di Sister Ajahn Sundara
© Ass. Santacittarama, 2009. Tutti i diritti sono riservati.
SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.
Tradotto da Gabriella De Franchis
Tratto dal libro “Freeing the heart”, reperibile dal sito www.amaravati.org.
DOPO TRE O QUATTRO GIORNI DI RITIRO DI MEDITAZIONE, la maggior parte di noi ha superato il peggio. Di solito siamo molto più luminosi e felici di quando abbiamo iniziato il ritiro. E’ il risultato di guardarsi dentro e di stare con se stessi per tre o quattro giorni e anche se stiamo molto male, ci avviciniamo a quella sensazione e ascoltiamo veramente il nostro cuore e la nostra mente. Poi succedono delle cose piacevoli e cominciamo a rilassarci. Non è una cosa facile da fare, ma iniziamo ad accettare di più tutto il dolore e tutte le sofferenze che di solito tendiamo a mettere da parte.
Sembra che non abbiamo mai tempo per volerci bene. Sembra che avere il tempo e lo spazio per vivere in armonia con noi stessi, non sia una cosa importante da fare. Così quando siamo in ritiro, abbiamo la meravigliosa opportunità di poterci aprire, di potere ascoltare e forse di capire un po’ più profondamente la natura della nostra mente, la natura dei nostri pensieri, dei nostri sentimenti e delle nostre percezioni; abbiamo l’opportunità di renderci conto che queste cose ci fanno sentire limitati e repressi soltanto perché non abbiamo quasi mai l’opportunità di prestare attenzione o di indagare e interrogarci sulla loro realtà, sulla loro vera natura.
Per tradizione, all’inizio di un discorso come questo, prendiamo i Tre Rifugi: nel Buddha, nel Dhamma e nel Sangha. Quando diventiamo monaci, senza tetto, abbandoniamo la nostra casa e prendiamo i Tre Rifugi. Così non siamo completamente senza casa. Di fatto prendiamo tre rifugi molto sicuri e ci lasciamo dietro tutto quello che ritenevamo sicuro, che consideravamo protettivo e garantito. Ci lasciamo dietro la casa, la famiglia, i soldi, il controllo delle nostre vite, il controllo delle persone con le quali viviamo, del posto in cui abitiamo; lasciamo andare tutto questo e in cambio prendiamo i Tre Rifugi.
Ebbene, all’inizio della mia esperienza, questi rifugi non avevano molto significato. Non avevo ben capito di che cosa si trattava. Durante l’anno ci sono diverse festività e cerimonie buddhiste e in quei giorni noi seguiamo una piacevole tradizione. Meditiamo tutta la notte, e prima della veglia facciamo tre giri intorno al monastero camminando lentamente e tenendo in mano una candela, dell’incenso e dei fiori. Monaci e laici camminano insieme, in silenzio, attorno al monastero, contemplando i Tre Rifugi, il Buddha, il Dhamma e il Sangha. E’ molto bello e toccante da vedere.
All’inizio non sapevo proprio che cosa significasse. Riflettevo sul Buddha e avevo solo un vuoto nella mia mente, riflettevo sul Dhamma, un altro vuoto, riflettevo sul Sangha, un altro vuoto. Ma non mi sono fatta prendere dal panico. Mi sono resa conto che c’era qualcosa che non facevo come si deve e che non avevo alcuna fretta di comprendere. In quel momento sentivo di avere tutta la vita per farlo. Così mi sono rilassata e sono arrivata alla conclusione che il Buddha, il Dhamma e il Sangha non erano cose alle quali dovevo pensare. Sapevo che questi rifugi, in un certo qual modo, si trovano nel cuore degli uomini e, forse, con la pratica sarei arrivata a conoscerne il significato.
Penso che quello che porta molti di noi ad essere interessati alla pratica della meditazione sia il bisogno di comprendere se stessi, il bisogno di mettere chiarezza nella confusione in cui viviamo. Molti di noi vogliono essere liberi. Vogliamo capire, vogliamo renderci conto, vogliamo vedere da soli di che cosa si tratta. Siamo tutti stufi dei libri; abbiamo letto abbastanza, abbiamo incontrato persone sagge a sufficienza. Abbiamo fatto tutto quello che potevamo per capire, e tuttavia non è stato abbastanza.
Per qualche motivo, la conoscenza di seconda mano non dà vera soddisfazione. Vogliamo sperimentare personalmente quello che, tutte queste persone sagge e questi saggi insegnamenti dicono. Finché non c’è la realizzazione della verità della nostra mente, non c’è vera comprensione. E’ difficile assaporare la libertà e la gioia della conoscenza, fare esperienza degli insegnamenti del Buddha da soli, di ciò che è conosciuto come visione profonda, il vedere direttamente la vera natura della nostra mente e del nostro corpo e renderci conto della sensazione di libertà che proviamo quando lasciamo andare tutti gli attaccamenti.
All’inizio della pratica, all’inizio del sentiero, tendiamo ancora a cercare qualche forma di felicità. Tutti vogliamo essere felici, non è vero? Chi è che vuole essere infelice? Vogliamo tutti essere liberi e provare piacere. Io non sono certo entrata in monastero per essere infelice e per soffrire. Quando sono arrivata, ero abbastanza sicura che la pratica della meditazione mi avrebbe reso più felice e mi avrebbe dato molto piacere. La felicità era piacere. E questa è una cosa che dovremmo tenere in considerazione.
