostre menti su verità così semplici che riconosciamo la resistenza nei loro confronti che tutti noi nutriamo.
Quanto desideriamo ardentemente che le cose durino, almeno quelle che ci piacciono? Guardiamo i racconti, i romanzi: una notte al chiaro di luna, un giovane uomo, una giovane donna, “Vorrei tanto che questa notte durasse per sempre”. Come possono dire questo? In realtà sanno che non dura. Siccome la notte al chiaro di luna e quell’intensità dell’emozione romantica non durano, sopraggiunge questo tipo di espressione: “Se solo questo potesse durare per sempre, se solo potessimo fermare questo momento nel tempo”. Ma non possiamo. Niente dura.
Questo corpo non dura. Così più investiamo il nostro senso di dignità, benessere e identità nel corpo, più ci stiamo preparando a soffrire. Non è una questione di adottare un particolare atteggiamento nei confronti del corpo, ma piuttosto di essere disposti a guardarlo molto chiaramente. Quando guardiamo i corpi delle altre persone, possiamo notare quanto precisi e quanto prevenuti siamo, quanto tendiamo a soffermarci su certi aspetti del corpo e cerchiamo invece a distogliere le nostre menti da altri aspetti. La mente è attirata da quegli aspetti del corpo che sono eccitanti, stimolanti, che troviamo belli. Quando troviamo qualcuno attraente, certe parti del suo aspetto fisico ci affascinano.
Ci innamoriamo molto raramente del cerume, o del muco, o di cose di questo genere. “Stavo camminando per strada e ho visto una bellissima ragazza, il suo naso stava colando e il moccolo brillava proprio alla luce del sole… ho capito subito che era amore”. Non è così! Ma il muco e il cerume sono anch’essi parti del corpo come molte altre, i capelli, i seni, le gambe, come qualsiasi cosa che gli uomini e le donne trovano attraente in ognuno dei loro corpi. Così, se osserviamo, vediamo quanto il nostro apprezzamento per un corpo fisico sia unilaterale. Ciò non vuol dire che dovremmo essere miserabili e guardare tutti come possessori di corpi sudici e disgustosi. Bensì osserviamo per vedere se il nostro apprezzamento al corpo è o no unilaterale, perché quando è unilaterale è dominato dall’ignoranza. E ovunque ci sia ignoranza, c’è brama. Ovunque ci sia brama, c’è attaccamento. Ovunque ci sia attaccamento, c’è sofferenza. Così siamo attaccati al corpo e cerchiamo di trovare dei modi per riconoscere quell’attaccamento, per vedere la sofferenza inerente all’attaccamento. E da ciò sorgerà l’impeto, il chanda (una forma di desiderio abile, salutare), la volontà di lasciare andare quell’attaccamento.
Similmente con la sensazione; vedere quanto delle nostre vite sia dominato da vedanā, le sensazioni, quanto restringono la nostra condotta. Quante volte ci allontaniamo da azioni salutari, nobili, belle semplicemente perché temiamo dukkha-vedanā, le sensazioni spiacevoli, che potremmo dover affrontare mentre compiamo quelle azioni? Quanto spesso compiamo azioni che sappiamo dal profondo del cuore che ci porteranno a soffrire – azioni che sono sciocche, sono banali, sono ignobili – meramente a causa della sete per le sensazioni piacevoli che sorgeranno nel compierle? Quanto spesso tradiamo i nostri stessi ideali semplicemente attraverso la debolezza che si manifesta come amore verso le sensazioni piacevoli e avversione e paura nei confronti delle sensazioni spiacevoli?
Nella società moderna, una delle virtù maggiormente sottovalutata e dimenticata è quella della pazienza – la sopportazione paziente. Si pensa che uno dei vantaggi della ricchezza sia la libertà dalla necessità di sopportare le cose che non ci piacciono, avendo tutto a portata di mano ogni qualvolta lo vogliamo, non appena lo vogliamo. Anche come monaci, a volte diciamo: “Oh, è stato terribile, ma almeno da ciò ne ho ricavato sopportazione paziente”. È come una specie di premio di consolazione. Se non ricaviamo nient’altro da esso, almeno otteniamo un pochino di sopportazione paziente. La pazienza non è una virtù che qualcuno, anche i monaci odierni, tende ad incoraggiare. E ancora quando leggiamo l’ovāda pāṭimokkha (un sommario dei punti principali del Dhamma-Vinaya), cosa dice il Buddha? Dice che la sopportazione paziente, khanti, è il supremo inceneritore delle contaminazioni.
