Insegnamenti

Siamo tutti traduttori

del venerabile Ajahn Munindo

© Ass. Santacittarama,2003. Tutti i diritti sono riservati.
SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.
Traduzione di Chandravimala Candiani.


Tratto da discorsi tenuti da Ajahn Munindo durante una visita al monastero Bodhinyanarama, N.Z. nel febbraio e marzo del 2000.

IN QUESTA OCCASIONE VORREI DISCUTERE non del lavoro di traduzione di testi, ma dello sforzo che tutti noi facciamo di traduzione della pratica del buddhismo. Forse non vi è mai venuto in mente di essere dei traduttori. Siamo tutti traduttori nel senso che gli insegnamenti che abbiamo ereditato dai nostri fratelli e sorelle asiatici non possono venir semplicemente sradicati e ripiantati in un altro posto del pianeta senza prestare attenzione alle diverse condizioni ambientali. Benché negli insegnamenti ci siano alcuni principi universali, essi contengono molto di relativo alla cultura e alla tradizione. Perciò sostengo che il modo in cui accogliamo la pratica buddhista e il tipo di sforzo che facciamo è il nostro contributo a questo comune compito di traduzione. Possiamo esserne più consapevoli?


Ho spesso parlato della necessità di identificare quanto negli insegnamenti appartiene alla forma e quanto al dominio dello spirito. Confondere i due ambiti può far mettere l’accento nel posto sbagliato e così facendo conseguiamo risultati che non avevamo previsto. Ma affrontare tali temi non è per niente facile. La splendente radiosità di questi insegnamenti e tecniche esotici ci affascina facilmente, soprattutto perché siamo stati nell’oscurità tanto a lungo. Possiamo sentirci appagati nel contentarci di questa risposta iniziale, abbagliati dalla luce appena scoperta. Tuttavia, il Buddha ha insistentemente incoraggiato a non farsi ingannare dal modo in cui le cose sembrano essere; solo dopo lungo esame dovremmo accettare pienamente qualcosa come vera. Il senso di questo incoraggiamento è che dovremmo arrivare a conoscere direttamente da noi stessi il beneficio degli insegnamenti. D’altra parte, il Buddha non consiglia di accantonare le cose perché non ne vediamo immediatamente il senso. Dunque, come avvicinare il tema della possibilità di discernere lo spirito degli insegnamenti?

Discernere l’essenza

La motivazione al nostro intraprendere la via buddhista è di trovare un sostegno all’ardente desiderio del nostro cuore di essere libero, e naturalmente cominciamo osservando il modo i cui gli altri si impegnano nella pratica. Ma se una particolare tecnica o un sistema è stato usato con successo da qualcuno, questo non significa automaticamente che funzionerà per qualcun altro. Una particolare forma può aver soddisfatto le aspirazioni di qualcun altro, ma non soddisfarà automaticamente le nostre. E’ saggio chiedersi: “Cos’è importante per me? Cosa si accende in me quando incontro un insegnante o ascolto un insegnamento?” Mi piace pensare alle convenzioni religiose paragonandole alle convenzioni che riguardano il cibo. Se siamo affamati, l’essenziale è liberarci dal dolore della fame. Che si vada a un ristorante giapponese e si mangi con le bacchette, o a un ristorante tailandese e si usi un cucchiaio o a un ristorante indiano e si mangi con le dita, le convenzioni non sono l’essenziale. Il punto è sentirsi sazi. Così è con la pratica. L’essenziale è che il nostro cuore si senta nutrito. Dunque, il nostro compito è identificare cosa sia nutriente e concentrarsi su di esso. In questo consiste identificare il dominio dello spirito. Se diamo questa priorità, qualsiasi cosa questo significhi nel nostro caso, allora le forme che sostengono lo spirito evolveranno nel modo giusto. Non dare allo spirito la dovuta priorità significa lasciarci sfuggire qualcosa degno di valore.