La pratica non è per farci soffrire. Soffriamo semplicemente perché pratichiamo in modo sbagliato, perché non abbiamo fatto quanto è necessario per lasciare andare l’ignoranza, per lasciare andare i nostri attaccamenti. Quindi è importante tenere conto di questa cosa. Non dobbiamo supporre che, da praticanti, dobbiamo essere tremendamente seri e credere che, se non proviamo qualche terribile sofferenza o difficoltà, allora c’è qualcosa che non va bene.
All’inizio della mia formazione idee di questo genere mi hanno fatto soffrire moltissimo. Avevo l’impressione che se non avessi attraversato qualche difficoltà non sarei stata capace di lasciare andare. E il più delle volte è vero che se l’ignoranza non fa male non è riconosciuta; se non fa male, possiamo andare avanti per sempre senza esserne veramente consapevoli. Sembra che sia questa la nostra difficile condizione umana. Se qualcosa non ci fa male, non ci svegliamo veramente, non apriamo gli occhi per guardare.
Così ogni giorno recitiamo i Tre Rifugi come promemoria, perché senza questa abitudine tendiamo a prendere rifugio in cose come la rabbia e l’ansia. Abbiamo la tendenza a prendere rifugio nell’auto commiserazione o nel piacere, nella distrazione, nell’ossessione di noi stessi o nel volere dormire o mangiare tutto il tempo. Prendiamo un sacco di rifugio nel cibo, non è vero? E poi, prendiamo rifugio nel sentirci in colpa per avere mangiato. Così la nostra tendenza è di prendere rifugio nelle cose sbagliate, cose che ci rendono infelici. E se non avessimo sollecitazioni, se non avessimo mezzi abili, per riportare alla coscienza ciò che è veramente importante nella vita, ci dimenticheremmo di noi stessi e non vedremmo mai una via d’uscita dalla sofferenza.
Rifugio nel Buddha
Il rifugio nel Buddha è il rifugio nella conoscenza. Il Buddha conosce il mondo, che nel Buddhismo non significa il mondo delle montagne, dei fiumi e degli alberi, ma il mondo che sorge nella nostra mente – corpo e la sofferenza che creiamo a causa dell’ignoranza.
Nella nostra recitazione quotidiana diciamo che il Buddha conosce il mondo, egli conosce l’origine del mondo, la sua fine; conosce il modo in cui la mente crea la realtà nella quale viviamo, l’universo attraverso il quale navighiamo. Percorrendo il cammino, iniziamo anche a vedere chiaramente il sentiero che ci porta fuori dalla sofferenza. Qualcuno oggi mi ha chiesto: “Chi è che conosce? Chi è che è consapevole?” Una buona domanda, vero? Perché io non trovo nessuno che è consapevole, e voi? Per molto tempo ho cercato di trovare qualcuno consapevole dentro di me. Alla fine ho desistito. Ricordo che durante un ritiro di meditazione con un famoso maestro birmano, molto tempo fa, si parlava di “Chi fosse colui che conosce. Chi è?” Uno degli assistenti rispose: “Una super coscienza.” ‘Colui che conosce, è una super coscienza’ a quei tempi mi piacque molto.
Così immaginai che il mio cervello fosse tante piccole specie di mini-coscienze con una sorta di ombrello in cima, una super coscienza. Mi sentivo proprio bene; ebbi la sensazione certa di sapere qualcosa su questo Buddha, questa mente del Buddha, ‘colui che conosce’. Ma sfortunatamente, visto che la natura della mente è quella che è, dopo circa due o tre giorni iniziai a pormi domande e ad avere dei dubbi, perché questo succede naturalmente. Non appena abbiamo una risposta, sicuramente ci sorgerà un dubbio. E’ così che funziona.
E sin da allora ho fatto pace con il fatto che forse non c’è nessuno che conosce. Solo conoscenza; e sembra che vada bene. Sembra che la conoscenza sia capace di andare avanti con o senza i miei dubbi. Anche se non ho una risposta posso sempre prendere rifugio nell’essere il ‘conoscitore’, nell’essere colui che è consapevole, che può vedere.
Eppure, a volte, siamo capaci di fare diventare un grosso problema anche questo. Possiamo creare qualcuno che conosce e poi stare male perché abbiamo qualcuno che non conosce. Rimaniamo delusi quando giù in fondo, dentro di noi non abbiamo qualcuno che conosce; e magari siamo super felici quando troviamo qualcuno che è consapevole. Vedete, si tratta di nuovo dell’oscillazione tra piacere e dolore, tra felicità e infelicità. Ma, ‘Colui che conosce’ è proprio l’elemento che mette in equilibrio le oscillazioni estreme della mente. ‘Colui che conosce’ è ciò che viene chiamato la Via di Mezzo.
Possiamo vedere gli estremi della mente, felicità, infelicità, piacere e dolore, ispirazione e disperazione. Possiamo vedere speranza e depressione. Possiamo vedere apprezzamento e biasimo. Possiamo vedere agitazione, sonnolenza, noia, tutto. E quel vedere è un elemento di equilibrio, perché diventiamo consapevoli del nostro attaccamento a questi stati d’animo, a questi stati della mente. Senza rifugio nella conoscenza, nella mente risvegliata, non saremmo mai in grado di guardare la mente; saremmo persi nella confusione. Quindi, il rifugio nella conoscenza è molto importante.
Insieme i rifugi si chiamano i Tre Gioielli; e sono veramente come dei bei gioielli ai quali possiamo tornare ogni volta che c’è confusione, ogni volta che c’è agitazione. Possiamo sempre tornare indietro e prendere rifugio nella conoscenza di questi stati, non li dobbiamo pensare, non dobbiamo psicoanalizzarci. Possiamo realmente tornare indietro alla conoscenza; e quello che succede allora, è che vediamo ciò che il Buddha ha visto: l’impermanenza. Possiamo vedere che non vale la pena restare attaccati a questi stati, perché sono non sostanziali, sono insoddisfacenti. E abbiamo la strana sensazione che forse noi non siamo ‘Questo’, che forse non ha niente a che fare con ‘Me’. Forse la mia depressione non è la ‘Mia’ depressione.
