del venerabile Ajahn Munindo
© Ass. Santacittarama,2003. Tutti i diritti sono riservati.
SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.
Traduzione di Giuliana Martini.
Brani tratti da un discorso di Dhamma offerto in occasione dell’incontro annuale al Monastero Buddhista di Amaravati (UK), Aprile 2003. Titolo originale: “As prepared as we can be”.
VORREI INCOMINCIARE PARLANDO DI UN BUON LIBRO DI DHAMMA che ho appena finito di leggere. Non è un libro di quelli che potete trovare nel Tipitaka. Si intitola ‘Savage Arena’ (Arena Selvaggia), e l’autore è Joe Taska. Forse, a quelli di voi che si interessano di alpinismo, è capitato di averlo tra le mani. E’ pieno di storie su situazioni impossibili, sulla determinazione, la concentrazione, la capacità di mettere a fuoco, la collaborazione, cose a cui io posso fare riferimento da una prospettiva di dedizione alla vita contemplativa, ivi inclusa l’esperienza di vedere un amico che precipita dalla parete e volere disperatamente che ciò non sia accaduto…
C’è un’area della storia che ha con forza catturato la mia attenzione, ed è proprio di questo che mi piacerebbe discutere stasera. Aveva a che fare con un aspetto della spedizione che non era la parte più esaltante, quella cioè rappresentata dalla conquista della vetta, ma che allo stesso tempo costituiva una delle componenti più importanti della spedizione: la fase preliminare. Ogni volta che gli alpinisti si mettevano in viaggio, c’era un enorme sforzo da investire nella preparazione: apprestare l’equipaggiamento, procurare i finanziamenti, programmare l’alimentazione, risolvere le questioni burocratiche, provvedere al rilascio dei visti. E questa parte dell’avventura può risultare noiosa, e loro la trovavano veramente noiosa.
Anche nel caso della vita monastica, sono le esperienze intense e le visioni profonde i tratti del paesaggio su cui si ha la tendenza a focalizzare più prontamente la propria attenzione, ma d’altro canto, un buon numero degli insegnamenti conservati nelle scritture e trasmessi dai nostri insegnanti è dedicato proprio alla fase propedeutica. Ecco il tema che vorrei contemplare questa sera.
Ho un nastro registrato con un discorso di Luang Por Chah, probabilmente una delle ultime registrazioni in assoluto di parole che siano state pronunciate dalla sua bocca. E’ stata incisa a Tum Saeng Pet, una volta in cui Luang Por ricevette degli ospiti laici che erano in procinto di venirci a visitare in Inghilterra, e che, andando a trovarlo, gli avevano dato un registratore e suggerito di inviare un messaggio al Sangha inglese. Fu così che Luang Por prese il registratore ed incominciò ad elencare i nomi dei monaci ‘Oh, Sumedho, Sucitto, Anando…’, e poi offrì un discorso amichevole ed incoraggiante. Una delle cose che menzionò fu che essere abate è un po’ come essere un bidone dell’immondizia: semplicemente ci si siede a si ricevono i rifiuti che vengono scaricati. Quello è il tuo lavoro. Nel caso in cui non ci sia nessuno che ti getti addosso dei rifiuti, allora hai la possibilità di trattare la tua immondizia personale. Fu un paragone utile, e calzante. Dopo che ebbe finito di comunicare questo particolare messaggio, il nastro fu lasciato scorrere, e Ajahn Chah incominciò semplicemente a parlare della pratica in maniera informale. Ad un certo punto della conversazione disse ‘Come sapete, la gente crede che la pratica consista nel sedere sul proprio cuscino di meditazione. Si sbaglia completamente.’ Proseguì ‘Questa è la preparazione, ed è molto importante. Dobbiamo certamente dedicarci ad essa, ma la pratica è quando “arom kattup jai”, che significa: quando le passioni si infrangono sul cuore, tu sei pronto a quell’impatto?’ Poi disse ‘E’ quello il momento della pratica’. E non è qualcosa che si possa effettivamente fare. Non si segue un corso per imparare il modo in cui farlo. Ci sediamo e prepariamo noi stessi, di modo che, quando accade, noi siamo pronti.
