di Ajahn Amaro
© Ass. Santacittarama, 2013. Tutti i diritti sono riservati.
SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.
Traduzione di Gabriella De Franchis.
Adattamento di un discorso dato una domenica pomeriggio del 2010 ad Amaravati.
Ajahn Amaro è nato in Inghilterra nel 1956. Nel 1979 è stato ordinato bhikkhu da Ajahn Chah e tra il 1979-1995 si è formato con Luang Por Sumedho in Inghilterra. Nel 1996 è diventato co-abate insieme ad Ajahn Pasanno del monastero di Abhayagiri dove ha risieduto fino al 2010 quando poi è diventato abate di Amaravati, a seguito del ritiro a vita privata di Luang Por Sumedho.
“Quando siamo sempre pronti a perdonare gli altri
e smettiamo di portarci appresso qualsiasi tipo di rancore,
allora nessuno dovrà più avere paura di noi”
LA VENDETTA tra gli uomini ha una lunga storia nella maggior parte delle culture. Quando ci sentiamo feriti sentiamo un desiderio istintivo di ferire chi ci ha colpito. E’ l’assuefazione alla reazione: vogliamo vendetta. Forse crediamo anche di essere in qualche modo autorizzati ‘ufficialmente’ a punire qualcuno. Spesso le parole della Bibbia che citano “La vendetta è mia, dice il Signore”, vengono interpretate erroneamente, oppure forse ci sentiamo in dovere di ripristinare il nostro onore. Questo è il fondamento dei cosiddetti delitti d’onore in cui l’onore della famiglia, o l’onore spirituale, è stato macchiato e la risposta giusta è uccidere chi ha procurato l’offesa. Se solo perdoniamo e dimentichiamo possiamo ritenere di non stare facendo il nostro dovere. Anche se si riflette su questo dal punto di vista degli insegnamenti del Buddha su kamma e vipaka (l’azione e i suoi risultati), si può pensare che i malfattori dovrebbero essere puniti. Oppure ci si può domandare perché, se tutti subiamo i risultati delle nostre azioni, le persone che si comportano in modo terribile la fanno franca? Assassini, ladri, politici di destra e di sinistra che fanno ruberie – molti dei quali sembrano vivere una vita molto agiata. E perché molti di quelli che vivono una vita virtuosa e caritatevole, sembra che soffrano molto o, quantomeno, non hanno vite più facili o migliori delle altre? Dove sono, allora, i risultati delle loro azioni?
Due sutta contigui del Majjhima Nikāya (il numero 135 e 136) affrontano queste domande. Nel primo, il ‘Discorso Breve sulla Natura delle Azioni’, il Buddha definisce il risultato che corrisponde a ogni tipo di azione o d’inclinazione: se siamo molto generosi e abbiamo una morale, nella prossima vita rinasceremo di bell’aspetto, oppure se viviamo senza far male a nessuno, avremo una lunga vita e così via facendo una lista di conseguenze che corrispondono alle diverse azioni. Però poi, nel discorso successivo, il ‘Discorso Lungo sulla Natura delle Azioni’, emergono le solite domande abituali: perché le persone che vivono in modo immorale non ricevono immediatamente una risposta negativa? Perché sembra che siano ‘impuniti’? E perché alle persone buone accadono cose terribili? E allora il Buddha ci spiega che, anche se azione e reazione vanno insieme per una legge inesorabile, non si può sapere con esattezza quando, come e dove matureranno i risultati di quella particolare azione.
Forse questo insegnamento è difficile da accettare. La maggior parte della gente vuole vedere il risultato subito. Se qualcuno viola la nostra casa, lo vogliamo vedere processato e giustiziato. Desideriamo ardentemente di vedere fatta giustizia. Non ci basta dire “Beh, forse nella vita futura questa persona perderà tutto quello che ha. No, è meglio vederlo andare in galera ora”. Questa è una reazione molto normale. Ma quando ci portiamo appresso quel tipo di risentimento e di negatività – modello “occhio per occhio, dente per dente” – forse non ci rendiamo conto che, in realtà, stiamo facendo del male solo a noi stessi. Poco tempo fa ho sentito una storia che descrive bene tutto questo.