Non sarebbe meraviglioso se ci rendessimo conto che la nostra tristezza in realtà non è una cosa personale? Molti problemi nella nostra vita li creiamo noi, perché siamo portati a pensare che qualsiasi cosa ci accada sia personale: ‘Povero me’, ‘Queste cose capitano solo a me’, ‘Sono l’unico ad avere questo problema’. Tutti gli altri ci sembrano tremendamente sicuri, non è vero? Specialmente, se ci manca fiducia in noi stessi. Ci sembra che tutti gli altri siano infinitamente forti e che sappiano veramente quello che stanno facendo. Prima la pensavo così: guardavo qualcuno e, se mi sentivo un po’ depressa o infelice, mi potevo anche convincere che quella era una persona a posto, che stava bene. Io ero l’unica ad avere problemi. Finché non mi resi conto che anche loro avevano problemi.
Poiché, per natura, siamo creature cha hanno al centro l’io, tutto diventa il ‘mio’ problema, la ‘mia’ vita, il ‘mio’ dolore, le ‘mie’ relazioni. Le ‘mie’ tragedie. Sembra che tutto giri intorno a ‘Me’. Il rifugio nel Buddha ci permette di vedere questo molto chiaramente; ed è un rifugio compassionevole, non è un rifugio che giudica.
Quando prendiamo rifugio nella consapevolezza, non dobbiamo giudicarci, condannarci o essere arrabbiati con noi stessi. Possiamo osservare la tendenza a giudicare, ad arrabbiarsi e a pretendere da noi stessi. E’ un rifugio molto compassionevole. Infatti quel rifugio è uno dei primi versi della nostra recitazione, ‘La compassione del Buddha è vasta come l’oceano,’ e quel rifugio in realtà significa questo: è una dimora meravigliosa, piena di compassione.
E così abbiamo tre dimore, tre rifugi. Abbiamo il rifugio nel Buddha. Non ha un tetto, né riscaldamento, ma ci si sta molto bene. Fa sentire molto sicuri, molto fiduciosi; specialmente se vediamo quanta agitazione c’è nella nostra vita e quanto sia inaffidabile e insicura. Diventando più consapevoli abbiamo una visione chiara e una chiara comprensione del samsara, l’interminabile ciclo di nascita e morte. E noi siamo tutti qui per liberarci da questo nostro attaccamento.
Prendere rifugio nel Buddha ci tiene effettivamente in contatto con ciò che è reale, ciò che è realmente vero. Questo è uno dei motivi per i quali tendiamo a dimenticarcene. Il significato di presenza mentale è ‘memoria’, ricordare. Ogni volta che ci perdiamo nell’essere sciocchi o sgarbati, o nell’essere arrabbiati o impazienti o stupidi, possiamo ricordare. Possiamo ricordarci anche che non dobbiamo cambiare noi stessi. La compassione di questo rifugio è quella che ci fa essere consapevoli di quello che sta accadendo, non c’è giudizio; non dobbiamo diventare qualcuno che non è arrabbiato o che non è stupido. Possiamo, di fatto, riconoscere quello che sta accadendo ed accettarlo in coscienza e nel nostro cuore. Appena abbiamo questa chiara visione di quanto sta accadendo, ci rendiamo conto che sta cambiando e vediamo chiaramente l’inutilità di lottare per mantenere le cose permanenti, per mantenere noi stessi come entità permanenti. Siamo in continuo cambiamento e quindi che motivo c’è di essere questa persona che proteggiamo, che viziamo e che cerchiamo, in tutti i modi, di rendere felice?
La maggior parte delle nostre lotte nella vita è per creare situazioni dove ‘me’, la mia personalità, non dovrà mai affrontare sofferenze, o patire il dolore, non si sentirà mai in imbarazzo, non dovrà vergognarsi, non si sentirà colpevole. Ecco perché siamo così bravi a dimenticare, e dobbiamo imparare nuovamente a ricordare. Dobbiamo imparare ad essere consapevoli, ad avere sati (presenza mentale) nel nostro cuore come rifugio e protezione – essa ci protegge, protegge il cuore.
Rifugio nel Dhamma
Il secondo rifugio, il Dhamma, è molto vicino al primo. C’è appunto un famoso insegnamento dato dal Buddha ai suoi discepoli, poco prima di morire. Essi erano in ansia per il fatto che il Buddha lasciasse questo mondo e si domandavano chi sarebbe stato il loro maestro dopo la sua dipartita. Si preoccupavano di chi sarebbe stato il successore e la loro guida. Ed egli disse. “Il Dhamma e il Vinaya saranno la vostra guida e il vostro rifugio.” In una precedente occasione aveva anche detto che: “Chi vede il Buddha vede il Dhamma, chi vede il Dhamma, vede il Buddha.”
Dhamma e Buddha; non c’è nessun bisogno di avere un Buddha fisico. In realtà possiamo trovare il Buddha, colui che conosce, colui che è consapevole, nel nostro stesso cuore. E appena siamo consapevoli, presenti mentalmente, siamo in contatto con il Dhamma. Questo è il bello di questa pratica. Leggendo libri sul Buddhismo a volte pensiamo di dovere leggere l’intero Tripitaka prima di potere entrare in contatto con il Dhamma. Crediamo di dovere imparare l’ Abhidhamma, di dovere perfezionare le dieci paramita, dovere sviluppare i cinque poteri, sbarazzarci dei cinque ostacoli e conoscere i 56 stadi della coscienza, e così via e alla fine ci sentiamo così stanchi che non ce la sentiamo nemmeno di cominciare.
