di Ajahn Chandapalo
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Traduzione di Gabriella De Franchis.
Adattamento di un discorso dato nel 2006 in occasione del 25° anniversario del Monastero di Harnham (Aruna Ratanagiri), in Inghilterra.
Ajahn Chandapalo è nato in Inghilterra nel 1957. E’ entrato in monastero nel 1980, prese upasampadā (accettazione nella comunità dei bhikkhu) con Ajahn Sumedho al monastero di Cittaviveka nel 1982. Ha vissuto in tutti i monasteri europei affiliati come pure un anno in Thailandia. Nel 1993 è stato invitato in Italia, al Santacittarama. Dal 1996 ne è l’abate.
“In quei primi anni sembra che ci siano state delle intuizioni importanti; la piena realizzazione di queste intuizioni arriva quando impariamo gradualmente a integrarle nella vita di tutti i giorni.”
OGGI celebriamo qui, al monastero di Harnham, il suo 25° anniversario. In termini spazio-temporali, venticinque anni non sono altro che un battito di ciglia, ma il fatto che alcuni dei membri più giovani dell’attuale comunità non fossero neanche nati quando nacque questo monastero, ci da un’idea di questo arco di tempo. Il mio contributo al suo iniziale sviluppo fu molto piccolo. Nel lontano 1981 vi trascorsi soltanto sei mesi, ma sin da allora, le mie visite sono state regolari e, giacché sono un “uomo del Nord”, ho un interesse particolare nella evoluzione di questo posto. Anche per me sono circa venticinque anni di vita monastica e, così, questo anniversario, mi ha dato l’occasione di rivedere quei primi esordi e riflettere sul modo in cui si sono sviluppate le cose da allora.
Il mio primo ritiro di meditazione furono dieci giorni, da laico con Ajahn Sumedho, a Oakenholt vicino a Oxford, nella Pasqua del 1979 e fu lì che un gruppo di meditanti provenienti da Newcastle palesarono ad Ajahn Sumedho il loro desiderio di potere offrire un luogo nel Northumberland, nel quale i monaci potessero venire a praticare la meditazione. Fu da questo che in seguito mi ritrovai a seguire Ajahn Sucitto come anāgārika, e a venire con lui ad Harnham per aiutare nella costruzione di quello che sarebbe diventato il nostro primo monastero affiliato in Gran Bretagna.
Costruire un monastero
Arrivammo qui a marzo di quell’anno. Ajahn Sucitto aveva detto che saremmo andati a stare in una modesta casetta di campagna su di una collina – molto spartana, ma i laici avevano in progetto di fare i lavori di ristrutturazione. Tutto quello che volevano che facessimo era di vivere qui e praticare. Beh, alla fine non fu proprio così. La casetta era davvero modesta: quattro stanze, due sopra e due sotto, con una specie di spazio esterno posteriore in terra battuta, quello che ora è la cucina. Avevamo un rubinetto d’acqua fredda con un secchio sotto; alla fine arrivò qualcuno a mettere un lavello e questo, al momento, ci sembrò un grosso miglioramento! C’era un wc, ma ancora senza un vero muro tutto intorno, da un lato solo un paravento che si faceva scorrere per chiudersi dentro, non c’era finestra, ma ci avevano fatto un buco. Mi ricordo che un giorno, alla fine di aprile, ci fu una bufera di neve e Ajahn Sucitto trovò circa tre centimetri di neve sulla tavolozza del water. Mettemmo insieme del polietilene e dei pezzi di vecchia moquette e li inchiodammo sul buco del muro, così potevamo usare il wc senza morire assiderati.
Anche se era molto spartano, noi eravamo giovani e ci sentivamo dei pionieri, così affrontammo le difficoltà che si presentavano. C’era anche un sacco di energia positiva intorno. Ci sentivamo stimolati ad iniziare qualcosa di nuovo. Mi alzavo al mattino e come prima cosa accendevo il fuoco nella stanza dove facevamo le pūjā del mattino. Andavo nella stalla – dove ora dormono i monaci, ma che ai tempi era la carbonaia – e prendevo un po’ di legna e del carbone per accendere il fuoco. Durante la sessione avevo una parte del corpo arrostita e l’altra ghiacciata e c’era qualcosa in me che voleva che mi alzassi e mi girassi per scaldare l’altra parte – ma si supponeva che questo non lo avrei fatto. Alla fine Ajahn Sucitto decise che era meglio non accendere per niente il fuoco, così il freddo lo avremmo sentito uniformemente dappertutto, pensava fosse la cosa migliore.