Ciò che potremmo lasciarci sfuggire è la partecipazione creativa alla nostra ricerca. Se vogliamo che la nostra traduzione sia efficace, dobbiamo esservi creativamente coinvolti. Certo, rispettiamo le forme che ereditiamo; dobbiamo iniziare da qualcosa. Certe volte, questo comporta il semplice fare ciò che ci viene detto, a questo stadio, la priorità sta nell’apprendere la forma. Se per esempio, stiamo imparando il Tai Chi, non mettiamo in disussione l’insegnante perché i movimenti ci sono disagevoli e alla terza lezione ci mettiamo a dare suggerimenti su come cambiare la forma. No, anche se all’inizio possiamo sentirci goffi e apparire un po’ sciocchi, impariamo semplicemente ed accettiamo umilmente la forma anche se ci sembri inappropriata, ricordando che queste forme sono di sostegno allo spirito, in questo caso per lavorare con il Chi. Se pratichiamo la forma con impegno, arriviamo alla fine a rilassarci nella forma. Allora, il Chi comincia a muoversi e ci sentiamo grati.


Dunque, non rifiutiamo le forme. Le assumiamo e aspettiamo finché non ci siamo stabilizzati in esse. Allora, cerchiamo di far sì che lo spirito si muova. Quando siamo entrati in totale familiarità con lo spirito, allora esso diventa la priorità. A questo punto, siamo in contatto con l’essenza. In questo modo, saremo in grado di cambiare le forme, senza compromettere od ostacolare lo spirito. Se tentiamo di cambiare le cose troppo presto, basandoci su quel che ci piace e non ci piace, finiremo per creare degli ostacoli.

Con presa leggera

Guardiamo con rispetto alle pratiche che intraprendiamo, cercando lo spirito; l’insegnante dice: “ Pratica in questo modo, non praticare in quell’altro.” Facciamo quello che ci dice l’insegnante, ma, procedendo, iniziamo a verificare e a sentire. Non ci limitiamo a credere. E’ necessario aver fiducia nel nostro insegnante, ma la fiducia non è semplice credere. C’è una grande differenza tra aver fiducia in quello che gli insegnanti ci offrono e credere in loro e nelle loro tecniche. Molti di noi arrivano ad intraprendere questo sentiero col condizionamento di una diversa tradizione religiosa, una tradizione che considera il credere come un passo essenziale. Un tale approccio non può essere applicato nell’insegnamento buddhista. Nel buddhismo credere è solo funzionale. Crediamo in cose come, per esempio, la rinascita, crediamo che dopo la morte, si rinasca. Ma molti di noi non sanno se questo sia oggettiavamente vero. Io non so se è vero. Ci credo, ma il modo in cui ci credo significa che se qualcuno mi dice che è un non-senso, va bene. Non me ne preoccupo. Possono avere il loro punto di vista se lo desiderano. Scelgo di prestar fede alla credenza che c’è un processo di rinascita, ma in modo leggero. Credere non è il punto finale. Quando il nostro insegnante ci dice di praticare in un certo modo, accettiamo sulla fiducia questo insegnamento. Il Buddha usava l’immagine dell’orafo che purifica l’oro per descrivere il nostro sforzo per purificare la relazione con gli insegnamenti. E’ un processo che consiste nel togliere continuamente le scorie fino ad ottenere l’oro puro. La nostra relazione con gli insegnamenti si purifica coltivando l’investigazione, accompagnata da sensibilità, riguardo a come gli insegnamenti funzionino per noi. Quando, praticando vari esercizi e tecniche, incontriamo qualcosa che non funziona, cominciamo ad avere dei dubbi. Va bene. I dubbi non devono essere un ostacolo nella nostra pratica. I dubbi possono anche stare ad indicare che lo spirito di investigazione è vivo dentro di noi.