In effetti oggi riflettevo sul fatto che quando nella meditazione respiriamo consapevolmente attraverso le narici, tollerando un po’ di dolore, un po’ di sudore o sopportando il caldo, il freddo, la gente rumorosa o la noia, non abbiamo la minima idea della quantità di cose con cui realmente stiamo facendo pratica. Ancora non sappiamo che in quei momenti stiamo perfezionando le dieci paramita, che stiamo lasciando andare gli ostacoli e stiamo sviluppando i cinque poteri: concentrazione, sforzo, presenza mentale, fede e saggezza. Forse non ne siamo consapevoli, ma stiamo veramente perfezionando molte qualità spirituali del cuore. Però non sembra granché, non è vero? Stiamo semplicemente inspirando attraverso le narici e poi espirando, e poi sentiamo un po’ di dolore, e poi questo se ne va. Niente di speciale, no? Eppure, dopo qualche anno di pratica, cominciamo a vedere i frutti del nostro sforzo e gli insegnamenti diventano vivi.
Così il rifugio nel Dhamma non è qualcosa che dobbiamo cercare molto lontano. Non dobbiamo cercare il Dhamma da qualche parte, là fuori in un altro paese, o in un’altra persona, o un qualcosa che succederà domani o l’anno prossimo.
La qualità del Dhamma è l’immediatezza (sanditthiko) – il qui e ora. Il Dhamma ci invita a “venire a vedere” (ehipassiko) e questo si può fare quando c’è consapevolezza e saggezza. Il Dhamma non è “qualcosa che verrà dopo” (akaliko). Queste qualità le recitiamo ogni mattina. Non dobbiamo aspettare che qualcuno ci dica che cosa è. Non dobbiamo leggere libri. Non dobbiamo fare uno studio progressivo, passo dopo passo, prima di potere entrare in contatto con il Dhamma.
Il rifugio nella consapevolezza ci porta al presente e nel presente c’è il Dhamma, c’è la verità, c’è il modo in cui le cose sono. Questo, però, si può vedere soltanto quando c’è una chiara consapevolezza del momento presente.
Un altro significato di Dhamma è “ciò che si auto-sostenta.” La natura si sostiene da sé, ha i suoi cicli e le sue stagioni – va avanti per sempre. Possiamo guardare la natura della nostra mente, la nostra natura umana e come operiamo. Anche noi abbiamo stagioni e cicli, abbiamo i nostri giorni e le nostre notti, il nostro buio e la nostra luce, abbiamo un ritmo. E siccome non conosciamo questo ritmo, a volte ci trasciniamo fino al completo esaurimento, alla malattia o allo stress mentale. Spesso dimentichiamo di essere parte della natura, parte del ‘modo in cui le cose sono.’
La nostra intelligenza, la nostra capacità di conoscere, tende ad alienarci dalla nostra natura. Spesso ci sentiamo degli estranei nei nostri confronti perché la natura umana non è poi così eccitante, i pensieri lo sono molto di più! Noi pensiamo, pensiamo, pensiamo le cose più incredibili. La nostra immaginazione è davvero alquanto creativa, specialmente durante i ritiri. Possiamo veramente vedere che meraviglioso creatore è la mente.
Una volta, un famoso Maestro thailandese di meditazione disse che nel Buddhismo non è un Dio che crea, è l’ignoranza. Noi creiamo a causa dell’ignoranza. Creiamo un’incredibile quantità di cose meravigliose e di cose orribili: paradisi e inferni. Possiamo immaginare quasi tutto. A volte ci chiediamo che cosa abbiamo fatto in passato perché la nostra mente possa pensare cose tanto stravaganti.
A causa della capacità della mente di pensare e di creare mentalmente, spesso non riconosciamo la nostra natura fisica, il ritmo del nostro corpo, il ritmo della nostra mente, il ritmo delle nostre emozioni, dei nostri sentimenti, dei nostri stati d’animo, di come siamo influenzati dal mondo che ci circonda, dalla luna e dal sole, dal giorno e dalla notte. Sembra che molti di noi non riconoscano il valore di tutto questo nei propri confronti. Tendiamo ad avere un sacco d’idee su come le cose dovrebbero essere, come ci piacerebbe che fossero, come pensiamo che dovrebbero essere, e abbiamo pochissimo spazio per ‘il modo in cui le cose sono’, per quello che sta succedendo in questo momento. Per la verità, dopo un po’ di tempo, si riesce a vedere chiaramente lo schema nella propria mente: c’è ciò che noi pensiamo che dovrebbe essere, poi ciò che vorremmo che fosse, e alla fine ciò che è. Sembra che tutti e tre abbiano un po’ di difficoltà a collaborare tra di loro.
Nei primi anni c’è voluto un po’ di tempo prima che mi accorgessi di questo schema, ma con la pratica ho iniziato a capire che in un momento possiamo soltanto essere consapevoli di quel tanto, che spesso non è molto. Possiamo pensare un sacco di cose, ma in realtà possiamo conoscerne abbastanza poche. La comprensione si approfondisce attraverso la conoscenza e indagando su ciò che noi siamo.