C’era una volta un uomo che camminava lungo un sentiero. Per caso urtò con il piede un blocco di fango secco, inciampò, cadde e sbatté il naso per terra. Il naso iniziò a sanguinare e lui fu preso da una rabbia improvvisa nei confronti della Terra che gli aveva fatto male. Si alzò, le agitò contro il pugno e gridò: “Cosa ti ho mai fatto, io?! Mi hai colpito le dita dei piedi, mi hai sporcato tutto, mi fai stancare a salire sulle tue colline, e mi fai ruzzolare quando scendo. Ne ho abbastanza di te!”. Corse subito a casa e prese la vanga. “Te lo faccio vedere io,” brontolò, “Ti spalerò via tutta, dovessi starci tutta la vita!”. L’uomo conficcò con violenza la vanga nel terreno, tirò su un po’ di terra e la lanciò in aria. “Questa è la prima spalata, e ora ne arriva un’altra!”, brontolò tra sé e sé mentre lanciava in aria la seconda palata di terra. Lavoro tantissimo e scavò freneticamente cercando di spalare via la Terra una volta e per sempre. Rimase tutto il pomeriggio a spalare terra e gettarla in aria, senza fare attenzione a nient’altro e non si accorse che stava scavando tutt’intorno una fossa, con dentro lui.
Ascoltare questa storia forse ci fa sorridere dimenticandoci, nel frattempo, quando è stata l’ultima volta che abbiamo fatto la stessa cosa: “Lui mi ha veramente offeso e io gli porterò per sempre rancore!”. Riusciamo veramente a scavarci queste fosse da soli.
Invece, tenendo conto del perdono, riconosciamo entrambi il male che è stato fatto e cerchiamo un modo che ci aiuti ad uscirne. Chiediamoci: “Che cosa può essere di beneficio sia per me – così da non dovere portare il fardello dell’avversione, dell’odio e della negatività – che per l’altra persona o per gli altri?”. E’ importante comprendere che perdonare non significa passare sopra il male che è stato fatto facendo finta di niente. Significa trovare la risposta migliore.
Una strofa del canto ‘La condivisione dei meriti’ dice: “Possano tutti gli esseri, gli amici, i nemici, gli indifferenti ricevere i meriti che ho maturato nella vita; possano essi ricevere la triplice benedizione e realizzare ciò che non muore”. A livello istintivo, perché dovremmo volere condividere i meriti che abbiamo conseguito con quelli che ci sono stati ostili? Perché dovremmo volere condividere il nostro limitato buon kamma, offrire ciò che c’è di buono nella nostra vita ai malvagi? Non significherebbe giustificare le loro azioni?
Quello che rende così potente questa pratica è il fatto di riconoscere che, anche se è vero che le azioni di questa persona sono deleterie, una maggiore negatività non fa altro che peggiorare le cose. E allo stesso modo, solo perché ti amo, non significa che approvo tutto quello che fai. Può essere molto facile associare le persone alle loro azioni: se non approvo quello che fai dovrei avere un sentimento negativo nei tuoi confronti. Praticando il Dhamma ci rendiamo conto che le due cose sono diverse. Nei confronti di un individuo possiamo provare gentilezza amorevole e rispetto, ma allo stesso tempo disapprovare completamente le sue azioni. Questo è un principio straordinariamente importante da prendere a cuore nella nostra cultura. Il fatto di augurare il bene anche a coloro i quali ci hanno fatto del male è un segno distintivo della nostra condizione di esseri umani, un aspetto naturale come esseri viventi. E’ il riconoscimento che portare rancore crea solo una più grande divisione, maggiore disarmonia e più discordia e getta i semi di una più grande sofferenza futura.