L’investigazione è qualcosa di naturale per noi occidentali e andrebbe valutata. Questa naturale capacità d’investigazione è uno dei possibili contributi al nostro compito di traduzione. Non dovremmo automaticamente supporre che, siccome la nostra esperienza sembra contraddire quello che altri dicono, loro hanno ragione e noi torto. Ascoltiamo. Sentiamo quanto viene detto. Investighiamo. E se procediamo con la buona volontà di andare per gradi, traducendo nella pratica tutto ciò che sperimentiamo, allora ho fiducia che una comprensione organica e durevole nascerà dal nostro sforzo. 


Mentre scopriamo da noi cosa funziona e cosa no, cresce la fiducia, recando beneficio a noi individualmente e più ampiamente all’intera comunità. Scoprire la propria vera via di pratica è come trovare un buon ristorante; la priama cosa che si desidera è di portarci gli amici. Ho la sensazione che se arriviamo a tale fiducia in un cammino graduale, ponendoci rispettosamente delle domande mentre procediamo, riusciamo a trovare il nostro modo personale di esprimere la via. Non ci limitiamo a usare le parole di altri. La fiducia traboccherà, noi nemmeno ce ne accorgeremo, ma gli altri sì.

I due orientamenti dello sforzo

Un modo per raffigurarci il compito di tradurre la pratica è quello di osservare da vicino come intromettiamo gli insegnamenti. Se lo sforzo che facciamo non proviene da una dimensione di fiducia, non solo sprechiamo energia, ma possiamo anche farci del male. Noto molta confusione nel modo in cui molti meditanti occidentali si relazionano ai diversi tipi di sforzo richiesti nella pratica. C’è talvolta una sorta di ingenua speranza che attraverso un incessante sfacchinare, un continuare a fare le stesse cose per anni, ne sortirà qualcosa di buono. Ora, sono convinto che ci siano essenzialmente due diversi e distinti orientamenti dello sforzo, l’orientamento alla meta e l’orientamento alla fonte. Per anni, ho cercato di praticare con una meta posta all’esterno da raggiungere con l’impegno. Secondo la mia comprensione degli insegnamenti per come li avevo recepiti, era questo che avrei dovuto fare. Avevo ricevuto istruzioni in varie tecniche che erano orientate verso la realizzazione di questa meta. La meta era chiamata ‘illuminazione’ o ‘il senza-morte’ o cose del genere, ma in ogni caso era collocata all’esterno nel futuro. Venivo incoraggiato a fare un grande sforzo per raggiungere la meta e a sfondare gli ostacoli che ostruivano il progresso verso quella meta. E anche quando le parole non dicevano direttamente che la meta era fuori, era comunque questo il messaggio che io recepivo. Alla fine, mi trovai bloccato in un nodo di terribile frustrazione. A un certo punto sentii che tutto il mio impegno nella pratica veniva seriamente minacciato. Con gratitudine, e con un po’ di aiuto, arrivai a comprendere che la lotta da cui ero catturato riguardava la sensazione di dover arrivare da qualche parte. Avevo introiettato l’idea di dover in qualche modo sistemare me stesso, cambiare quello che ero e raggiungere qualcos’altro. Era chiaro che non funzionava e dunque ci rinunciai. Nel rinunciarvi, ebbi la sensazione di iniziare un viaggio verso casa. Che sollievo! Proprio quando cominciavo a chiedermi se il viaggio stesse per arrivare a un’improvvisa e triste fine, sentii di potermi accasare in qualcosa di perfettamente naturale. E con questo mutamento sorse la sensazione, all’inizio non notata, di essere personalmente responsabile. Era un fatto nuovo.