Logicamente parlando, se siete sinceramente intenzionati a sradicare completamente le contaminazioni, quando qualcuno agisce in modo veramente irritante e voi dovete munirvi di tanta pazienza, dovreste essergliene estremamente grati perché vi sta aiutando ad incenerire le vostre contaminazioni. Quando ritrovate voi stessi nella posizione di dover esercitare la pazienza, ciò non significa che non stiate praticando o che si tratti di una qualche sorta di pratica ausiliaria o secondaria. È il cuore della pratica. Però c’è un punto da chiarire qui, che la vera pazienza, khanti, è quella in cui non esiste il senso del tempo. Se state digrignando i denti, pensando: “Quanti minuti ancora?” e “Quando finirà tutto questo?” non è realmente presente khanti. Quando c’è khanti, non c’è quel senso del tempo. È la perfezione della pazienza.
C’è una meravigliosa espressione di Luang Por Sumedho: “La coesistenza pacifica con ciò che è spiacevole”. Osservate il vostro atteggiamento verso le sensazioni piacevoli e spiacevoli, e trovate un modo per lasciarlo andare. Naturalmente, quando meditiamo, ci riferiamo e miriamo alla pace, alla tranquillità, alla chiarezza della mente, ma allo stesso tempo dovremmo riconoscere che la meditazione è la via nella quale ci confrontiamo o incontriamo noi stessi. È come se guardassimo la nostra mente al microscopio e una delle cose che dovremmo essere molto interessati ad osservare nella meditazione è il nostro atteggiamento, la nostra reazione o risposta riguardo la sensazione piacevole e quella spiacevole.
Cosa succede quando una gamba, un ginocchio o la schiena iniziano a farvi male durante la meditazione? Vi deprimete? Vi fa arrabbiare? Diventate ansiosi? Vi sentite avversi? Quali tipi di reazione sorgono? Se quelle reazioni negative sorgono abitualmente quando fate esperienza di un dolore nel corpo mentre state seduti, potete essere abbastanza sicuri che quelle stesse reazioni sorgono nella vostra vita quotidiana quando dovete sopportare qualcosa di spiacevole, che sia fisica o mentale. In meditazione state svelando e divenendo abili nel guardare molto più chiaramente le reazioni mentali complesse nei riguardi delle esperienze che si verificano nella vita quotidiana, ma come se ciò accadesse in un laboratorio.
Allo stesso modo con le sensazioni piacevoli. Alcuni meditanti sono sorprendentemente impauriti dalle sensazioni piacevoli, impauriti di lasciarsi trasportare da esse, impauriti nel rimanerne assorbiti, attaccati ad esse. La gente può sperimentare questa paura a tal punto da non penetrare realmente l’oggetto di meditazione nella misura in cui dovrebbe. C’è paura di una beatitudine travolgente. Alcune volte il bisogno di controllare può essere addirittura più forte del movimento verso la pace e la felicità interiori. Ma il sentiero verso la liberazione, il sentiero verso la comprensione della sofferenza, può essere soltanto pienamente seguito e la sofferenza può veramente essere soltanto capita da una mente felice, sukha. Se non avete una mente felice, si tratta sempre della “mia sofferenza”. L’unico stato in cui riuscite a comprendere la sofferenza come Nobile Verità è quando non state soffrendo, quando vi sentite felici, contenti e a vostro agio, almeno a livello di vedanā. In questo modo sukha è parte del Sentiero, e il meditante, il praticante, cercherà un rapporto saggio e intelligente con le sensazioni piacevoli. Questo è il lasciare andare delle sensazioni piacevoli. Sperimentare le sensazioni piacevoli come sensazioni piacevoli: questo è quanto, niente di più, niente di meno. È una bellissima cosa, ma non la più elevata. Tuttavia possiamo apprezzarla e farne uso nel Sentiero.