Quando era ancora una anagarika, ho trascorso il mio terzo Vassa con un’altra monaca a 300 miglia di distanza dal monastero. Nel periodo del Vassa eravamo in ritiro per la maggior parte del tempo. All’inizio vedevo che ogni volta che provavo una sensazione di avidità, di rabbia o di illusione, i miei pensieri avevano uno schema ricorrente. Alle 7:00 di sera, mentre facevamo la recitazione serale, la sofferenza che avevo patito durante il giorno sembrava che stessero svanendo, o quanto meno, diminuendo. E improvvisamente avevo questa straordinaria intuizione di come avrei trascorso il giorno seguente ed esattamente di come avrei gestito tutti i miei problemi. Improvvisamente sapevo come trattare l’avidità, sapevo come trattare l’odio; sapevo come trattare la noia, l’irrequietezza, tutto quanto. Sentivo di avere la situazione sotto controllo e sapevo che non avrei mai più sofferto. Lo sapevo. Ero convinta che non avrei mai più sofferto.
Naturalmente per le 9:30 la mia intuizione si era sviluppata a tal punto che non avevo assolutamente alcun dubbio sul fatto di essere illuminata riguardo a tutti i miei problemi. Andavo a letto e arrivavano le 4:00 del mattina. Vi potete immaginare quello che succede alle 4:00 del mattino! I primi anni era ancora abbastanza difficile svegliarsi a quell’ora del mattino. La mente può essere assonnata, intorpidita, depressa, orribile.
Facevo degli esercizi yoga perché sapevo che fare yoga era meglio che rimanere in quello stato negativo. E dopo la sessione, generalmente, mi sentivo meglio. Facevamo le nostre recitazioni e dopo arrivava il giorno. Non facevamo colazione in quei giorni, prendevamo soltanto una bevanda calda e la mia negatività non migliorava così velocemente come avrei voluto. Mi sentivo ancora un po’ irritata e depressa. Poi arrivava il pasto, e non era per niente una cosa da poco. Avevamo deciso che, durante quei tre mesi, avremmo fatto la pratica in un’unica seduta, significava che, una volta che ci sedevamo per mangiare, non potevamo alzarci e se lo facevamo, avremmo dovuto smettere di mangiare e per quella giornata avremmo chiuso!
Così, per non doverci alzare di nuovo, prima di sederci ci assicuravamo di avere abbastanza da mangiare e di non avere dimenticato niente. Alla fine del pranzo mi sentivo di nuovo in uno stato pietoso perché, naturalmente, avevo mangiato troppo. Questo significava un pomeriggio di depressione, di indolenza, di sonnolenza e di confusione perché la mente non era in grado di affrontare il disagio di sentirsi avida o in collera con se stessa. Ho visto che, per un certo periodo di tempo, ogni giorno lo stesso ciclo ricominciava da capo. Certamente c’erano anche dei momenti luminosi e di pace!
Ma, una volta seduta di fronte al mio pasto, tutte le mie intuizioni erano svanite, andate da qualche parte dove non potevo trovarle. In quel momento era molto difficile portare in essere la saggezza e la presenza mentale, perché in fondo volevo solo quello che volevo; volevo mangiare, quello che volevo e quanto ne volevo. Tutto qui!
Prima di ogni pasto facevamo una riflessione che diceva che il mangiare è per il benessere del corpo, non per divertimento, né per piacere, ne’ per diventare belli o per ingrassare e così via, ma dopo averla recitata, automaticamente mi scordavo tutto e incominciavo a mangiare.
Ad ogni modo, verso le 5:00 del pomeriggio mi sentivo meglio e un po’ più leggera. Venivo da quattro ore di meditazione seduta e camminata durante la digestione di un pasto pesante; verso le 6:00 nella mia mente sorgeva nuovamente la risoluzione di non farlo più, di non cedere per niente o di non assecondare i miei desideri. In quel momento la mia comprensione era perfettamente chiara. Alle 7:00 non avevo dubbi. Alle 9:30 di sera conoscevo completamente l’insegnamento del Buddha, sapevo di essere in grado di usarlo e che non avrei mai più sofferto.
Questa situazione andò avanti per un bel po’ finché non mi resi conto che si trattava solo della mia mente. Non aveva niente a che fare con la realtà. Era solo il modo in cui la mia mente pensava. Quindi possiamo immaginare quanta delusione avremmo ogni giorno se credessimo a questi pensieri e non li vedessimo come dhamma o se li sentissimo come ‘questo è ciò che sono’?
In effetti, ogni giorno mi sentivo delusa di ‘me stessa’ e la mia sensazione era: “Non sono brava. Non so farlo.” Ma quando cominciai a vedere chiaramente lo schema e quando mi resi conto che era esattamente ciò che dovevo capire e da cui dovevo imparare, non ci furono problemi.
Fin quando prendiamo le cose in modo personale, perdiamo il Dhamma e veniamo presi in giro da quello che sorge nella nostra mente. Non riusciamo a vedere che le cose che ci fanno stare male non sono né quello che siamo né quello che crediamo di essere. Abbiamo la tendenza a credere e a identificarci con il flusso costante dei pensieri, dei sentimenti, delle percezioni della nostra mente, e non c’è da meravigliarsi se diventiamo nevrotici e dobbiamo andare dallo psichiatra, dallo psicanalista, dai guaritori e via dicendo.
Si tratta di praticare con il giusto atteggiamento, con un atteggiamento di compassione e di infinita pazienza, piuttosto che sviluppare e perfezionare qualche tecnica particolare. Perché, se nonostante la molta pratica e l’esperienza nella meditazione sul respiro, nel passare in rassegna il corpo e tutto quanto, ci sforziamo ancora per arrivare ad essere un perfetto ‘meditatore anapanasati’, il nostro approccio è sbagliato. Senza una prospettiva corretta rimaniamo imbrigliati nell’idea di dovere migliorare il ‘Me’.