Da questa esperienza ho sviluppato una pratica caratterizzata da un forte senso di fiducia in ciò che già esiste. Era completamente diverso dal lottare per raggiungere una qualche meta. Lo sforzo che questo nuovo apprezzamento spontaneamente suscitava era il ‘non cercare’. La mia attenzione era, ed è, nell’osservare e sentire in questo momento, investigando: “Dove e quando giudico questa situazione come in qualche modo inadeguata o sbagliata o mancante?” Mi accorsi che ero in grado di notare piuttosto chiarmente quando imponevo alla vita una qualche nozione di come dovrebbe essere, pensando: “Dovrebbe essere in questo modo, dovrebbe essere in quest’altro.” La mia pratica divenne quella di essere semplicemente, ma risolutamente, con questa consapevolezza. Ora vi faccio riferimento come a una pratica orientata alla fonte, in cui un cuore fiducioso intuisce che quello che stiamo cercando è proprio qui, da nessun altra parte, in nessu luogo fuori di noi.

La volontà scorretta

Molti di noi iniziano a meditare con una forza di volontà che non adempie al suo compito in modo appropriato. Cercando con tanta intensità e così a lungo di aggiustare con la volontà noi stessi, finiamo per abusare della forza di volontà. Se per un certo numero di anni si abusa dell’alcool e si diventa alcolisti, non si può più farsi un bicchierino tra amici. Nel nostro caso, abbiamo abusato della volontà. Ora non può più esserci d’aiuto, è diventata eccessiva e interferisce con qualsiasi cosa accada. Siamo incapaci di limitarci a ricevere una situazione e ad applicare con gentilezza la volontà per dirigere e guidare l’attenzione. Se ci imbattiamo in qualcosa che riteniamo sbagliato, tendiamo automaticamente a rinchiuderla in un’opinione, “dovrebbe essere così”, e poi ci accingiamo con la volontà a cercare di aggiustarla. Per quelli di noi che soffrono di questa disfunzione, impegnare la volontà come strumento primario dello sforzo meditativo non funziona. Invece, se ci distogliamo dalla volontà e ci atteniamo a un atteggiamento di fiducia in ciò che già esiste, fidandoci della realtà e della verità, se smettiamo semplicemente di interferire con la nostra mente compulsivamente giudicante, si farà allora strada un attento e cosciente apprezzamento di ciò che già esiste. 


Se seguite un cammino di pratica orientato alla meta potete contare su un concetto chiaro di quanto dovreste fare e di dove dovreste arrivare. Ci saranno azioni appropriate da intraprendere riguardo a qualsiasi ostacolo possiate incontrare. Ma se il vostro percorso di pratica è orientato alla fonte, le cose saranno molto diverse. In questo caso, ti siedi in meditazione e magari cominci a esaminare la postura del corpo, assicurandoti che la schiena sia dritta e la testa riposi comodamente sulle spalle, il torace aperto, la pancia rilassata; e poi siedi, portando alla consapevolezza la sensazione di non sapere quello che stai facendo. Semplicemente non sai. Tutto quello che sai è che sei lì seduto ( e potranno anche esserci momenti in cui non sarai sicuro nemmeno di quello). Non ti aggrappi a nulla. Ma impegni l’attenzione a osservare la tendenza della mente a voler mettere a posto le cose. Focalizzi l’interesse sul movimento della mente verso il prendere posizione, o a favore o contro. Di solito, quando siedo in meditazione, non faccio niente. Assumo una postura consapevole e mi limito a osservare quello che sta accadendo; forse la mente gira intorno pensando alla liquirizia che ho avuto l’altra sera a casa di qualcuno, o al fatto che è un peccato che il sole si sia nascosto o a come mi troverò questa volta a Beijing la prossima settimana o al fatto che i monaci di Harnam hanno mandato un e-mail chiedendo se dovessero usare una vernice lucida per le porte della cucina del monastero e così via. Possono scorrere questi pensieri nella mia mente; sono insensati, ma non faccio niente. Assolutamente niente, finché non comincio a sentirmi un po’ a disagio, allora osservo per vedere da dove questo disagio venga. Proviene sempre dallo stesso luogo: “Non dovrei essere così. Dovrei essere… La mia mente dovrebbe essere chiara, non dovrei…” Una volta identificato questo movimento, si ha un assestamento. Quando identifichiamo quello che ci porta via dalla nostra naturale sensazione di centratura, torniamo a casa. Non è il genere di sforzo che si fa in una pratica rivolta alla meta.