Durante il corso della giornata, abbiamo la possibilità di riflettere su questo molte volte. Se per caso incontriamo qualcuno della nostra famiglia, al lavoro, o sentiamo qualcuno del governo del quale disapproviamo le azioni, allora pensiamo: “Questa persona non la sopporto!” o “Mi dà veramente fastidio!”. Fateci attenzione, guardate la reazione e riflettete: se le loro azioni vi sembrano deleterie e distruttive, questo non è un motivo per coltivare negatività e avversione verso quella persona.
Il Buddha ha parlato di salutare e non salutare, ma non ha mai parlato di male assoluto. Questo è un altro principio da comprendere e che ci aiuta a sviluppare il perdono, la compassione e la gentilezza amorevole verso gli altri esseri viventi. Il discorso chiamato ‘Il Rimprovero a Māra’ (Majjhima Nikāya 50) ci racconta di uno scontro tra Mahā-Moggallāna, secondo discepolo anziano del Buddha dotato di poteri psichici, e Māra, la versione buddhista di Satana e la personificazione di tutte le cose malsane. Māra sta cercando di mettere nei guai Mahā-Moggallāna, ma Mahā-Moggallāna lo riconosce immediatamente e gli dice: “Anch’io ero Mārain una vita passata. Mi chiamavo Dūsī, e mia sorella Kālī aveva un figlio, eri tu. Io ero tuo zio”.
Qui abbiamo uno dei grandi santi della tradizione buddhista, che in una vita passata era la personificazione del male e che riuscì a tirarsi fuori da questa condotta di vita molto tenebrosa e raggiungere la piena illuminazione e diventare il secondo discepolo del Buddha in ordine di importanza. Questa storia vuole dimostrare che nessun essere è irredimibile. Secondo il modo buddhista di comprendere le cose, nessun male, anche se fatto a livello familiare, locale o nazionale, è irreparabile.
Questo principio è molto importante anche per chi soffre tanto di sensi di colpa o pensa troppo di non essere perfetto. Spesso è facile perdonare i torti degli altri ed essere più critici e negativi nei confronti dei nostri stessi difetti. Si può essere ipercritici nei propri confronti, pensando che una cosa che abbiamo fatto sia irrimediabilmente sbagliata, un errore tremendo, un fatto indimenticabile che la gente non farà altro che ricordarci e che non ci meritiamo proprio di essere felici. Quando sorge questo tipo di pensiero, metteteci un po’ di scetticismo, il sospetto che forse anche il più terribile misfatto, l’errore peggiore, il danno più grave può essere perdonato. Questo mi fa pensare a una conversazione molto commovente che ho avuto di recente con una donna. Un giorno, anni fa, aveva portato i suoi figli e alcuni dei suoi nipoti al mare. Una delle sue nipoti cominciò ad agitarsi in acqua, ma lei non si rese conto che era in difficoltà fin quando non annegò. Questa donna, che era l’unica adulta, ne aveva la responsabilità, ma non era stata attenta. La morte della nipote era dovuta ad un suo errore. Sin da allora si porta dentro questa colpa, tormentata dal senso di responsabilità e dal dolore per la perdita della nipote. Parte della sua mente dice: “Non posso essere perdonata. E’ stata mia la colpa”.
E’ importante riconoscere che, certo, sentiamo il rammarico, ma noi non siamo tutto questo. Non sottovalutiamo il male che è stato fatto, ma non fabbrichiamoci sopra una visione di noi stessi, identificandoci con esso. Riconosciamo l’errore e ripartiamo da lì.
Mi viene in mente un’altra storia. Un giorno una nostra amica, Julie, stava pulendo il suo soggiorno e notò che sul davanzale della finestra non c’era più un cavallino di vetro. Chiese alla figlia piccola: “Sophie, sai cos’è successo a quel cavallino di vetro?”. La ragazzina gelò e, con un’espressione pallida di terrore, sussurrò: “Non so!”. La madre, che è molto furba, disse: “Proviamoci di nuovo. Esci fuori dalla stanza, poi ritorni e io ti faccio nuovamente la stessa domanda”. Sophie usci, poi tornò indietro e Julie le chiese: “Sophie che è successo a quel cavallino di vetro che era sul davanzale della finestra?”. “L’ho rotto io! Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace!”. “Oh che peccato. Era così carino. Chissà dove sono i pezzi. Forse si possono rincollare”. “Oh, credi?!”.
