Insegnamenti

Retto Orientamento

di Ajahn Khemasiri

© Ass. Santacittarama, 2013. Tutti i diritti sono riservati.
SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.
Traduzione di Gabriella De Franchis.

Adattamento di un discorso dato nel 2002 a ‘La Retraite’ in Francia.

Ajahn Khemasiri è nato nella ex Germania dell’Est nel 1950. Nel 1984 è diventato novizio presso il Centro Buddhista di Amaravati e nel 1986 è stato accettato nel Sangha dei Bhikkhu. Nel 1993 si è trasferito in Svizzera al monastero di Dhammapāla e nel 1995 si è recato in Thailandia e Birmania. Nel 1999 è ritornato a Dhammapāla dove dal 2005 ne è l’abate.

 

“I kilesā non si sentono a casa propria nel nostro cuore, sono semplicemente dei visitatori.”

 

UNA VOLTA qualcuno chiese ad un rinomato maestro spirituale indiano, “Che cosa è la rinuncia?” e il maestro rispose, “La rinuncia è l’abbandono di qualsiasi senso del sé”. “E per questo bisogna abbandonare tutto ciò che si possiede, tutto quello che ci appartiene?”. Il maestro rispose: “Bisogna abbandonare soprattutto il possessore”.

Anche nel Buddhismo, ovviamente, l’atto di rinuncia è un principio importante. Spesso viene associato alle persone che, in modo palese, praticano la via della rinuncia, come i monaci e le monache o i santoni che vagano per le strade dell’India. Ma questo abbandonare i possedimenti terreni come atto di rinuncia è solo la forma esteriore. Più importante è il senso di rinuncia interiore: abbandonare tutti gli impulsi, i pensieri, le sensazioni e le emozioni che vengono dal senso dell’ ‘io’, dall’identità egoica.

Sappiamo tutti di non essere in grado di bloccare questi impulsi con un semplice atto di volontà, o con un voto o una dichiarazione del tipo: “Rinuncio a tutti gli impulsi negativi. D’ora in poi non cederò ad alcun sentimento negativo”. Anzi, se facciamo delle dichiarazioni così ardite, è probabile che molto presto saremo investiti da un’ondata di passione e avversione come mai prima. Questa è come se fosse una legge dell’universo, come se ci stesse dicendo “Allora guarda…..!”, oppure come se ci stesse chiedendo “Davvero hai già visto? Hai visto veramente questo stato mentale, questo istinto negativo per quello che è? Lo hai guardato con saggezza?”. E’ questa la direzione verso la quale dobbiamo condurre la nostra contemplazione: vedere come i gesti di rinuncia debbano essere basati sulla saggezza, piuttosto che su giudizi arditi o su un atto di volontà o semplicemente su un atto di rinuncia esteriore.

Ricordo che negli anni 70 e 80 c’era in giro un famoso guru che possedeva cento Rolls-Royce e, ovviamente, gli veniva spesso chiesto: “A che cosa servono tutte queste Rolls-Royce per una persona; una non basta?”. La risposta che il guru dava era che voleva dimostrare al mondo quanto noi osservatori siamo attaccati alle apparenze esteriori, alla proprietà, mentre lui era completamente distaccato dai beni terreni. Ci diceva che siamo noi ad avere un problema – non lui e le sue cento Rolls-Royce. Ovviamente non possiamo sapere quanto questa persona fosse attaccata o meno, ma qui c’è qualche cosa che non torna: come se l’interiore e l’esteriore non fossero in armonia. Come soleva dire Ajahn Chah, un esempio di “Giusto, ma non vero. Vero, ma non giusto”. La condizione di vero non-attaccamento è il non-attaccamento verso tutti gli impulsi egoistici.