Una conoscenza personale

La maggior parte di noi ha una naturale tendenza a propendere verso uno di questi due orientamenti dello sforzo. Alcuni si sentono appagati e fiduciosi quando hanno ben chiaro dove si supponga che stiano andando. Altri, se si concentrano sull’idea di una meta, finiscono per deprimersi, sentendosi come se fallissero; cercando di fermare il pensiero, falliscono; cercando di sedersi in modo appropriato, cercando di rendersi felici, di essere amorevoli, pazienti, di essere consapevoli, sentono sempre che stanno fallendo. Che tremendo inganno! La peggior malattia dei meditanti è cercare di essere consapevoli. Alcuni smettono, sentendo di sprecare tempo. Ma, se comprendiamo che non dobbiamo far altro che essere presenti e consapevoli della mente compulsiva giudicante e della sua cronica tendenza a schierarsi contro o a favore, allora la nostra mente si tranquillizza.


E’ utile comprendere come ognuno di questi due orientamenti ha un suo particolare valore a diversi stadi della pratica. All’inizio, per costruire un po’ di fiducia, è necessario avere una buona padronanza delle tecniche. Anche se ci relazioniamo più facilmente con insegnamenti e pratiche che si orientano alla fonte, se non possediamo delle stabili fondamenta su cui praticare, o se le abbiamo ma la nostra vita è molto indaffarata, può essere appropriato ogni tanto sforzarci di esercitare la volontà e la concentrazione. I due orientamenti non si escludono a vicenda.


Io incoraggio all’inizio a essere molto disciplinati e a contare i respiri, da uno a dieci, poi da dieci a uno, a ogni espirazione: uno, due, tre, fino a dieci, dieci, nove, otto, fino a uno, cercando di essere molto precisi in questo sforzo. In questo modo, arriviamo a sapere che la nostra attenzione è invero nostra. Non siamo schiavi o vittime della nostra mente. Se la nostra attenzione divaga e restiamo catturati nel risentimento o nel desiderio, è necessario sapere che ne siamo responsabili. La nostra pratica, sia che siamo orientati alla meta piuttosto che alla fonte, non progredirà, finché non ci è chiaro che siamo responsabili della qualità di attenzione con cui agiamo. Per raggiungere questa prospettiva può essere necessario esercitare per molto tempo una rigorosa disciplina di attenzione. Ma può succedere di raggiungere un punto in cui sentiamo che continuando a fare questo tipo di sforzo, avremmo bisogno di affinare tecniche e sistemi per conseguire una meta. Ma se in qualche modo sentiamo che non è un metodo appropriato, allora dobbiamo essere pronti a rettificarlo, a lasciar andare del tutto la ricerca di qualcosa. Se è giusto per noi fare questa scelta, allora, quando sentiamo qualcuno parlare della sua diversa maniera di praticare, diciamo: “Ah, sì, va bene.”, ma non ne siamo turbati. E’ molto importante non lasciarci turbare dall’entusiasmo di qualcun altro. 


Quando ci stabilizziamo con più agio e con più fiducia nel compiere il nostro personale ‘retto sforzo’, diventa più facile riconoscere i punti di forza e i punti deboli di diversi stili di pratica. Per esempio, nella pratica orientata a una meta, è probabilmente più facile generare energia. Con un concetto chiaro di quanto si debba fare, l’attenzione si restringe, tutte le distrazioni vengono escluse e ci si focalizza, focalizza, focalizza. Grazie all’essere così esclusivi, l’energia si raccoglie; e in questo modo puoi vedere facilmente i tuoi progressi sul sentiero. E questo a sua volta sostiene la fede.