L’immediatezza e la chiarezza dell’esperienza del Dhamma è qualcosa di molto straordinario; è un’altra grande benedizione. Possiamo comprendere la vera natura dei nostri pensieri senza alcuna intermediazione. Non dobbiamo creare niente; possiamo semplicemente vedere i pensieri come sono. E’ una cosa abbastanza notevole ed è quello che mi ha attirato di più di questo insegnamento.
Quando sono venuta a praticare ero, in un certo senso, molto contenta della semplicità e dell’immediatezza della realizzazione della natura della mente. Non bisognava imparare troppo o prendere un dottorato, non si doveva cominciare ad accumulare più conoscenza. Nella pratica del Dhamma si procede lasciando andare, svuotando e liberando se stessi dal fardello della conoscenza, dal fardello delle esperienze accumulate, dal peso di dovere essere qualcuno o di dovere reggere una persona nella mente.
Mi ricordo che quando praticavo da laica nel mondo (questo naturalmente non è per influenzarvi tutti a diventare monaci o monache), avevo la sensazione di essere sempre ‘qualcuno’ che praticava. Lo trovavo molto difficile. C’era questo peso di ‘me’ che praticava. Quando sono venuta al monastero ero una qualunque e potevo dimenticare di dovermi sentire speciale o di dovere essere qualcuno che va contro corrente, qualche strana creatura sul sentiero spirituale, perché tutti lì facevano la stessa cosa: eri proprio nella norma.
Questo è un altro significato di Dhamma: “la Norma.” Ciò che è normale, ordinario. Molto del nostro addestramento in monastero è centrato su ciò che è ordinario. Ogni giorno passiamo un certo periodo di tempo pulendo, spazzando, spolverando, andando da una stanza all’altra, facendo semplici lavori e prestando attenzione alle cose più terrene, come aprire le porte, vestirsi, mangiare, alzarsi al mattino, spazzolarsi i denti, indossare le scarpe, andare in bagno, andare a letto. Cose semplici come queste non sono eccitanti e la nostra mente impara a calmarsi e ad essere più semplice, più ordinaria.
Non è che ci possiamo divertire proprio tanto nel metterci le calze, o nell’alzarci alle 4:00 del mattino. Non ci affascina per niente il fatto di pulire i bagni. Sebbene io ce l’abbia messa tutta! Ho cercato di renderlo veramente interessante, ma non ci sono riuscita. In un certo senso è così ordinario. Ho pulito i bagni per un lungo periodo al Monastero di Chithurst, dove avevamo tutti diverse faccende domestiche da sbrigare al mattino. Le chiamiamo faccende domestiche, ma in realtà non lo sono, è solo quello che facciamo ogni mattina e quello che riusciamo a ricavarne. Possono essere noiose. Possono essere interessanti. O possono essere semplicemente quello che sono.
Possiamo vedere che la nostra mente vuole rendere le cose speciali. Ricordo che al mattino quando pulivo i bagni, decidevo di pulire prima il lavabo e poi, come seconda cosa il gabinetto e poi, per terzo, il pavimento. Forse il giorno dopo cambiavo schema; pulivo prima le finestre, o spazzavo con una scopa diversa. Oppure decidevo di non pulire il pavimento con quello straccio particolare e cambiavo mocio. Mi ritrovavo particolarmente intricata nell’uso di uno strumento particolare, o mi adiravo per cose veramente banali e facevo una grande tragedia per un nonnulla. Se non avessi vissuto in un monastero non avrei mai visto il modo in cui la mente sa creare tragedie dal nulla.
Essere in contatto con l’ordinarietà delle nostre vite è qualcosa di molto difficile per noi, perché siamo stati condizionati a caricarci di energia attraverso cose che sono interessanti o stimolanti. Oppure focalizziamo l’attenzione sulla cosa successiva: su cosa accadrà poi.
A meno che non ci sia una guida e l’aiuto da persone sagge, di persone che hanno la comprensione del sentiero, tendiamo a continuare la nostra pratica spirituale allo stesso modo di prima che cominciassimo. Stiamo ancora cercando il fascino, l’entusiasmo, qualcosa di speciale, il big bang, le luci lampeggianti, la super intuizione che risolverà tutti i ‘miei’ problemi.
Ma temo che non funzioni così. Con la pratica cambia la relazione che abbiamo con la nostra mente. Lasciamo fluire il flusso della brama, dell’odio e della illusione. Non ne facciamo più un problema. Lasciamo che il flusso della nostra mente prenda il suo corso. Smettiamo di dare forma di questo o di quello al flusso dei nostri pensieri e delle sensazioni. Essere in armonia con il Dhamma significa fare pace con tutto quello che sta succedendo ora, con “il modo in cui le cose sono”, il Dhamma.
Questo non vuol dire che ci trasformiamo in un cavolo, in una non-entità o che restiamo lì seduti ad aspettare, aspettare, aspettare che le cose succedano. Anche se a volte, forse, ci sentiamo così. Dopo alcuni anni di pratica, mi ricordo quanto mi sentivo stupida. C’erano momenti in cui mi ero completamente arresa all’idea che non mi sarei mai più sentita intelligente!