Io ho una prospettiva di questo tipo, vale a dire la coesistenza di questi due aspetti del viaggio, preparazione e pratica. Naturalmente tutti noi desideriamo essere lì pronti per quel raro momento, ma l’aspirazione è soltanto un aspetto dell’addestramento. C’è anche la preparazione, e se non ci dedichiamo ad essa, ci saranno inevitabilmente delle conseguenze. Molti di voi avranno delle esperienze personali di non essere stati adeguatamente preparati. Io certamente ho le mie.
C’è un verso in Pali conosciuto come Ovadapatimokkha. L’incontro a cui stiamo partecipando è un evento che negli anni scorsi era solito avere luogo verso Magha Puja, quando, tradizionalmente, si recita questo verso. Sono certo che lo conoscete:
Sabbapapassa akaranam
Kusalass’upasampada
Sacitta-pariyodanam
Etam buddhanasasanam
L’ultima riga del verso, etam buddhanasasanam, viene tradotta ‘Questo è l’insegnamento dei Buddha’. E’ un verso che per me è fonte di notevole ispirazione. E’ una grande cosa sapere che non solo il Buddha Gotama ha esposto quest’insegnamento, ma così hanno fatto anche tutti gli altri Buddha. Si racconta che Ananda si sia recato a visitare il Buddha e gli abbia chiesto ‘Puoi parlarci di Konagamana e Vipassi, e di tutti gli altri grandi nobili Buddha del passato? Quali furono i loro insegnamenti?’ E si tramanda che in questo verso sia contenuta la risposta data dal Buddha in quell’occasione.
Iniziale contenimento
La prima riga del verso in questione parla di astenersi e contenersi rispetto a quello che è male – Sabbapapassa akaranam. Posso facilmente richiamare alla mente periodi della mia vita in cui avrei potuto essere meglio preparato in questo campo, per questo il punto di partenza del verso è astenersi dal fare ciò che non deve esser fatto. Se non comprendiamo quest’aspetto pretenderemo di tuffarci immediatamente nella terza riga – sacitta-pariyodanamam – la purificazione del cuore: ‘Com’è ispirante l’idea di avere un cuore puro, di divenire purificati come i maestri!’. Tutto questo lo so bene, perchè era quello che intendevo fare nel corso del mio primo vassa, trascorso con Ajahn Tate. Volevo purificare il cuore.
Avevo avuto le mie iniziali intuizioni profonde mentre vivevo con un gruppo di amici favolosi a Mullumbimbee, in Australia. Conservo felici ricordi di quando stavo in quel posto, sulla cresta della montagna, meditando tutto il giorno, abbracciando alberi, sedendo in samadhi e piangendo lacrime di beatitudine. Avevo l’abitudine di impastare il pane e lasciarlo cuocere per quaranta minuti, e nel frattempo me ne andavo a fare una meditazione camminata. Infine, con samadhi, ritornavo, quieto e sensibile, a spezzare il pane e gustare la sua fragranza. Poi, con samadhi, lo condividevo con i miei compagni hippy.
In quei giorni ebbi alcune profonde intuizioni che furono fonte di grande ispirazione ed incoraggiamento. Tuttavia, quello di cui non mi rendevo conto era che la radiosità di cui stavo godendo dipendeva dal fatto che facevo tutto il tempo quello che mi pareva.
Decisi che volevo prendere la via dell’Asia, il luogo in cui credevo si trovassero tutte le persone illuminate. Poiché avevo bisogno di un po’ di soldi, andai a Sydney in cerca di lavoro. Quando mi trovai in condizione di dover lavorare a cose che non mi piacevano, e a vivere con persone che non condividevano i miei stessi valori ed interessi, e che non sembravano impressionate dalla mia raffinata spiritualità, quel senso di radiosità interiore scomparve.