In quella fase iniziale non c’erano buddhisti asiatici che presero parte alla fondazione del monastero, solo un piccolo gruppo di gente del luogo che veniva a trovarci nei fine settimana. Facevano dei lavoretti e portavano il cibo, ed erano veramente interessati al Dhamma. Per la maggior parte del tempo Ajahn Sucitto doveva contare su di me per quanto riguardava la cucina. Ricordo che la sera, prima di andare a letto, studiavo i libri di cucina preoccupandomi di cosa avrei potuto preparare per il giorno seguente. Ovviamente non mi potevo aspettare di trovare tutti gli ingredienti nella dispensa, ma con un po’ di iniziativa ce la cavammo.
Quell’anno mi offrii di restare per dare una mano durante i tre mesi di Ritiro della Stagione delle Piogge (vassa), infatti immaginavo che così non sarebbe stato troppo duro. Però andò a finire che invece di essere un ritiro, nel modo in cui uno se lo aspetterebbe, per tutto il primo mese si ebbe un’enorme mole di lavoro edilizio da fare. Si mise uno strato isolante tutto attorno all’edificio, e questo comportò di fare centinaia di fori nei muri di granito con un trapano che c’eravamo fatti prestare da Chithurst, e che distruggemmo, visto che non era sufficientemente potente per il lavoro che dovevamo fare. E poi, in quella che adesso è la sala della reception, si buttò giù un vecchio caminetto. Al suo posto ci mettemmo una stufa e il che implicò montare un tubo nella canna fumaria, ovvero andare su per la canna fumaria e ricoprirsi tutti di fuliggine. A un certo punto spostammo una porta di ingresso, praticando un enorme buco in una delle pareti più spesse. Non ricordo quale fosse lo scopo, ma c’era un progetto. L’abate che venne dopo, però, rifece la parete com’era prima.
Alla fine smettemmo di lavorare ed iniziammo a seguire, per un intero mese, un programma di ritiro molto intenso. Ci svegliavamo alle tre del mattino; ci riunivamo alle tre e trenta, poi dopo le pūjā del mattino alternavamo la meditazione seduta con quella camminata per tutto il giorno – un’ora seduti e un’ora camminando. In quei giorni non si era ancora introdotta la colazione, solo una tazza di caffè e poi meditazione ininterrotta. Il pasto del giorno era alle dieci e trenta e ricominciavamo di nuovo a mezzogiorno. C’era un’ora d’intervallo la sera, dalle cinque alle sei, e poi continuavamo la pratica formale fino alle undici di sera.
Avevo ricevuto l’istruzione di concludere la preparazione del pasto mischiando tutto in un grande secchio di plastica – uno di quelli che di solito viene usato per lavare i pavimenti. Semplicemente mi fu detto di offrirlo con un mestolo, all’ora del pranzo, al Sangha. Questo prese il nome di “pratica del secchio”, una storia che forse qualcuno di voi ha già sentito! I primi giorni ebbi un po’ di nausea per via del fatto che mangiavo il cibo tutto mischiato, ma dopo un po’ ci feci l’abitudine. Anzi era molto pratico, avevi la misura di quanto te ne serviva – solo due mestoli e mezzo – non dovevi stare a pensare: “Beh, prendo un po’ di questo e un po’ di quest’altro”. No, solo due mestoli e mezzo e passavi il secchio.
Fu, però, comprensibile il fatto che i laici, che generosamente ci offrivano quel cibo, non ne fossero molto contenti e, difatti, non è del tutto in sintonia con lo spirito delle nostre Regole di Addestramento (Sekhiya-vatta), che dicono che dobbiamo accettare il cibo con gratitudine. Così, alla fine, dopo un saggio intervento di Ajahn Sumedho, la “pratica del secchio” fu abbandonata.
Parlare della pratica e farla
Nel frattempo il ritiro proseguiva. C’erano senza dubbio difficoltà fisiche, ma la parte veramente difficile era l’aspetto psicologico. Il modo in cui avevo vissuto da studente, prima di entrare in monastero, non mi aveva precisamente preparato a questo, ma mi tornarono utili alcune delle prime intuizioni che avevo avuto quando iniziai a praticare.