Trovarono i pezzi di vetro che Sophie aveva cercato di nascondere e si misero insieme al lavoro per incollare il cavallino. Piuttosto che rimproverare sua figlia per avere rotto il ninnolo, o per non averle detto la verità, questa madre ha trovato una strada per riconoscere un errore senza costruirci sopra più problemi e più sofferenza.
Nel nostro mondo ci sono tanti modi come questo per trattare con abilità le offese e il male. A un livello molto più alto, la ‘Commissione per la Verità e la Riconciliazione’ creata da Nelson Mandela e dal governo Sud Africano post-apartheid è uno degli esempi più potenti. Le persone che erano state responsabili di atti distruttivi e dannosi – forze dell’ordine, polizia ed esercito, funzionari del governo e anche quelli che istigavano alla ribellione – si sono fatte avanti per discutere di quello che era successo, per rendere conto delle loro azioni e per chiedere perdono. Le discussioni furono incandescenti, ma, nel complesso, questi sforzi dettero un grandissimo aiuto. Per molti è difficile credere che il Sud Africa sia passato ad una forma di governo democraticamente eletto, che ha coinvolto la comunità di colore africana, senza un numero eccessivo di conflitti militari e senza spargimento di sangue. Naturalmente ancora oggi ci sono molti conflitti razziali in Sud Africa, ma quello è stato un esempio palese e molto forte di come si possano riconoscere i propri torti e perdonare.
Per la tradizione buddhista è fondamentale anche il gesto di riconoscere le nostre colpe e chiedere perdono. Come monaci abbiamo l’abitudine di chiedere formalmente perdono ai nostri compagni quando ci congediamo. Se, ad esempio, siamo stati in ritiro insieme, o abbiamo trascorso del tempo insieme a un gruppo di persone o di un particolare maestro, celebrare una semplice cerimonia di perdono fa parte dei saluti. Recitiamo un verso Pali che dice: “Ti chiedo perdono per qualsiasi cosa abbia fatto senza attenzione con il corpo, la parola o la mente, per qualsiasi cosa abbia fatto, con o senza intenzione, che ha in qualche modo causato danno, fastidio o angoscia”.
Uno degli aspetti più belli della cerimonia è che il maestro o la persona alla quale ci rivolgiamo dice sempre: “Ti perdono e, per favore, perdonami anche tu”. Questo scambio reciproco avviene anche quando una persona molto giovane, qualcuno che ha appena iniziato la formazione, si rivolge a qualcuno molto più anziano, anche qualcuno considerato un essere pienamente illuminato. Sì, è vero: un arahant può fare arrabbiare! Chiedendo perdono, riconosciamo che ci influenziamo reciprocamente. Pur avendo le migliori intenzioni e una condotta completamente pura e armoniosa, possiamo ancora fare arrabbiare le persone. La nostra stessa bontà può essere irritante; il fatto che noi facciamo tutto così bene può dare molto fastidio alle persone. Questa cerimonia è un modo molto bello per dare un bel colpo di spugna quando ci si congeda dai compagni.
Anche se questo modo di chiedere perdono è ritualizzato e può essere visto come uno scambio che si ripete meccanicamente, dire quello che si dice è importante. Paradossalmente la cerimonia è potente anche quando non vogliamo proprio dire quello che diciamo, anche quando pensiamo: “Sei veramente ingiusto, io non ti voglio perdonare”. Il fatto che siamo aggrappati a quest’atteggiamento si rivela nel momento in cui congiungiamo le mani e diciamo: “Per favore perdonami e anch’io ti perdono”. Mentre recitiamo queste parole, ci rendiamo conto “Oh, qui c’è qualcosa che non vuole lasciare andare e perdonare. Perché mi voglio portare appresso questa palla di ferro infuocata che sta facendo del male a me e agli altri?”. Anche se la cerimonia è in un certo senso fatta di formule, fa da specchio alla nostra ristrettezza mentale e al nostro egocentrismo. Se siamo in grado di riconoscere questo, la prossima cosa da fare è lasciare andare, essere abbastanza umili da lasciare che il rancore si dissolva.