 

Porre le domande giuste

Allora, in questo contesto, guardiamo i nostri atteggiamenti interiori. Negli insegnamenti del Buddha sull’Ottuplice Sentiero, il secondo elemento è la Retta Intenzione o Retto Pensiero, o quello che io preferisco chiamare come Retto Orientamento. Questo ha a che fare con il nostro atteggiamento di base nei confronti della vita; il modo in cui affrontiamo le nostre esperienze. Sono tre gli aspetti che vengono menzionati nei testi: la rinuncia, la compassione o non nuocere e mettā o attenzione benevola – gentilezza. Il Buddha rimarcò questi tre aspetti del Retto Orientamento, mettendoli proprio all’inizio, subito dopo il primo aspetto, la Retta Visione.

Non è che bisogna per forza diventare monaco o monaca e abbandonare completamente la vita di famiglia; non è questo quello che viene chiesto. Il cammino monastico è specialmente raccomandato per quelli che, in questa vita, scoprono di avere quella particolare inclinazione, oppure si potrebbe dire per quelli il cui sviluppo interiore per un periodo lungo di tempo – il loro kamma – ha portato nella posizione di poterlo fare; sono esseri liberi, o hanno il coraggio e il desiderio autentico di vivere la vita in questo particolare modo. Ma l’Ottuplice Sentiero non è concepito solo per i monaci e le monache; è fatto per tutti. Quindi, se stiamo tutti cercando di praticare l’Ottuplice Sentiero, siamo tutti sulla stessa barca.

Dobbiamo chiedere a noi stessi, nel nostro intimo, che cosa significa per me la rinuncia? Che importanza e che significato ha per me? A volte, noi occidentali in particolare, proviamo avversione anche solo nel sentire la parola ‘rinuncia’. Non ci piace perché abbiamo paura che arrivi qualcuno e ci porti via qualcosa. Là c’è quel monaco buddhista, o Buddha o non so chi, che mi vuole portare via qualcosa che mi piace veramente; qualcosa che non voglio cedere. Io di certo non voglio portarvi via niente, ma vorrei spronarvi a chiedere a voi stessi che cosa è che varrebbe la pena cedere. Se si trattasse di qualcosa che corrisponde alla rinuncia dell’avidità, dell’avversione, dell’illusione penso che ci troveremmo tutti d’accordo e felici di farlo.

Sul piano ideologico, tutto questo sembra molto bello, ma quando si arriva ai dettagli diventa un po’ complicato. Siamo un po’ titubanti di fronte a certe cose in quanto tutti abbiamo delle preferenze, dei desideri, abbiamo cose che ci piacciono, cose alle quali ci siamo abituati; abbiamo dei modelli con i quali ci sentiamo in piena sintonia, e certe scelte personali diventano un’abitudine. Queste sono le cose più difficili da abbandonare: gli atteggiamenti particolari del cuore e della mente. Questa è la sfida più grossa per tutti noi. Anche se abbiamo visto e provato che per il nostro benessere è deleterio assecondare le tendenze alla rabbia e all’istinto, a volte sembra che non possiamo farne a meno, non rientra proprio nella sfera della nostra volontà – la nostra volontà non arriva così lontano. Abbiamo bisogno di avere un altro modo per affrontare le cose alle quali vorremmo rinunciare.

Il primo punto, comunque, è che dobbiamo riconoscere personalmente quanto sia doloroso per noi seguire gli impulsi dell’avversione e dell’attaccamento. Immaginando di avere qualcosa che ci piace davvero tanto e alla quale ci aggrappiamo morbosamente, si può vedere quanto sia spiacevole e doloroso l’attaccamento e, allo stesso tempo, quanto l’aggrapparsi sia senza speranza. Per loro intrinseca natura queste cose vanno oltre il nostro controllo. Ma all’’io’ piace manipolare l’esperienza. Possiamo dire che tutta la struttura del nostro io – della nostra personalità o di quello che si chiama comunemente ‘ego’ – è una struttura che controlla l’esperienza. E se non c’è il senso del valore etico, dell’integrità etica, si avranno risultati molto nocivi. Per la mente non coltivata spiritualmente non ci sono limiti a ciò che vuole, segue continuamente qualsiasi istinto del desiderio. Oggigiorno anche l’intero pianeta sembra essere una manifestazione del desiderio illimitato.