Lasciare andare le sensazioni spiacevoli e piacevoli non vuol dire che dobbiamo tenercene lontani, o diventare insensibili nei loro riguardi. Lungi da questo. Ma c’è il senso di risveglio alla natura della sensazione spiacevole, piacevole e neutra. Per la maggior parte di noi c’è costante scontentezza e disagio nella mente a causa di una mancanza di chiarezza riguardo la sensazione. Se qualcuno dice: “Guarda, ho intenzione di darti un po’ di sensazione spiacevole… un po’ di dolore, giusto un pochino. Ti piacerebbe?”. “No”. Nessuno lo vorrebbe. “Ti darò un pochino di beatitudine, giusto un pochettino di beatitudine, giusto una puntina di beatitudine”. “Sì, grazie!”. Questa è una riflessione sul movimento all’interno della mente.
Uno dei valori del Samādhi e dell’imperturbabilità della mente che proviene mediante il suo sviluppo è l’abilità estremamente potenziata di stare con le cose senza aggrapparcisi e a vedere la sensazione come sensazione: sensazione piacevole e sensazione spiacevole. Questo è qualcosa a cui siamo interessati. Così se state seduti e avete qualche fastidio e dolore, ciò non significa che non siete in grado di meditare. Ecco di cosa si tratta. Si tratta di pervenire a dimorarci più pienamente, in maniera più completa, per arrivare a risvegliarvi alla realtà presente e lasciare andare all’interno delle sensazioni.
Tutti noi abbiamo ricordi, percezioni – saññā. Ma spesso il modo in cui conduciamo la nostra vita è troppo condizionato dalle percezioni e da come portiamo con noi idee che spesso rimangono trascurate, idee riguardo persone, situazioni, monasteri e così via. Ricordo di aver parlato una volta con un monaco che stava criticando un altro monaco. (Sì, anche i monaci qualche volta lo fanno). Disse: “Oh, il monaco tal dei tali sta per arrivare e rimanere qui e non è molto simpatico. Possiede questa brutta qualità e quella brutta qualità”. E io dissi: “Oh, allora lo conosci molto bene?”. Egli disse: “Sì, abbiamo trascorso un Ritiro delle Piogge insieme cinque anni fa”. E così lui aveva tracciato e preso le misure a questo monaco sulla base di un periodo di tre mesi di cinque anni addietro”. Questo è un buon esempio di come vediamo gli altri esseri umani come personalità, come qualcosa di fisso e immutabile, mentre nei fatti siamo esseri mutevoli. Non c’è assolutamente nulla di fisso e immutabile in noi. E questo è in modo particolare il caso di coloro che sono sul sentiero di pratica.
In Thailandia, e in realtà in molti altri paesi, indovini e chiromanti sono molto popolari. Ma dei buoni chiromanti si rifiuteranno di guardare il palmo della mano di chi sta meditando, praticando molto ardentemente. Loro dicono che quando qualcuno inizia a meditare, tutti i giochi sono fatti, per così dire. Non sono sicuri di poter predire il futuro di qualcuno che ha iniziato a praticare a livello di sīla, samādhi, paññā, la pratica interiore-esteriore in armonia simultanea. Qualcosa cambia, il cambiamento prende piede. Il Buddha espresse questo splendidamente in varie occasioni. Quando coloro, che erano dapprima disattenti, si allontanano dalla disattenzione e diventano attenti, intraprendendo il sentiero della pratica, divengono tanto belli da illuminare il mondo come la luna piena che sbuca da dietro le nuvole. Questo forse è uno degli insegnamenti del Buddha più essenziali e caratteristici – la sensazione che possiamo cambiare. Il nostro futuro non è determinato da Dio, dalle divinità o dalle stelle. È determinato dalle nostre stesse azioni del corpo, della parola e della mente. Siamo capaci di assumere la responsabilità delle nostre vite ed effettuare reali e durevoli cambiamenti – sbalorditivi cambiamenti – se seguiamo l’Ottuplice Sentiero che il Buddha ha stabilito per noi, non selezionando o scegliendo, ma accettando l’intero pacchetto, l’intera vasta serie di insegnamenti.