La perdita dei miei pacifici stati mentali fu per me straziante. Mi ricordo ancora del dolore provato nel restare privo di qualcosa di intrinsecamente splendido. Poche settimane prima, lì, sulla cresta, guardando verso la Baia di Byron all’alba, seduto e sentendomi così pacificato, c’era stato qualcosa di veramente prezioso e bellissimo. E all’epoca non fumavo neppure! Era una riconnessione naturale con una dimensione meravigliosa che scoprii essere già lì. Ed era lì – non era frutto della mia immaginazione! Quando avrei voluto farvi ritorno, sarebbe stato ancora lì – una pace naturale, esistente di per sé. Tutto ciò che c’era da fare era dirigere l’attenzione in un certo modo, per poi essere in grado di tornare a quel meraviglioso splendido luogo di straordinaria gioia. Ma quando andai a Sydney, non riuscii più a ritrovarlo. Non fu a causa del cambiamento dell’ambiente circostante, fin da allora ebbi questa consapevolezza, anche se per un po’ tentai di far finta che fosse diversamente. Senza dubbio, il motivo era la mia mancanza di contenimento interiore.
Ricordo come, durante quelle poche settimane trascorse a Sydney, facevo questa riflessione ‘Se mai mi venissi a trovare nella posizione di incoraggiare delle persone alla pratica della meditazione, c’è una cosa che voglio fare: incoraggiarle ad imparare il contenimento interiore’, perché se si potenzia la consapevolezza, ma non si è ancora appresa la moderazione, si avranno conseguenze dilanianti. Se si trascura questo stadio di preparazione è come se un uomo già ammalato si preparasse a scalare l’Everest senza portare con se la scatola delle medicine.
Coltivare il buono
La riga successiva del verso è kusalass’upasampada: coltivare le facoltà benefiche dentro di noi, coltivare ciò che è autenticamente buono. Siamo capaci di coltivare, generare e nutrire splendide qualità. E questa è una cosa importante. Ci sono cose meravigliose che so di poter fare. Una volta che ne prendo coscienza, non mi sento impotente, non provo vergogna, non ho sensi di colpa, non percepisco in alcun modo che mi sto sottraendo al senso di responsabilità, sto facendo ciò che mi compete.
Per me questa è preparazione: astenersi da azioni non abili, non salutari, che non vanno compiute, e coltivare il buono. E nel caso in cui non siamo preparati, allora ce ne assumiamo le conseguenze, e non andiamo a biasimare qualcun altro. Come quegli alpinisti in montagna: in una delle tappe salirono senza cibo a sufficienza. Se avessero portato abbastanza cibo, avrebbero potuto conquistare la vetta, ma quella volta non poterono farlo, e rimasero bloccati per tre giorni in una buca scavata nella neve, così disidratati che a stento riuscirono a scendere a valle.
Lo stesso vale per noi, ché se non prepariamo noi stessi, nel momento in cui le passioni si infrangono sul cuore, come diceva Luang Por, non siamo capaci di praticare. Questo processo è quello che chiamerei sacitta-pariyodanam – purificazione del cuore, purificazione dell’attenzione.
La purificazione viene in essere in quei rari, preziosi momenti, nei quali non sono in grado di manipolare me stesso. Non sono più capace di occuparmene. Va aldilà di me. In momenti del genere, elaborare strategie non è possibile. C’è chi dissentirà, ma io non credo che possiamo applicare strategie alla pratica. Possiamo predisporci per quel momento, possiamo equipaggiarci in tal senso, ma quando accade, accade e basta, e di solito non è comodo. Una volta che stavo avendo una conversazione sul Dhamma con la Venerabile Myokyoni presi a lamentarmi su quanto difficile a volte possa essere la pratica. Le sono estremamente grato per il commento che fece: ‘Venerabile – esclamò – quando arriva la questione cruciale, è troppo, ed è troppo presto’.