Molte persone sono prese da guardare solo ai cambiamenti esteriori del mondo, hanno dei dubbi sulla validità del tipo di lavoro interiore che facciamo qui; ritengono che sedersi solamente in meditazione e osservare la propria mente non sia abbastanza, che bisognerebbe esporsi e fare qualcosa per la brama, l’attaccamento e l’illusione che ci sono nel mondo. Non sto dicendo che fare qualcosa a livello di vita esteriore sia fuori luogo o inopportuno. Non fraintendetemi. Ma, da persona che ha come orientamento prioritario la coltivazione del cuore, sono alquanto consapevole che è da ‘qui’ che vengono le cose; è ‘qui’ dentro che hanno inizio le cose; nei nostri cuori. E’ ‘qui’ che hanno inizio la brama, l’odio e l’avversione. La buona notizia è che questo è anche il posto dove trovano la loro fine.

 

Andare alla radice

Lo abbiamo sentito negli Insegnamenti, il Buddha ne ha parlato diverse volte: ikilesā, le passioni, non sono a casa propria nei nostri cuori; si può dire che sono semplici visitatori. La mente ‘cieca’ o ignorante non può vedere la verità che ha insegnato il Buddha. Non c’è abbastanza consapevolezza personale o capacità di riflessione. Da questo deriva la supposizione che qualsiasi stato mentale sorga ‘sta bene lì’, è a casa sua. E’ così che sembra a prima vista, a uno sguardo superficiale. Ma se la nostra capacità di riflessione è un po’ più attiva – che è quello che stiamo sviluppando nello sforzo di essere più attenti alla nostra esperienza – possiamo vedere che ci sono leggi che governano il sorgere e il cessare di questi turbamenti del cuore.

Se guardiamo realmente dentro una mente più spaziosa, possiamo vedere che queste cose hanno la tendenza a sorgere da sole: improvvisamente c’è avversione, c’è paura, c’è gelosia. In Occidente tendiamo ad analizzarne le cause: “Perché ho questa gelosia? Perché ho questa rabbia?”. Nei paesi di tradizione buddhista la gente probabilmente preferisce pensare “Oh, sì. E’ perché nelle vite precedenti devo avere fatto delle cose davvero terribili”. Queste due versioni vanno bene entrambe, ma fino a un certo punto; sono parzialmente soddisfacenti, non vanno veramente alla radice del problema.

E allora, come si affrontano gli stati negativi della mente? Come si manifesta quella purezza del cuore di cui gli Insegnamenti parlano spesso? C’è qualcosa che possiamo fare? Sembra che, in genere, se siamo in una posizione di resistenza e controllo, questi stati mentali tendono ad aderirci addosso come colla – tendono a ritornare sempre, in continuazione. Spesso ci identifichiamo con una condizione particolare, o con una serie di condizioni, e poi uniformiamo a queste il nostro comportamento; recitiamo la parte e ci giudichiamo come, per esempio, arrabbiati, gelosi, o timorosi. Questo è un grosso errore perché, in realtà, tutto quello che è successo è stato il sorgere di varie condizioni e, se avessimo guardato più da vicino, avremmo anche visto che rimangono un po’ e poi spariscono. E’ sempre così.

Dobbiamo esaminare con attenzione la tendenza alla rabbia, alla gelosia o alla paura. Lo vedete, per esempio, che non rimanete arrabbiati per sempre, o gelosi, o timorosi. Possiamo imparare ad essere proprio lì con loro quando questi stati mentali potenzialmente dannosi sorgono in noi. Portateli fuori dalla sfera della mente pensante – la mente pensante non ci può essere di vero aiuto, crea solo più problemi – specialmente se ci perdiamo in critiche e pseudo-critiche sulla nostra esperienza, che spesso non sono molto gentili o favorevoli.