Riconoscere così fino a che punto siamo limitati dalle percezioni, dai ricordi. Avremo percezioni su noi stessi di essere senza speranza, inutili, inadeguati (o forse di essere molto capaci e brillanti, e così via). Ma alla fine queste sono solo percezioni. Per molto, molto tempo avete abbracciato l’idea che voi stessi eravate un certo tipo di persona, e ci avete pensato così tanto, e vi ci siete soffermati così tanto, che diventa una verità ovvia. E poi un giorno in meditazione, improvvisamente vedete che si tratta solo di una bolla. È solo un altro pensiero. È solo un’altra percezione. È solo qualcosa che sorge e cessa.
Spesso la gente arriva alla pratica spirituale, alla meditazione, pensando: “Non mi piace chi sono. Mi piacerebbe essere una persona diversa”. Quest’idea di essere qualcuno che veramente non vi piace, e che vorreste essere qualcun altro, è un approccio sbagliato, errato e infine frustrante. Invece, quando guardate attentamente, la vostra intenzione è osservare e imparare da ciò che è presente. Vedrete poi che quelle idee di essere “qualcuno” sono proprio cose che sorgono e cessano. Non c’è assolutamente nulla di sostanziale in esse. Se c’è un “problema”, non è un problema.
Ma, sebbene osserviate molto attentamente la natura delle percezioni e dei ricordi, non potete vivere senza di essi. Dovete lasciare andare all’interno del ricordo e della percezione. E lasciate andare vedendo il ricordo e la percezione per quelle che sono. È già molto. Proprio in questo modo. È proprio così com’è. Questo è il modo in cui la mente è, il modo in cui lavora. E va bene così.
Il quarto khanda è saṅkhāra. È il khanda del kamma. Possiamo parlare dei cinque khanda, in diversi modi. Dei cinque khanda, rūpa (corpo), vedanā (sensazioni), saññā (percezione) e viññāṇa (esperienza sensoriale) sono vipāka, i risultati del kamma passato. Mentre saṅkhāra khanda è guidato e dominato dalla volontà. È il khanda della creazione del kamma: i kusala kamma e gli akusala kamma, azioni salutari e non salutari. E volontà, pensiero e intenzione sono i dhamma di cui abbiamo bisogno di lasciare andare.
Qui facciamo una distinzione tra kusala e akusala. Lasciamo andare certi tipi di volizioni rifiutando di porre l’attenzione ad essi. Ci sono certe volizioni, certi treni di pensiero che sono così velenosi in cui non osiamo affatto permettere alla mente di indulgere. Quando la mente diviene consapevole che questi tipi di dhamma velenosi – pensieri di violenza, di far del male o trarre vantaggio dagli altri, ad esempio – sono nella mente, diventa necessario avere acutezza e la capacità degna di un guerriero di troncare queste forme di volontà egoista, lussuriosa, irascibile e distruttiva. Qui il lasciare andare è molto più forte: è un troncare. Con le volizioni salutari invece è una questione di adozione di un comportamento senza identificazione. Adottiamo le pratiche di consapevolezza, lo sviluppo della gentilezza amorevole, la pratica di paziente sopportazione, di sforzo costante e incessante. Questi sono i compiti che mettiamo in atto, ma senza creare un nuovo “sé” o un nuovo “essere” al di fuori di essi. Perciò lasceremo andare, non permetteremo alle nostre menti di essere trascinate da come “dovrebbero essere” le cose. Una volta che abbiamo un’idea di come le cose dovrebbero essere, saremo offesi e disturbati da tutte le cose che non sono nel modo in cui pensiamo che debbano essere.
Perché si considera così offensivo il comportamento di certe persone? Di solito è per l’idea che non dovrebbero essere così. Così quando la mente si sofferma sul “dovrebbe” e “non dovrebbe”, vi state preparando a soffrire. Perché le persone non dovrebbero essere egoiste? Perché non dovrebbero essere aggressive? Perché non dovrebbero fare tutte le cose terribili che fanno? Eppure, perché no? Se le loro menti sono così, se vedono le cose così, hanno questo genere di punto di vista, quei tipi di valori, perché no? Tale comportamento allora risulta perfettamente naturale. Quando le cause e le condizioni sono così, la condotta sarà così.
Più osservate le cose in termini di cause e condizioni, più potete lasciare andare. Se qualcuno parla molto aspramente, vedete che è perché ha quel modo di vedere le cose, perché ha sviluppato quel tipo di abitudine, perché ha sempre parlato così. Più riuscite ad osservare le condizioni sottostanti al comportamento, più riuscite a lasciare andare.