Ricordo che una volta in un caldo pomeriggio assolato, stavo attraversando il cortile ad Amaravati e mi sentivo abbastanza infelice e depressa. Avevo perso l’entusiasmo. Sembrava che non ci fosse più. C’era soltanto una specie di stato di indolenza e io mi ci stavo identificando pienamente. Era terribile. Pensavo veramente che questo stato d’animo era ciò che io ero e sentivo che ero molto arrabbiata per questo. Pensavo: “Questo non lo sopporto, è impossibile. ‘Loro’ con la ‘L’ maiuscola, mi stanno trasformando in una rapa.” (vegetale che consideravo il più smorto, insipido e insignificante!). Non sapevo chi fossero ‘Loro’….. Ricordo che lungo la strada incontrai uno dei maestri della comunità e gli dissi: “Probabilmente sto raccogliendo i frutti del karma di avere odiato essere una casalinga.” Ho sempre odiato così tanto l’idea di essere una casalinga che in passato, prima di diventare monaca, mi irritava fare le pulizie o i lavori di casa o lavare la biancheria o i piatti. Eppure, quando ho iniziato il mio addestramento a Chithurst, mi sono ritrovata a fare proprio questo. Egli rise e rispose: “Bene, quando la cosa non ti dispiacerà più veramente, allora vuol dire che questo tuo karma si è esaurito.”
Fu veramente un’intuizione fantastica perché pensavo che la cosa non mi dispiaceva. Però mi sentivo così disperata e infelice che ovviamente qualche cosa dentro di me si dispiaceva. Quindi è difficile essere ordinari e accettare le banalità della nostra vita. Ecco perché la maggior parte delle volte ci sentiamo frustrati, perché pensiamo che in qualche modo, le cose saranno diverse, non è vero?
Intuiamo che la vita non dovrebbe consistere soltanto nell’alzarsi al mattino, nel fare colazione, nell’annoiarsi, nel farsi un pianto al matrimonio di qualcuno, nell’andare in bagno, mangiare, annoiarsi al lavoro, tornare a casa, guardare la televisione, andare a letto, alzarsi al mattino e così via, giorno dopo giorno. Sentiamo che, comunque, qualcosa di diverso ci deve essere. Così facciamo un viaggio e giriamo il mondo – e scopriamo che anche nell’altra parte del mondo, dobbiamo ancora alzarci, dobbiamo ancora andare in bagno, dobbiamo ancora mangiare, essere felici e annoiarci, essere seccati e depressi. Abbiamo ancora lo stesso vecchio ‘io’; sia che siamo qui, o in California o in India o in qualsiasi posto. Riconoscere questo è stato il più grande insegnamento della vita monastica.
In realtà la vita monastica, vista dall’esterno, è abbastanza ripetitiva e noiosa. E se ci identifichiamo con le strutture o la routine, allora diventa il più tedioso stile di vita. A volte è così monotono che non ne avete idea! Ma accettando la percezione e il sentimento di noia, per esempio, ci rendiamo conto che in realtà va abbastanza bene.
Non si tratta tanto di liberarsi della noia quanto di vedere che cosa ci aspettiamo dalla vita. Io ho trascorso molti anni aspettandomi dalla vita qualcosa che non poteva darmi. Ecco dov’era il problema! E allo stesso modo, sarò molto delusa, frustrata o in costante stato di conflitto se dalla vita monastica mi aspetto qualcosa che non mi può dare.
Quindi vedere il modo in cui sono le cose è una realizzazione molto importante perché allora possiamo veramente lavorare con la vita così com’è invece di aspettarci qualcosa o di sognare. Le aspettative sono come i sogni. E la maggior parte della nostra vita è come un sogno, o come una nuvola, e noi speriamo che questa nuvola ci dia qualcosa di reale e sostanziale. Siete mai stati in grado di dare forma ad una nuvola? O a un sogno? Però, questo è quello che cerchiamo sempre di fare, non è vero? Possiamo avere controllo sui nostri sogni? Forse si, ma la maggior parte del tempo non siamo neanche in grado di ricordarli o di fare quello che vogliamo quando ci siamo dentro.
Allora c’è questo stato onirico che creiamo con le aspettative, con la non comprensione dei limiti della nostra mente e del nostro corpo, della nostra vita e del mondo in cui viviamo. La nostra vita può solo fare un tanto. Il nostro corpo può solo fare un tanto. Quando si è giovani si pensa che il proprio corpo possa fare qualsiasi cosa, ma quando raggiungiamo la mezza età, come me, allora anche sedersi può diventare una sfida. Amavo molto stare seduta; potevo stare seduta per lunghi periodi di tempo e mi piaceva molto. Era un piacere. Ma ora, a volte, è più una prova di forza.
Quindi siamo limitati; siamo legati da certe restrizioni. Ma se le vediamo per quelle che sono, allora, succede una cosa meravigliosa: possiamo veramente lavorare con la vita così com’è. Da essa non ci dobbiamo aspettare più niente; in realtà possiamo essere noi a dare alla nostra vita. E questo è un grande cambiamento nella nostra mente. Con la pratica cominciamo a vedere che non dobbiamo chiedere, ricevere o pretendere niente dalla vita. In realtà possiamo dare, offrire e con gioia rispondere ad essa. E questo possiamo farlo tutti.
La situazione naturale della realizzazione del Dhamma è la consapevolezza che la vita è una opportunità costante di dare, di essere generosi, di essere gentili, di essere utile in qualsiasi situazione ci troviamo. Quando lasciamo andare non siamo più così bloccati e ossessionati da noi stessi. Possiamo veramente essere utili. Possiamo aiutare. Possiamo dare. Possiamo incoraggiare noi stessi e le persone che ci stanno attorno.