E’ qui che si inseriscono gli altri due aspetti del Retto Orientamento: gentilezza e compassione – verso noi stessi, verso la nostra stessa esperienza. Allora penso che questa persona qui, ‘io’, è la persona alla quale sono più legato e che, in tutta franchezza, posso dire che voglio che questa persona qui sia assolutamente e incondizionatamente felice e contenta. E per voi è la stessa cosa; proprio uguale. Siamo tutti sulla stessa barca: tutti vogliamo avere un cuore contento e libero e una felicità incondizionata. Nel frattempo, però, ci sono un bel po’ di cose che dobbiamo fare prima di arrivarci.

 

Lasciare andare il bello

E’ alquanto ovvio che, afferrarsi agli stati negativi della mente e del cuore mette nei guai, ma bisogna lasciare andare anche gli stati belli, gli stati meravigliosi. Anche aggrapparsi a questi stati non è corretto. Il Buddha ci ha raccomandato di non attaccarci agli stati elevati della nostra meditazione. La metafora è quella degli esseri celesti che godono della beatitudine delle loro menti. A loro basta pensare a qualcosa di meraviglioso perché sia lì.

Uno di loro, Brahmā, vive ai piani più alti dei Reami Celesti ed è privo di qualsiasi tipo di avversione e di rabbia, anche le più insidiose. Pensate, è uno stato così perfetto che non c’è più bisogno di andare in bagno, di mangiare, di lavarsi, né di vestirsi. Tuttavia Brahmā non è libero. Perché? Perché il suo è uno stato transitorio, non è permanente. E quando questi esseri celesti vedono che la durata della loro vita volge al termine, diventano molto tristi. Prima di rendersi conto che sarebbe finito, tutto era assolutamente, completamente meraviglioso. Si dice che questi esseri elevati si rendano conto che la loro condizione celestiale stia per finire quando cominciano ad emanare cattivo odore dalle ascelle. Non sappiamo se questi raffinati corpi eterei possono anche emettere odori così poco raffinati, ma rende chiara l’idea.

Quando finisce il tempo in un reame, secondo la cosmologia buddhista, si rinasce in un altro stato dell’esistenza. Se questo lo applichiamo direttamente alla nostra esperienza personale, vediamo che rinasciamo in un altro stato mentale. Possiamo provare a mantenere quello stato mentale meraviglioso, anche dopo che è finito e anche se non sappiamo dove ci porterà. A volte continuiamo a farlo per giorni, settimane, o anche più a lungo, quando indugiamo nei pensieri di qualche meravigliosa esperienza che abbiamo provato nel passato. Siamo così assorti nel ricordo piacevole del passato che non ci rendiamo neanche conto di essere circondati da tante persone gentili e generose, o che il sole splende, gli uccelli cinguettano sugli alberi. Camminiamo in mezzo a cose meravigliose, ma non ce ne accorgiamo perché siamo tutti assorti dal pensiero: “Oh, non è stato meraviglioso dieci giorni fa, o dieci anni fa …”.

 

Avere il coraggio di guardare più da vicino

E’ così, queste attitudini le abbiamo tutti. Tutti tendiamo a respingere quello che non ci piace, che troviamo sgradevole. Questo è uno dei nostri possibili atteggiamenti; l’altro atteggiamento è la tendenza ad aggrapparsi, l’incapacità di lasciare andare. Questo lasciare andare ci può essere solo attraverso un’intuizione profonda, attraverso la comprensione. La parola ‘vipassanā’significa ‘visione profonda’. ‘Passanā’ significa vedere, guardare e il prefisso ‘vi’dà più forza al significato – vedere perfettamente, guardare correttamente. Non si tratta di guardare, per così dire, dall’esterno; dobbiamo avere tanto coraggio, dobbiamo essere così intrepidi da avvicinarci molto alla nostra esperienza – in piena consapevolezza e vigili.

Non si tratta di prendere strategicamente le distanze dalla nostra esperienza per poterla osservarla ‘là fuori’ e, in questo modo, pensare di essere obiettivi. Questo ci rende estranea l’esperienza; ci alieniamo e perdiamo il contatto con ciò che sta realmente accadendo. Potremmo pensare: “Sono molto obiettivo, sai! Perché la guardo ‘da lontano’; mi sono liberato da tutti gli attaccamenti perché è laggiù”. Notate l’elemento di controllo che vi è ancora coinvolto; c’è resistenza quando si tengono le cose a distanza. Questo non è vipassanā. Per comprendere veramente vipassanā dobbiamo avere il coraggio di guardare più da vicino; dobbiamo essere disposti ad essere presenti. Dobbiamo essere disposti a stare lì, nel presente, anche quando abbiamo esperienze difficili.

