del venerabile Ajahn Vajiro
© Ass. Santacittarama, 2013. Tutti i diritti sono riservati.
SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.
Traduzione di Gabriella De Franchis.
Adattamento di un discorso tenuto nel 2010 al monastero di Amaravati
Ajahn Vajiro è nato in Malesia nel 1953. Incontrò Ajahn Chah e Ajahn Sumedho al Vihara di Hampstead nel 1977. Nel 1979 divenne samanera e ricevette l’upanasadā da Ajahn Chah a Wat Pah Pong. Nel 1984 Ajan Vajiro è tornato in Inghilterra e ha contribuito alla fondazione del monastero buddhista di Amaravati. In questi ultimi tempi si è trasferito in Portogallo dove cura la fondazione di un nuovo monastero.
“Questa contemplazione ci predispone per essere pronti
a restituire alla natura ciò che le appartiene;
a non prendere il nostro corpo in modo così personale”
VORREI OFFRIRE delle considerazioni sulla coltivazione di asubha kammatthāna o ‘riflessione su ciò che è privo di attrattiva’. In monastero la recita del canto relativa ad asubha rientra nella pratica normale. Questa pratica è particolarmente raccomandata ai samana, a tutti quelli che sono sul cammino della rinuncia, ma vorrei esortare tutti a tenerne conto. E’ una delle poche pratiche per le quali ho personalmente ricevuto istruzioni proprio dal mio precettore, Luang Por Chah. E’ sicuramente utile ma, come ogni pratica, è necessario un continuo sforzo di applicazione perché sia efficace. Spesso la gente non è motivata a fare la meditazione asubha, però è uno strumento potente ed efficace. Trattando quest’argomento vale la pena osservare che, nel fare questa pratica, si deve anche coltivare mettā-bhāvanā o la meditazione sulla gentilezza amorevole.
Asubha kammatthāna porta a vedere le cose come realmente sono, in modo equilibrato; questa forma di meditazione offre un antidoto, qualcosa che contrasta il solito modo di vedere le cose. Di solito vediamo il corpo nella sua totalità; guardiamo le persone e le vediamo come massa di materia. La nostra tendenza è di non riflettere sul fatto che il corpo che stiamo guardando è formato da tanti frammenti e pezzettini assemblati e collegati fra di loro. Uno degli aspetti particolari della pratica di asubha – che costituisce la parte iniziale della cerimonia di pabbajjā, o ‘ingresso nel sentiero’ per coloro i quali praticano la rinuncia – è la riflessione sui cinque fattori esterni che notiamo immediatamente quando guardiamo un corpo. Il consiglio è di imparare a immaginare questi cinque elementi del corpo separatamente, nel cuore e nella mente: i capelli, i peli del corpo, le unghie, i denti e la pelle. Durante la cerimonia di pabbajjā il precettore inizia l’aspirante a questa meditazione facendogli recitare i cinque oggetti dal primo all’ultimo e viceversa: kesā, lomā, nakhā, dantā, taco; e poi: taco, dantā, nakhā, lomā, kesā. E’ un peccato che per alcuni questo sia l’unico incontro con tale pratica considerato che poi non ci ripenseranno più. Ma sviluppare questa pratica porta un grande beneficio.
I capelli. Di solito le persone fanno un sacco di storie per i capelli, sia per quelli propri che per quelli degli altri – ci spendono molti soldi e ci si identificano. Quando guardiamo qualcuno, il modo di vedere condizionato ci mostra l’insieme delle parti che compongono il corpo come se fossero la persona. Quando pensiamo a qualcuno, immaginiamo tutte queste parti come un tutt’uno, qualcosa che somiglia ad una fotografia. Ma se vediamo solamente un mucchio di capelli, ci viene alla mente l’immagine della persona alla quale appartengono? Pensateci: quand’è che i capelli non sono più una parte della persona?
Da un certo punto di vista questo modo di vedere le parti del corpo è alquanto ovvio, ma quante volte ci ricordiamo che in realtà questo è proprio quello che sono? O, non è forse vero che si preferisca fare a meno di quella consapevolezza per rivolgersi a qualcos’altro di più attraente? D’altro canto è una cosa veramente gentile non identificare una persona con i suoi capelli, considerandoli solo per quello che sono: capelli.