Ricordo di aver ascoltato Luang Por Chah parlare di stati in cui ci si può imbattere nel corso della pratica. Ad alcuni di voi sarà familiare la storia che raccontava a proposito di uno stadio della pratica a lui sconosciuto in cui una volta rimase impantanato. Da giovane monaco aveva acquisito una certa comprensione intellettuale, per poi tuffarsi anima e corpo nella pratica, con un incredibile entusiasmo, ed apparentemente era progredito con rapidità e profitto. Racconta che era arrivato ad un punto in cui, in meditazione, gli compariva un’immagine di se stesso mentre stava attraversando un ponte. Era giunto a questo punto sul ponte dove era come se non vi fosse nulla. Lui era abituato ad ottenere qualcosa nella sua pratica, ed ecco che era pervenuto ad un luogo nel quale si trovava immobilizzato. Diceva che la medesima immagine si ripresentava ogni volta che sedeva in meditazione, e non gli restava altro da fare se non camminare indietro fino all’inizio del ponte. Continuò a trovarsi di fronte a questa situazione per circa due anni, finché non incontrò Ajahn Wung, un monaco Dhammayut di grande effetto, contemporaneo di Ajahn Lee.
Quando Ajahn Chah lo incrociò nella foresta, fu ispirato a prima vista da quella figura. Lo vide soltanto e seppe – lui sa. Così prese a parlare di quello sforzo nella sua pratica, ed Ajahn Wung disse ‘Bene, questo è quanto ti sta capitando. Ti interesserà sapere cosa sta succedendo a me. Mentre stavo praticando la meditazione camminata ho avuto quest’esperienza: raggiunta la fine del mio sentiero, era come se stessi affondando nella terra. Non so quanto in basso sono sprofondato, sono semplicemente sprofondato così in basso quanto è concepibile sprofondare, un lungo viaggio. Poi ho iniziato a riemergere. Quindi sono giunto al livello della superficie della terra – sembrava che ciò stesse realmente accadendo – e giunto al livello della terra, ho levitato! Sono andato in alto, in aria, e il mio corpo ha urtato contro i rami. Quando il corpo ha urtato contro i rami, è esploso. Ho potuto vedere il mio intestino crasso scaraventato lì in fondo, qui il mio intestino tenue, e il fegato e i reni che penzolavano da un’altra parte ancora. Ho pensato “Tutto questo è veramente spiacevole!”. Ma’ – proseguì – ‘ero preparato. C’era presenza mentale a sufficienza, per cui non ho perso la lucidità.’ E così Luang Por commentò ‘Bene, è assai strano, ma cosa puoi dire per il mio caso?’ Gli raccontò la sua storia, e Ajahn Wung disse ‘E’ necessario che tu comprenda di aver raggiunto quello che è definibile come “il limite estremo della percezione”. E se continui a spingere, andrai incontro a sofferenze.’ Aggiunse ‘Quando si perviene al limite della percezione, che fare? Stai lì. Aspetta.’
L’abilità di stare in attesa in questo modo richiede un’agilità nella pratica, che costituisce una facoltà benefica. Se non ci siamo premuniti di quest’attitudine del semplice aspettare, ci ostineremo a persistere nello stesso metodo, continuando a ripetere la stessa azione che abbiamo sempre compiuto. Ci applicheremo con grande insistenza, ma non funzionerà. Dobbiamo essere disponibili, dobbiamo essere abbastanza agili, per aspettare. E’ richiesto soltanto di stare lì, semplicemente essere. E quella può essere la trasformazione. Poi la Via si realizza. E’ sbalorditivo.