Rifugio nel Sangha
Il rifugio nel Sangha, l’ultimo, è il rifugio nella nobile amicizia – kalyanamitta.Simboleggia la comunità di uomini e donne, che hanno preso gli ordini o che vivono nel mondo, che hanno preso rifugio in una vita di saggezza e di compassione, in accordo con il Dhamma. Prendono rifugio nell’innocuità, nella gentilezza amorevole e nel rispetto nei confronti di tutti gli esseri viventi. Sono persone che hanno una coscienza morale. Sono consapevoli quando non stanno facendo proprio la cosa giusta o quando stanno agendo in maniera sciocca o dannosa.
Questo rifugio simboleggia la purezza del cuore umano. Ricordo quando per la prima volta ho sentito parlare del concetto di ‘Cuore Puro’. Essere un cuore puro sembrava una cosa buona. E questo rifugio è proprio questo: è un rifugio in ciò che c’è di buono, di sano, di compassionevole e saggio in noi.
Prima che iniziassi ad essere interessata al Buddhismo, andavo nei monasteri Cristiani a fare dei brevi ritiri da sola. La cosa che mi colpì di più in quei posti (allora non sapevo niente dei monasteri buddhisti), era questa grandiosa, pervadente sensazione di rispetto per la vita e per gli altri. Anche il silenzio sembrava essere una specie di attestazione di grande rispetto, che onora il meglio negli esseri umani. Era molto commovente. Non sapevo spiegare cos’era, ma sentivo che le persone erano devote a qualcosa di veramente buono, a qualcosa di realmente vero.
Quando sono venuta a Chithurst e ho incontrato la comunità per la prima volta, ho avuto la stessa identica sensazione di incontrare persone completamente dedite ad onorare la verità, ad essere verità e vivere in conformità con essa. E così il rifugio nel Sangha fu la prima cosa che mi portò alla vita monastica.
Il mio interesse ad unirmi al Sangha monastico è venuto dal desiderio di avere un veicolo e un rifugio sano in me stessa, che mi potesse fare da guida. Mi sono resa conto, per esempio, che senza uno standard etico per contenere e comprendere l’energia dei miei desideri, ero proprio nei guai. Ero sempre molto brava nel sapere cosa fare, cosa essere; ero proprio un’esperta nel creare ideali. Ma, per qualche motivo, l’energia dei miei desideri aveva idee molto diverse al riguardo. Le mie abitudini all’auto-gratificazione da una parte, e il mio forte desiderio di verità dall’altra, non si incontravano, non sembravano essere buoni amici.
Uno delle prime cose che mi fu subito chiara quando mi unii al Sangha, fu che i precetti erano i miei migliori amici e i miei protettori. Non ho mai avuto la sensazione che fossero invadenti. Al contrario, sapevo che mi sostenevano e mi ricordavano di essere più consapevole quando parlavo, agivo, pensavo o mangiavo o anche quando dormivo.
L’addestramento del corpo e della mente richiede un’enorme quantità di pazienza e di compassione. Le nostre abitudini sono forti e se in passato abbiamo vissuto una vita abbastanza superficiale, non possiamo pretendere di diventare subito virtuosi. Quando si arriva al monastero, non si diventa santi in una notte. E non è un ritiro di meditazione o il fatto di rispettare i precetti per dieci giorni che ci farà trasformare, non è vero? Ma, almeno, abbiamo una situazione e un insegnamento che ci possono aiutare a guardare ciò che non è corretto o abile nel nostro comportamento e nelle nostre abitudini, e a farci pace.
Così prendiamo rifugio nel Sangha e usiamo gli standard seguiti da quelli che hanno percorso il sentiero prima di noi e che si sono liberati. Questo rifugio pone in evidenza il nostro impegno in una condotta virtuosa, in un modo di vivere che protegge e nutre la pace del cuore e ci ricorda la nostra intenzione di liberarlo. Se non avessimo queste linee guida, ci dimenticheremmo facilmente di noi stessi. E in questo siamo molto bravi. Infatti questo è quello che la mente è più intenta a fare, e lo fa tutto il tempo, dimentica. Ma quando prendiamo rifugio nella presenza mentale, nel Dhamma e nella purezza delle nostre intenzioni di liberarci dalle illusioni, ci ricordiamo di avere gli strumenti necessari per addestrare il cuore e per vedere con chiarezza l’incompetenza delle nostre abitudini, delle nostre parole, dei nostri pensieri, ecc.
Questi rifugi possono sembrare tre: Buddha, Dhamma e Sangha, ma, in realtà, sono soltanto uno. Non c’è uno senza l’altro. Quando ci sono virtù e intenzione di vivere in armonia, con compassione e rispetto per se stessi e per gli altri, allora c’è una crescita naturale della consapevolezza, in armonia con il Dhamma, e siamo più in sintonia con la verità. Tutti interagiscono e si condizionano a vicenda.
All’inizio non sappiamo bene che cosa siano e dove siano questi rifugi. Sembra che siano soltanto parole. Ci si può sentire persino confusi e non avere fede. Ma, con la pratica, continuando a lasciare andare il nostro attaccamento a pensieri, sentimenti e percezioni, essi diventano una realtà crescente.
Possiamo realmente fare esperienza di questi rifugi. Diventano una parte della nostra vita, parte di qualcosa al quale possiamo tornare, proprio qui, proprio ora. Non dobbiamo aspettare. Sono sempre presenti nel nostro cuore. Qui, ora, nel momento presente. Questa è la vera bellezza della pratica del Sentiero. Questa totale semplicità, questa immediatezza, in sé completa. Non c’è altro di cui avere bisogno. Prendendo solo i Tre Rifugi abbiamo tutti gli strumenti che ci servono per liberare il cuore.