In questo modo rinunciamo alla tendenza a credere alle voci dell’ego e agli istinti. Se, per esempio, stiamo avendo un’esperienza di paura, l’istinto egoico ci dice di scappare; allontanarci il più velocemente possibile, il ché è, ovviamente, molto naturale. In alcuni casi sarebbe la cosa giusta da fare. Se incontrate un animale feroce in un luogo selvaggio, scappare il più velocemente possibile e arrampicarsi su un albero potrebbe essere una buona idea. Dovete anche essere veloci nel riconoscere di che animale si tratti, e se scappare via e arrampicarsi su un albero sia la cosa giusta da fare. Comunque il 99,9 per cento di tutte le nostre esperienze di paura non hanno niente a che fare con situazioni come questa. Sono le sensazioni, le emozioni o i pensieri che ci fanno paura e dai quali, istintivamente, ci vogliamo allontanare. Ecco cosa intendo per rinunciare all’istinto, l’istinto egoico di fuggire. Impariamo a stare lì e, naturalmente, ci vuole convinzione e determinazione per essere in grado di farlo. Per questo vi raccomando di non cominciare con le cose difficili; cominciate con quelle facili, così potete mettervi alla prova e sviluppare una fiducia interiore e quando arriveranno le cose grosse sarete adeguatamente pronti.

Alcuni anni fa, durante la Guerra Fredda, in America hanno proposto un questionario per scoprire quale fosse la cosa più temuta dagli esseri umani. Ci si sarebbe aspettato che la più grande paura delle persone fosse la minaccia nucleare; il fatto che tutti verremmo sterminati. Ma non fu così. La cosa della quale la gente ha più terrore è parlare in pubblico. Sembra strano, no? Fare un discorso mica uccide. Tuttavia, lo possiamo percepire come un grande rischio. Allora che cos’è che dentro di noi si sente a rischio? Ecco che ritorniamo nuovamente a questa parolina ‘ego’ e con essa, alla forte sensazione di ‘io’ contro ‘loro’. Davanti agli altri si vuole apparire in un modo particolare, agire in un modo particolare; ci vogliamo fare apprezzare, vogliamo piacere, vogliamo essere amati. All’’io’ piacciono tutte queste cose, il rischio sta nell’’altro’, là fuori di fronte a noi, diciamo in quelle cinquecento persone, che potenzialmente, secondo le nostre costruzioni mentali, potrebbero darci la loro ‘disapprovazione’.

 

Trovare le nostre leve spirituali

Luang Por Chah chiedeva ai suoi monaci di dare insegnamenti di Dhamma che durassero sempre a lungo. Era una prova per vedere come si affrontano tutti i vari stati mentali che sorgono quando si deve tenere un discorso. Ricordo che Ajahn Sumedho ci disse che Ajahn Chah una volta gli chiese di tenere un discorso di Dhamma davanti all’intera assemblea, e che durante il discorso continuò a stimolarlo per andare avanti. Il discorso durò tre ore. Ajahn Sumedho dovette osservare la sua mente per tutto quel tempo, anche quando non aveva più alcuna idea su cosa dire, resistendo all’istinto di uscirsene con qualche banalità buddhista. Intanto le persone del pubblico sbadigliavano, si mettevano con la schiena per terra e si addormentavano, o si alzavano e se ne andavano. Potete immaginare quanto fosse difficile. Vuoi essere apprezzato dalle persone, ma il ‘pubblico’ che ti sta di fronte si disgrega. E così venne fuori questo fortissimo senso del sé: l’’io’ che mormora “Non piaccio a nessuno, nessuno mi apprezza”. Ajahn Sumedho si accorse di questo dopo che era successo, prima non lo sapeva che doveva tenere un discorso così lungo proprio per questo.