All’università avevo un amico e ci piaceva discutere insieme dei concetti buddhisti e della pratica di meditazione. Poi, una volta, decidemmo di smettere di fare tutti quei discorsi, di interrompere quello che stavamo facevamo, per sederci e rimanere immobili. Non pensavamo a nessun esercizio formale di meditazione, solo fermarci, rimanere immobili e rivolgere la nostra attenzione al nostro interno. Quella esperienza mi offrì una importante intuizione sul potenziale della mente. Percepii una specie di potenziale inesplorato. Fu un’intuizione sulla mente stessa – non semplicemente sui contenuti o sull’attività del pensiero – ma una consapevolezza interiore, una spaziosità; la mente in sé. Ebbi la percezione dell’origine delle cose e di come tutto questo poteva essere la chiave per rispondere alle domande che avevo su quello che era veramente importante nella vita. Ci fu una sensazione di scoperta, come di ritrovare un’altra dimensione. E insieme arrivò la forte intuizione che valeva la pena di sviluppare questa diversa prospettiva sulla vita, questa dimensione spirituale. Fu allora che sentii che la chiave poteva essere la meditazione; un modo per attuare questo potenziale della mente. Fu dopo questa esperienza che mi applicai per conoscere e praticare delle tecniche di meditazione. E questo mi portò ai dieci giorni di ritiro di cui vi ho parlato, quelli con Ajahn Sumedho.
Durante il periodo in cui feci il mio master ci fu un’altra significante scoperta. Era il giorno prima dell’esame finale e uno degli altri studenti venne a chiedermi aiuto. Questo individuo era uno di quei tipi che riescono a irritare proprio tutti. E mi diede fastidio. Non aveva fatto nessuno sforzo per frequentare le lezioni o per fare i compiti del corso, e ora stava interrompendo il mio studio. Dopo un po’ me ne liberai, senza essere scortese, ma la cosa mi lasciò in uno stato di agitazione emotiva. Mi sentivo molto frustrato e infastidito da me stesso e da lui e non ero assolutamente nello stato d’animo giusto per prepararmi all’esame. Finii per sdraiarmi sul letto, rannicchiato in una specie di posizione fetale. Poi mi sovvenne che Ajahn Sumedho aveva dato un insegnamento sulla pratica di metta. In esso non seguiva la tecnica formale di estendere la gentilezza amorevole verso questa persona, poi quell’altra e così via. Si trattava piuttosto semplicemente di rilassarsi e lasciare che le cose esistessero, accettandole ed essendo in pace con loro così come sono al momento. Scoprii che mi potevo rilassare e permettere alla mente di essere a proprio agio, lasciando lo stato delle cose così com’è. In quello che mi sembrò essere uno spazio temporale molto breve, l’intero stato d’animo si era trasformato; mi sentivo più leggero; molto più calmo. Provai una sensazione di benessere interiore che era quasi miracolosa e mi trovai in una condizione mentale migliore per prepararmi all’esame. Mi resi conto che prima di iniziare a praticare la meditazione, probabilmente, avrei affrontato la questione scendendo al pub per un paio di drink, finendo poi per trovarmi in uno stato per niente buono.
A quel tempo non prestai molta attenzione a queste prime esperienze della pratica, ma se ora ci rifletto sulla base dei miei anni di vita monastica, sembra che in tutto questo tempo non abbia fatto altro che applicare quelle intuizioni – integrandole nella vita di tutti i giorni. L’addestramento offre una routine per praticare quotidianamente lo sviluppo della consapevolezza mentre ci occupiamo delle attività ordinarie del corpo, della parola e della mente. Ci vogliono un sacco di tempo e di abilità per imparare a trattare in modo corretto le questioni che sorgono e che ci ostacolano.
La mente è molto ingannevole. Per esempio, quando abbiamo fatto esperienza di qualche intuizione iniziale, tendiamo a ritenere che possiamo usare queste intuizioni per affrontare qualsiasi situazione ci si presenti: “La prossima volta che sto male, applicherò semplicemente questa tecnica”, ma non funziona così. Quell’esperienza originaria è stata spontanea, senza aspettative. Non è stata una strategia. Quando si utilizza come strategia non è la stessa cosa. Pur non di meno, avere avuto un’esperienza simile significa che sappiamo di potere avere accesso a questo tipo di stato interiore che dà spazio ai fenomeni, li permettere. Siamo consapevoli che la mente ha abitudini e strategie e impariamo come purificare gradualmente il nostro atteggiamento.