Dove risiede il nostro senso di unicità? Noi diciamo: “Questo è ciò che sono veramente. Questo sono io. Questo è ciò che mi rende differente da chiunque altro. Questo è ciò che mi rende speciale. Questo è ciò che fa di me ciò che sono”. Ecco dove risiede l’illusione. Ecco dove risiede l’attaccamento. Questo nevrotico bisogno di essere diversi, di essere fuori dal coro o di sparire nell’ombra: queste sono reazioni alla necessità di base di creare un porto sicuro, un rifugio nel posto sbagliato. Siamo alla ricerca di rifugio. Cerchiamo qualcosa che sia stabile, sicuro, permanente, felice… in ciò che è impermanente, instabile e che non dura. Non c’è niente di sbagliato nel corpo, niente di sbagliato nelle sensazioni, percezioni, pensieri, nella vista, nell’udito, nel gusto, in tutte queste cose. Ma i problemi sorgono quando esigiamo, speriamo, agogniamo che quelle cose ci offrano ciò che non possono offrire. Quello di cui siamo davvero disperatamente alla ricerca è la permanenza, la felicità e la stabilità, e quelle cose possono solo essere trovate nella libertà dagli attaccamenti, dalla penetrazione delle Quattro Nobili Verità.
Nella psicologia freudiana la religione o l’impulso spirituale è visto come una sorta di deformazione o trasformazione dei desideri sessuali. Dal punto di vista buddhista, tutti i forti desideri sessuali, la lussuria, la brama e così via sono solo distorsioni della profonda aspirazione umana al nibbāna. Il desiderio sessuale al livello di pratica dell’anāgāmi scompare completamente, per non tornare mai più. (Anāgāmi: “colui che non ritorna”, il terzo stadio sul sentiero verso il nibbāna.)
Non è una questione di avere un sano rapporto che funziona con le contaminazioni. Ma le contaminazioni sono lì e possono soltanto esistere perché non vediamo le cose chiaramente. Non riconosciamo che all’interno di questi cinque khanda c’è qualcosa in noi che anela al nibbāna, che si sente attirato dal nibbāna, attirato dal lasciar andare tutti gli attaccamenti al corpo, sensazioni, percezioni, pensieri, virtù, vizi, ed esperienza dei sensi. Attraverso la pratica impariamo a essere “presenti” al presente, vivi, svegli alle cose come sono, piuttosto che al modo in cui pensiamo che le cose siano, al modo in cui le cose “debbano” essere. Cosa sta accadendo proprio ora? Cos’è questa vita? Cos’è questo momento presente? Cos’è questo corpo? Cosa sono le sensazioni? Cosa sono le percezioni? Cosa sono i pensieri? Cosa sono le emozioni? Cosa sono le esperienze sensoriali attraverso gli occhi, le orecchie, il naso, la lingua, il corpo? Questa è la mente che va alla ricerca, investigativa, interrogativa.
Il Buddha non voleva che noi credessimo nei suoi insegnamenti. Questo non è un sistema di credenze. Egli ci ha fornito gli strumenti da usare per penetrare la natura delle nostre vite e allineare noi stessi sempre più chiaramente, sempre più autenticamente, con ciò che sta realmente accadendo qui ed ora. Così lasciamo andare, e osserviamo com’è pesante attaccarsi alle cose, che fardello è, quanto limitante, quanto oscuro; attaccarsi al corpo, alle sensazioni, percezioni, a tutti questi aggregati, alla speranza e alla preghiera che essi ci daranno qualcosa che davvero non possono offrirci.
Più lasciamo andare, più leggeri e felici ci sentiamo. È attraverso la felicità del lasciar andare che la mente diventa coraggiosa abbastanza e ha il potere di penetrare il modo in cui le cose sono. La mente infelice è debole, dispersiva, frammentata, senza quella stabilità interiore della concentrazione. È solo attraverso la capacità di lasciare andare l’indulgere in cose come i pensieri del passato o del futuro, insieme alla rinuncia di sensazioni piacevoli molto piccole e piuttosto banali che la mente può penetrare in ciò che è più profondo e radicato.
Testo originale: https://amaravati.org/a-dhamma-article-by-ajahn-jayasaro-letting-go-within-action/