 Certamente c’è un lato ombra che è in rapporto diretto con questa forza. Nell’essere così esclusivi, si rischia di tagliar fuori cose a cui potrebbe essere utile o necessario dedicarsi; c’è il rischio della negazione. Se vecchie abitudini nevrotiche di fuga non sono state riconosciute e si segue una pratica rivolta alla meta, queste tendenze si accentuano. Questa è l’origine del fondamentalismo. Uno dei punti di forza della pratica orientata alla fonte è che quando ci liberiamo della lotta e del puntare a qualcos’altro dal qui e ora, emerge un equilibrato e completo rilassamento corpo-mente. E questo libera la nostra creatività. Dobbimo essere creativi visto che, non escludendo niente, tutto viene tradotto nella pratica. Non c’è situazione che non sia una situazione di pratica. Tuttavia una creatività non saggia può nutrire l’illusione. Se siamo tanto felici e rilassati da diventare pigri e trascurati per esempio con i precetti, dobbiamo allora riconoscere cosa sta accadendo. Un altro pericolo nella pratica orientata alla fonte, è che quando ci troviamo in un guaio, possiamo non aver voglia di fare alcunché. Questo tende ad accadere perché non ci relazioniamo più alla struttura delle cose nel modo solito. 


Per noi la fede è ispirata non da un concetto di qualcosa che speriamo ci sia in futuro ma da ciò che abbiamo fiducia che sia già essenzialmente vero. Ma se le nubi della paura e della rabbia adombrano la radiosità della nostra fede, possiamo tremare intensamente e magari anche crollare. In questo caso è importante aver già coltivato l’amicizia spirituale. Avere la benedizione di associarsi con altri con cui condividiamo un impegno alla relazione consapevole è una risorsa incomparabilmente preziosa. Quando ci incontriamo con gli amici spirituali si crea una risonanza in cui ci sentiamo giustamente al sicuro. Questa relativa sicurezza può essere per noi quello che i concetti e le mete sono per i tecnici spirituali dell’orientamento a una meta. Col progredire della pratica, ognuno di noi ha il compito di esaminarsi per verificare se ci stiamo muovendo in modo equilibrato o no. E come si riesce a sapere come le cose si muovono? Se ci muoviamo in modo equilibrato, potremo accogliere situazioni sempre più varie, potremo avere a che fare con stati di grande complessità. Se ci muoviamo senza equilibrio, potremo accogliere sempre meno situazioni; la pratica spirituale anziché liberarci e aprirci alla vita, ci renderà intolleranti e dolorosamente tagliati fuori.


E’ dunque saggio per ognuno di noi esaminare la nostra pratica e vedere in quale direzione sentiamo di muoverci più facilmente, quale orientamento di sforzo ci è più naturale, quale linguaggio funziona per noi. Dobbiamo comprendere che gli insegnanti di questi diversi approcci hanno modi differenti di esprimersi. Dunque, ascoltate gli insegnamenti che ricevete, contemplate quello che leggete nei libri, e vagliate quale orientamento dello sforzo vi è congeniale. Una volta che lo avete compreso, vi consiglio di seguire quanto vi ispira.

Spero che possiate considerare questa contemplazione come una parte significativa del nostro contributo al comune compito di tradurre la pratica. Che tutti noi si possa sentirsi incoraggiati a investigare il contributo che diamo a questo compito in questo stadio del suo diffondersi in Occidente. Un’accurata investigazione comporta l’arrivare a riconoscere le nostre debolezze, individualmente e collettivamente, e una volta diventati tranquillamente consapevoli delle nostre mancanze, saremo più creativi. Saremo abili traduttori della pratica. Dove è necessario si creerà un adattamento e sarà al servizio del Dhamma. Forse non lo noteremo nemmeno. Sapremo solo che lo spirito della Via è vivo dentro di noi e che il nostro cuore si sente più a suo agio.