Intensità intollerabile
Così, durante quel ritiro a Harnham, queste esperienze iniziali nella pratica, mi diedero la possibilità di lavorare su alcuni turbamenti emotivi e psicologici che mi trovai ad attraversare, eventi e avvenimenti che per me erano alquanto nuovi. Un giorno andai su tutte le furie, mi ero davvero arrabbiato per qualcosa. All’inizio mi spaventai alquanto, perché mi ero sempre visto come una persona calma e rilassata, con un carattere abbastanza tranquillo e invece eccomi in uno stato di rabbia totale. La cosa splendida, nel ritrovare me stesso così pieno di rabbia, è che mi resi conto che non era necessario agire in accordo con essa; lo stato d’animo, a poco a poco, svanì da solo. Riflettendo dopo su questo episodio, mi resi conto che non avevo avuto una reazione di rabbia né con il corpo né con la mente, e che non l’avevo neanche repressa. Questo mi procurò un grande senso di libertà e di fiducia. Avevo permesso a me stesso di fare un’esperienza intensa e potente, dalla quale non ero stato né catturato, né sopraffatto.
La prima settimana di quel ritiro mi sembrò di essere sulle montagne russe delle emozioni. Ricordo di avere pensato che devo avere provato tutti gli stati d’animo possibili per un essere umano. Ovviamente è un’esagerazione, ma mi sentivo così. A volte mi sentivo pieno di ispirazione e di gioia e altre volte mi sentivo depresso e disperato. Vidi quanto la mente può essere insicura e mutevole.
Per un certo periodo, durante la seduta di meditazione, iniziai ad essere preda della nostalgia. Mi ricordai di un vecchio gruppo di amici con i quali uscivo quando ero all’università. Improvvisamente mi trovai a pensare che tutta quella gente era andata oltre e non avrei mai potuto riavere ciò che era stato. Fui sopraffatto da una tremenda ondata di tristezza e poi, proprio in quel momento, suonò la campana di fine sessione della meditazione seduta. Era il momento di andare fuori e fare la meditazione camminata. Uscii dalla porta sul retro, mi buttai sull’erba e scoppiai a piangere; una gran bella sessione di pianto catartico – proprio qui dove ora c’è la Sala del Dhamma. Dopo provai una sensazione di sollievo e le cose mi sembrarono più leggere. Continuammo quella stessa routine per diverse settimane e tutto fu in un certo senso più facile. Tuttavia la mia pratica aveva assunto una nota di scoraggiamento, molto dolore fisico e trambusto emotivo, la meditazione era diventata un’esperienza traumatica. Non riuscivo a farla per più di pochi minuti. Mi sentivo veramente disperato, come se avessi perduto la migliore opportunità possibile.
Dopo il Ritiro della Stagione delle Piogge ritornai a Chithurst e mi buttai a capofitto nel servizio alla comunità. Mi sentivo disperato per quanto riguardava la meditazione, ero solo felice di potere essere d’aiuto nelle faccende domestiche e in tutto quello che c’era da fare. Essendo anāgārika mi svegliavo e accendevo il fuoco della stufa a legna e poi preparavo la pappa di cereali – dato che in quel periodo avevamo appena introdotto la colazione.
A poco a poco cominciai a sentirmi un po’ meglio e lentamente riacquistai fiducia in me stesso. Fu allora che Ajahn Sumedho fu nominato upajjhāya (precettore), che significa che ora avrebbe potuto celebrare la sua prima cerimonia di ordinazione di bhikkhu. Quella prima cerimonia di tre anāgārika che entravano nella vita monastica, fu per me una grande ispirazione. Mi sentii così sollevato che, anche se avevo passato delle difficoltà serie, vidi quanta forza queste mi avessero dato. Inoltre, qualcosa dentro di me mi diceva che, in ogni caso, non poteva essere molto peggio di com’era già stato! Così, quando chiesi ad Ajhan Sumedho di prendere gli ordini, lui accettò e l’anno seguente presi la upasampadā (completa accettazione nella comunità come monaco).