Sono molto grato a Luang Por Chah per aver narrato quella storia. Me ne sono ricordato proprio al momento opportuno, qualche anno fa. Ero in America, e stavo passando un periodo eccezionalmente brutto. Stavo vivendo uno di quei momenti in cui ero entrato nel mio personale e perfettamente definito buco nero, così unico a suo modo come quello di chiunque altro. Ricordo ancora molto bene quella giornata. E’ stato uno dei giorni più terribili della mia vita. Eravamo al Grand Canyon. Avevo deciso che sarebbe stato meglio se me ne fossi stato per conto mio. Mi allontanai dalle persone con cui mi trovavo e mi misi a camminare lungo il bordo del Grand Canyon. Mi sentivorealmente male, intendo dire realmente male. Raggiunsi un punto particolare in cui il terreno mi veniva a mancare. Sembrò che venisse meno per sempre. Restavo in piedi in quel posto, proprio sulla sua estremità, osservando. La mia fede nella rinascita è talmente radicata che nella mia vita l’idea del suicidio non si è mai posta come un’opzione possibile, ecco perché non mi sfiorò la mente. Ci fu un tremore, un fremito protratto. Gettai uno sguardo proprio sulla sinistra, e c’era un segnale che diceva ‘L’Abisso’. Fu all’incirca in quell’istante che mi ricordai della storia di Luang Por, mentre mi trovavo sull’estremità di questo abisso senza sapere cosa fare. Così, semplicemente mi sedetti, e mi misi in attesa. Non fu l’illuminazione, ma fu un momento importante per me, un momento in cui mi ricordai che quando raggiungi un punto di non ritorno, hai bisogno di essere abbastanza agile da mutare rotta. Continuare a protendersi in avanti non è sempre la cosa appropriata.
Purificazione
La purificazione del cuore, la purificazione del proprio cuore, per me non è un processo che so come attuare, ma ho fiducia che accade se ci siamo adeguatamente preparati con il contenimento interiore, e se abbiamo coltivato a sufficienza le buone facoltà. Poi è il cuore che si orienta in direzione di ciò che ama sopra ogni cosa. Cosa amiamo più di ogni altra cosa? Saperlo, o almeno sentirlo, è veramente profondamente importante! Sapere che non si è soltanto interessati al Dhamma, ma che lo si ama. E per Esso avere una profonda cura, più di qualsiasi altra cosa. Possiamo esprimerlo a parole nostre, o non avere parole, ma questo è ciò che intendo quando affermo ‘Prendo rifugio nel Dhamma’. C’è qualcosa, una realtà, a cui non sono contento di inchinarmi, pur se è necessario che ad essa mi inchini. Tuttavia se diventa una dimensione cui la persona si connette coscientemente, se è qualcosa che effettivamente sentiamo dentro, se si tratta di una realtà in relazione alla quale “Io” sono assolutamente insignificante… a quel punto ho fiducia che quando la vita arriva al suo momento di radicale impossibilità, allora ciò che richiede di essere compreso, diviene comprensibile. Ma non secondo le mie regole. Questo è il motivo per cui, prendendo rifugio nei Tre Gioielli, lo faccio abbastanza coscientemente. Questo io, questo me, questa persona che è nata a Te Awamuto, cresciuta a Morrinsville, e che ha questa madre, e tale padre, che si porta dietro questa storia, questa fama e questi tratti caratteristici – questo personaggio che sperimento come essere me stesso, ecco che spontaneamente prende rifugio nel Dhamma. Quale la ragione? Per il fatto che se non oriento me stesso verso questo principio, è il mio modo a divenire più importante, e questo è il meccanismo di default che prende il sopravvento quando sono nei guai e non so che cosa fare. Perchè, se non mi sono preparato, se non ho preso rifugio nel Dhamma coscientemente, regolarmente, fisicamente, mentalmente, verbalmente, quando arrivo in quel posto in cui non so che cosa fare, potrò dire soltanto ‘Bene, cosavoglio fare? Voglio sapere cosa si suppone che io faccia. Voglio essere certo. Voglio una risposta. Voglio qualcuno che me lo dica…..’: ritrovandomi così trascinato da un simile desiderio. Ma se mi sono preparato, con la presa di rifugio in ciò che è, allora anche quando sono di fronte alla situazione in cui l’unica realtà è ‘Io davvero non so’, posso essere in quello spazio, presente a quella situazione. Posso stare lì con quella storia. Poi il Dhamma sostiene. E così, prendendo rifugio nel Dhamma, preparato da un riconoscimento cosciente che c’è qualcosa che si ama, sorge una propensione ad orientarsi verso quel qualcosa, ed un desiderio di offrire se stessi al suo servizio. E allora si è sostenuti, si è nutriti. Quello che accadrà in seguito non dipende da me, ma ho fede che la Via si dischiuderà.