Tra i peli del corpo ci sono quelli del viso e di tutte le altre zone meno visibili, e tutti regolarmente si staccano, intasano lo scarico del lavandino e rimangono appiccicati sulla saponetta, li troviamo in bagno e a volte in altre parti della casa. Quali sono quelli tuoi, e quelli invece che tuoi non sono? Quanti sono i peli del corpo che possiamo dire di possedere e per quanto tempo li possediamo davvero?
E le unghie – quando ci tagliamo le unghie, in quale momento non fanno più parte di noi? Facciamo attenzione al modo in cui le usiamo? E se da qualche parte vediamo pezzetti di unghia tagliate ci fermiamo a osservarle? Oppure pensiamo che solo quei meravigliosi pezzetti sulle nostre dita sono noi. La cosa che si avvicina di più all’aspetto dello scheletro sono i denti. Quando guardiamo i denti di qualcuno in realtà stiamo vedendo il suo scheletro. Gli scheletri a volte spaventano le persone o le angosciano, ma dovrebbe essere chiaro a tutti che i denti sono solo la parte visibile dello scheletro. Possiamo fare questa riflessione quando guardiamo i nostri denti o quelli degli altri. E la pelle, naturalmente è l’organo più esteso del nostro corpo, è quello che ricopre tutte le altre parti; i muscoli, la carne e il grasso e, più internamente, le parti viscide e quelle ripugnanti degli organi interni e delle budella. E, di nuovo, non ci fa particolarmente piacere considerare la pelle come qualcosa di separato da noi, anzi la sua compattezza ce la fa considerare come un tutt’uno con il corpo. E’ interessante vedere o immaginare il ‘nostro’ corpo senza pelle. Lo vediamo in parte o un poco così quando c’è un’escoriazione o ci sono ferite di altro tipo.
E queste cinque parti sono solo quello che vediamo: i capelli, i peli, le unghie, i denti, la pelle. Naturalmente la pratica suggerita dal Buddha è più completa di questa, perché affronta anche tutte le altre parti del corpo – carne, tendini, ossa, polmoni, cuore, milza, fegato, intestino, viscere – tutto.
Luang Por Chah ci raccomandava di introdurre queste riflessioni nella meditazione camminata, ma può anche essere fatto in altri modi. Come molti di voi già sapranno, la meditazione camminata nella nostra tradizione è particolarmente incoraggiata per la coltivazione della saggezza, paññā. Luang Por Chah ci consigliava di fare la pratica di asubha kammatthāna nella meditazione camminata e, alla fine del percorso stabilito, immaginare di staccare e gettare via alcune parti – i capelli, i peli, le unghie, i denti, la pelle e tutte le altre parti del corpo – e lasciare questi due mucchietti ad ogni estremità del percorso, come espediente per non prendere in modo troppo personale il corpo e le sue parti.
Si dice che restituire alla natura tutto questo corpo che ci portiamo dietro, sia un atto di gentilezza. Il corpo trasuda in continuazione attraverso ‘nove fori’ e, mentre questo avviene, tutto quello con il quale entra in contatto si insozza. Ecco perché laviamo i vestiti – almeno spero che lo facciamo – e teniamo pulite le cose. Anche i corpi degli insetti e degli altri animali sporcano le cose con le quali entrano in contatto. La materia che fuoriesce dal corpo – dalle orecchie, dagli occhi, dal naso (pensate ai fazzoletti), dalla bocca, defluisce e sporca. E che ne dite dei cibi che mettiamo in bocca? E ci sono anche tutti i pori della pelle, molti milioni di pori, che trasudano. Il corpo trasuda in continuazione e produce sudore, grasso, porcherie, e tutto il resto, insudiciando le cose. Ovviamente, da un certo punto di vista, il fatto che faccia tutto questo e riesca a funzionare così bene, è meraviglioso. Sappiate che la contemplazione di ashuba non è fatta per causare stress. Quando la pratico, mi sento pervaso da un senso di calma, la sensazione che questo è come sono le cose nel momento. Il motivo per il quale possiamo esortare tutti, non solo quelli che sono sul cammino della rinuncia, a fare questa pratica è perché tutti i corpi sono uguali. Il mio corpo non è per niente diverso da qualsiasi altro corpo: tutti condividiamo questa esperienza di secernere dappertutto e sporcare le cose con le quali entriamo in contatto.