Per un buon numero di anni non ho avuto l’opportunità di venire ad Harnham. Ci fu un periodo, nel 1985, quando Ajahn Tiradhammo era l’abate, in cui sarei dovuto venire qui per un ritiro invernale. Ma ad Amaravati avevo dato una mano per il sistema idraulico, l’istallazione del riscaldamento e delle docce. E quel 1985 fu il primo inverno ad Amaravati e fu anche eccezionalmente freddo, tanto da avere un sacco di problemi con le tubature che scoppiarono – cosa che mi tenne impegnato fino a giugno. Quando mi venne offerta l’opportunità di venire su ad Harnham per il ritiro invernale ne fui entusiasta. Avevo sistemato la stanza e fatto i bagagli, era tutto pronto, ma fu in quella sera che la temperatura cominciò di colpo ad abbassarsi. Sapevo che lì c’era soltanto un altro monaco in grado di fare lavori d’idraulica, Tan Subato, e sentii che non potevo lasciarlo solo ad affrontare la cosa. Così mi offrii di restare e continuare ad aiutare – in quei giorni feci parecchia pratica strisciando sotto i pavimenti a riparare tubature scoppiate.
Trovare le risorse interiori
Anche se da allora non ho più risieduto ad Harnham, i miei genitori vivono qui vicino, a York, così ne approfitto per tornare in visita ogni anno. è stato molto gratificante vedere come si sono sviluppate le cose, non solo per quanto riguarda gli edifici, ma anche per la comunità. Mi fa piacere potere guardare indietro, a quei primi sei mesi della mia vita nel Sangha, e trovare che la maggior parte dei miei ricordi siano abbastanza felici. Fu in quel periodo che mi resi conto che questo era quello che volevo fare nella vita, nonostante tutte le difficoltà e i molteplici ostacoli. Esperienze simili ci possono fare vedere dove sono le nostre risorse interiori. Le intuizioni di quei primi anni hanno fornito le basi della pratica. Dopodiché, il retto sforzo nella pratica, significa impiegare le risorse interiori mentre impariamo a realizzare più pienamente la verità di queste intuizioni. A poco a poco la nostra percezione diventa più chiara.
Ora, dopo venticinque anni, provo un immenso senso di gratitudine verso i laici che mi hanno sostenuto in questi anni e verso il Sangha di qui e di tutti i monasteri nei quali ho vissuto. Questo ultimo, per me, è stato un anno sabbatico, visto che per un certo periodo sono stato libero dalle responsabilità di condurre il monastero in Italia, dove vivo normalmente. è una gioia potere dimorare nell’apprezzamento per i buoni risultati che ha portato l’avere vissuto in questo modo. Mi rendo conto che questi ultimi anni sono stati i più felici della mia vita. Ovviamente il processo è stato graduale; ci sono stati periodi in cui è stato difficile vedere la luce in fondo al tunnel. Stranamente, però, ho scoperto che a volte è più facile praticare quando le cose sono più difficili. Quando sentiamo la sfida, siamo costretti a essere più presenti. Siamo obbligati a fare uno sforzo per affrontare la situazione e non ci possiamo permettere distrazioni. Quando le cose sono più piacevoli e abbiamo più tempo, è più facile essere distratti. Non c’è fine a quello che ci può coinvolgere quindi è fondamentale sviluppare e mantenere un senso di direzione. è di questo che parla l’insegnamento sull’impegno nel Dhammavinaya.
Proprio come nella pratica individuale andiamo su e giù, allo stesso modo, negli ultimi venticinque anni, questo monastero ha avuto periodi difficili; ma quella visione e quell’ispirazione iniziale sono state realizzate. Pensiamo infatti a quello che offre questo posto e a quante persone sono venute in visita o a stare, hanno imparato a meditare, hanno ascoltato il Dhamma, sono diventate membri del Sangha. Il suo effetto è stato sicuramente sproporzionato rispetto alla sua dimensione. La comunità è grande quasi come la mia che comprende tutta l’Italia! Quantificare gli effetti è difficile, ma sono sicuro che migliaia di persone hanno avuto benefici dall’effetto onda della pratica che hanno fatto qui.
E allora, molti auguri per i prossimi venticinque anni. Mi chiedo chi ci sarà qui per il cinquantesimo anniversario. Forse alcuni di noi saranno ancora in giro, non si sa mai, e magari potremo condividere insieme i ricordi del venticinquesimo anniversario! Vi ringrazio per l’attenzione e per avermi dato l’opportunità di condividere queste riflessioni.