Questo è il segno di un maestro veramente bravo. Ha il modo di metterti nella situazione in cui arrivi a vedere questo tuo forte senso dell’’io’ o dell’’ego’, mentre sorge. Quando si medita da un po’ di anni, è particolarmente importante fare attenzione al sorgere dell’’io spirituale’. Vivi in monastero da qualche anno ed ecco che appare un ‘io spirituale’; hai solo stati mentali ‘puri’ finché il tuo maestro non ti mette in una situazione in cui improvvisamente gli stati mentali che sorgono non sono più così puri. Ricordo che Ajahn Sumedho ci diceva che a volte si arrabbiava molto con Ajahn Chah per il quale aveva un’enorme devozione e amore. Ovviamente Ajahn Chah non faceva niente di nocivo o immorale; bastava qualche piccolo cambiamento nei ritmi del monastero, oppure una raccomandazione ad Ajahn Sumedho di fare qualcosa contro la sua volontà e subito in lui scattava la leva. Un altro segno della grandezza di un maestro è che a lui non importa se i suoi discepoli sono arrabbiati per causa sua. Anzi, Ajahn Chah questo lo trovava alquanto divertente. Quelli come Ajahn Sumedho che sono sinceramente interessati alla formazione, sono disposti a sopportare questo perché ne comprendono l’importanza.

Il tuo maestro farà scattare le tue leve. Ma molti di noi un maestro che possa farlo non ce lo hanno. Le nostre leve vengono fatte scattare da mariti o mogli, o dalle persone con le quali lavoriamo, o dai figli o dai nonni o da qualunque cosa. Preferiamo pensare: ‘Ho il diritto di essere arrabbiato, questa è una cosa tremenda”. Perché riteniamo che loro non siano i nostri maestri spirituali. Beh, questa è presunzione, non è così? Siamo convinti che nostro marito o nostra moglie non siano un maestro spirituale, ma forse quella persona è proprio il maestro spirituale che ci serve in questo momento. E’ molto meglio mettersi nell’ottica che le persone con cui lavoriamo, o con le quali viviamo, sono i nostri maestri spirituali, piuttosto che continuare a criticarli e dirgli che hanno sbagliato. “Hai sbagliato! Se non mi avessi detto questo non mi sarei arrabbiato”. Se cominciamo a prenderci la responsabilità della nostra vita saremo più attenti e non ci capiterà di dare ascolto alla tendenza che abbiamo di criticare. D’altronde le cose accadono. I nostri coniugi, i figli o la gente con cui lavoriamo ci danno l’occasione, ma essi sono soltanto la causa scatenante, non sono la causa ultima della nostra rabbia. La causa vera della nostra rabbia sta da qualche altra parte – la causa della nostra rabbia sta ‘qui’. Sta in queste tendenze latenti in noi: esplodere di rabbia, irrigidirsi di paura, o essere trasportati dal desiderio di violenza.

Per concludere, siate attenti a non evitare il vero problema. Se vogliamo essere liberi dal senso di oppressione dobbiamo veramente indagare. Prima dobbiamo indagare la natura dell’esperienza: che cosa è? Quanto è affidabile? Che cosa è responsabile del suo sorgere? Che cosa è responsabile della sua persistenza o dell’impressione della sua permanenza? Poi, ovviamente, che cosa è che le permette di cessare, di finire? Ecco che cosa ci viene richiesto – non molto in effetti – abbiamo solo bisogno di una giusta miscela, di una corretta forma di attenzione basata sul Retto Orientamento e anche Retta Visione. Di conoscere il modo in cui funziona la legge del kamma, ovvero la comprensione dell’influenza che su di noi hanno le nostre azione – mentali, verbali o fisiche. Dove e come la possiamo conoscere? Dov’è che possiamo incontrare il nostro kamma? E indirizzarlo in modo che si muova verso ciò che è sano e benefico, invece di rafforzare vecchie abitudini negative?

Ecco, per questa sera vi offro questo.