In verità ci sono molti aspetti del corpo che sono meravigliosi, ma spesso ci sentiamo ispirati dimorando nei suoi aspetti che in realtà non sono attraenti. Questa contemplazione ci porta a non prendere il nostro corpo in modo tanto personale e ci prepara per restituire alla natura quello che le appartiene. Il corpo è quello che è, alquanto meraviglioso e parte stessa della natura. Praticando si impara a cambiare il modo di vedere il corpo, non come una persona nella sua totalità, ma in un altro modo che è altrettanto vero; si ha un nuovo tipo di consapevolezza. Niente di tutto questo è non vero o inventato. E’ solo un modo di vedere sul quale non ci piace particolarmente soffermarci perché fa emergere sensazioni che non ci fanno sentire a nostro agio.
Ma il Buddha e altri maestri, ci hanno sempre consigliato di coltivare questa consapevolezza: vedere il corpo come un semplice insieme di parti. I capelli, i peli del corpo, le unghie, i denti, la carne, le ossa, il midollo osseo, la milza, i polmoni, il cuore, i reni, tutte le parti grosse e l’intestino, le viscere, il cibo non digerito, gli escrementi, la bile, il sangue, il sudore e le lacrime, l’adipe, il grasso. Cose strane, come l’olio delle giunture, il liquido sinoviale o quello che sia, e in ultimo cervello e urina. Tutto questo ce lo portiamo appresso e assolve diversi compiti. Il modo in cui tutto funziona sembra magico, ma è semplicemente il modo in cui è. Tutto qui. Siamo noi che gli diamo tanta importanza; ci suscita così tante emozioni. E poiché siamo attaccati a un modo così mondano di vedere le cose, è necessaria molta pratica prima di passare definitivamente a quell’altro modo di percepire le cose, alla consapevolezza di ashuba.
Nello sviluppo di questa pratica alcuni scelgono di prendere un aspetto particolare del corpo. Per esempio, un monaco che scelga le ossa – pensa: ossa, ossa, ossa – e vede scheletri quando guarda le persone. Guardandole, al primo colpo d’occhio, la mente non nota niente di più che il semplice scheletro.
Che cosa si nota di solito quando si guarda qualcuno? Ci si sofferma sull’insieme, gli si dà un nome. Ovviamente il corpo che io mi porto appresso è come il corpo di chiunque altro, lo si può vedere invecchiare di anno in anno, si formano dei rigonfiamenti, non funziona e non si regge più tento bene. Vediamo che cede un po’ qua e un po’ là, si raggrinzisce sempre di più, diventa un po’ meno tonico. Si può anche impiegare del tempo ad osservare come e quando il corpo entra in contatto con le cose e quando delle parti si staccano da esso. Fermatevi un momento ad osservare come il corpo, durante il corso della sua vita, rende le cose un po’ più sporche; perché questa è la sua natura. Ci si può sforzare a tenere le cose pulite, ma anche mentre stiamo pulendo, emaniamo qualcosa che sporca qualcos’altro. Contemplare il corpo in questo modo porta la pace. Può darsi che non sia particolarmente entusiasmante, ma io l’ho trovato molto interessante.
Ricordatevi che durante questa pratica la nostra intenzione dovrebbe essere fondata sulla consapevolezza di una benevolenza, di una gentilezza, di un senso di benessere e di felicità non condizionati. Quanta sofferenza e quanto stress scaturiscono dall’immagine che abbiamo di noi stessi e del nostro corpo? Osserviamo la tendenza che abbiamo a identificarci con il corpo e su come lo pensiamo – troppo alto, troppo basso, troppo grosso, troppo magro, non abbastanza tonico. Tutto questo è sbagliato, in un certo qual modo è un errore di percezione. Il corpo può anche essere visto in modo più equilibrato. Si tratta solo di peli, di capelli, di unghie, di denti, di pelle e quando queste parti sono viste separatamente, l’importanza del corpo svanisce e c’è pace – almeno per me è così. Il corpo è fatto così; non c’è un altro modo in cui dovrebbe essere. Funziona così, come il corpo di tutti gli altri animali. Tutte le altre creature, dagli acari della polvere agli elefanti e le balene, dal più piccolo al più grande fanno lo stesso tipo di cose e hanno gli stessi elementi fondamentali; tutti si muovono e interagiscono con l’ambiente e lasciano tracce.
Può darsi che non ve la sentiate di praticare asubha kammatthāna. Io ricordo che, alcune pratiche che venivano consigliate, a me non piacevano. Tuttavia anche vedere chiaramente il fatto che non-mi-piace o non-voglio fare una certa pratica può dare origine ad una visione profonda. Essere consapevoli della nostra resistenza ci può condurre ad una visione profonda, mentre il piacere o il non-piacere sono solo una convenzione.
A coloro i quali vedono il valore della pratica della rinuncia, sviluppare asubha kammatthāna può portare gioia ed essere di grande aiuto. Ma, ripeto, questa pratica non è solo per coloro i quali praticano la rinuncia a tempo pieno. Una volta negli Stati Uniti, dove mi trovavo insieme ad Ajahn Punnadhammo dell’Arrow River Forest Hermitage in Ontario, durante un ritiro ho dato insegnamenti ad un gruppo di 60 laici. Fu lui a suggerirmi di insegnargli asubha kammatthāna. Credo che forse stava cercando di prendermi in giro, ma io lo feci comunque. Ai partecipanti al ritiro diedi le istruzioni così come le avevo ricevute da Luang Por Chah e proposi loro di provarci se ne avessero avuto voglia. In seguito, tutti quelli che vennero a parlare con me dell’esperienza fatta – forse perché non volevano essere scortesi – mi dissero che l’avevano trovata di grande aiuto, un modo fantastico di fare pratica con l’immagine del corpo per questo fatto di farlo a pezzi e non prenderlo così seriamente, di abbandonarlo. Quindi penso che funzioni e che possa funzionare per chiunque. Per me è stato molte volte un piacere e ho trovato di grande aiuto la sensazione di abbandonare i pezzi di quello che di solito considero il ‘mio essere’, ed immaginarli semplicemente come un mucchietto di cose. Il corpo è solo un mucchio di cose: una borsa di pelle chiusa ermeticamente e piena di cose poco attraenti. E non è neanche chiusa bene perché perde. Questo tipo di analisi è davvero preziosa.
Qualsiasi tipo di risveglio di cui possibilmente faremo esperienza avverrà sempre in questo corpo, non succederà in nessun altro posto. Quindi potremmo anche usare quello che abbiamo, quello in cui viviamo, imparare a essere svegli, vivi e a vedere le cose in un modo diverso dal solito. E per fare questo bisogna praticare il sentiero dell’illuminazione. Quindi suggerisco a tutti noi di praticare quest’aspetto dell’illuminazione: vedere le cose come parti distinte, piuttosto che come una cosa apparentemente integra; vederne i pezzi piuttosto che il modo in cui questi pezzi sono messi insieme.
Se asubha kammatthāna è praticata correttamente, sono sicuro che condurrà a un sano disincanto, nibbidā, che è liberatorio. Nibbidā può essere tradotta con disgusto e questo ad alcuni può trasmette una sensazione, in un certo senso, negativa. Ma se pensiamo che ‘gusto’ ha a che fare con ‘gustoso’, il disgusto è quello che sorge quando le cose perdono il loro sapore, perdono il loro fascino o l’attrattiva o la capacità di accalappiare e trascinare. Quando le cose smettono di essere gustose si ha una sensazione di calma. Quella quiete, quella calma indica che la pratica sta funzionando.
Possa questo stato essere il frutto della vostra pratica di asubha kammatthāna.