Il Buddha aveva altri modi per risolvere dispute, conflitti e difficoltà in seno alla comunità. Ogni quindici giorni, insieme alle regole monastiche, ne recitiamo una lista di sette. L’ultimo è chiamato ‘ricoprire con l’erba’. Fondamentalmente significa accordarsi nell’essere in disaccordo. Il Buddha era un fantastico giudice della natura umana. Si era reso conto che a volte è proprio impossibile essere d’accordo. In quel caso, dato che dobbiamo comunque vivere insieme, possiamo ‘ricoprire le cose con l’erba’.
La condizione di abhaya, o senza paura, è collegata anche al perdono. Quando siamo sempre pronti a perdonare gli altri e smettiamo di portarci appresso qualsiasi tipo di rancore, allora nessuno dovrà più avere paura di noi. Il monastero nel quale vivevo in California si chiama Abhayagiri, ‘Montagna Senza Paura’. In Pali abhaya significa ‘senza paura’ e giri ‘montagna’. Ma i thailandesi che vengono in visita, vedendo il nome Abhayagiri, spesso pensano che significhi ‘Montagna del Perdono,’ perché nella lingua thai apay significa appunto ‘perdono’. Questa leggera stortura di significato non è tanto sorprendente, poiché nessuno deve avere paura se li perdoniamo.
Donare coraggio, o abhayadāna, è una delle qualità superiori della generosità. Il perdono non è qualcosa che dà beneficio solo a noi stessi. Non si tratta solo di liberare il nostro cuore dal fardello della negatività, del rancore, o dal desiderio di vendetta, è anche un dono che facciamo agli altri. Stiamo offrendo la libertà dalla paura. Il perdono significa fare sapere alle persone che non abbiamo nulla contro di loro, anche se hanno fatto qualcosa che merita di essere biasimata e che non gli daremo la colpa per delle azioni negative o dannose. Siamo capaci di dire: “No, non ho risentimento nei tuoi confronti. Non serbo nessun rancore”. Quando gli altri si rendono conto che non ci devono vedere come una minaccia, c’è un grande sollievo e felicità.
Poco tempo fa, in un libro di Malcolm Gladwell, ho letto una storia che parlava di questo. Racconta che una donna identificò erroneamente un uomo come suo aggressore e questo fu mandato in prigione. Dopo venti anni vennero fuori altre prove è fu chiaro che la donna si era sbagliata. Quando l’uomo venne finalmente rilasciato, lei lo andò a trovare – piena di trepidazione e ansia – e si scusò: “Sono molto spiacente, ho fatto un grosso errore.” Con sua grande sorpresa, senza nessun atteggiamento negativo nei suoi confronti lui disse: ‘Come lei sa, tutti facciamo degli errori”. Lei rispose: “Ma lei ha perso vent’anni della sua vita. Ha trascorso tutta la sua giovinezza in carcere”. E lui disse: “Beh, ma lei non lo ha fatto intenzionalmente, quindi non ho nulla contro di lei”.
L’incontro tra i due fu meraviglioso. Divennero intimi amici e ora viaggiano per il mondo per raccontare la loro storia e conducono gruppi sulla riconciliazione e una giustizia rappacificante. La libertà dal rancore da parte dell’uomo e la splendida relazione che ne è derivata è qualcosa che loro offrono come un dono alla società.
Forse crediamo che una volta che abbiamo perdonato qualcuno o che siamo stati perdonati, ritorneremo a una situazione neutrale. Però, abbandonare il senso di negatività fa anche emergere potenti forze positive. Quella donna ha provato un grande senso di gratitudine nei confronti di quell’uomo meraviglioso che è stato rinchiuso per così tanto tempo. Quando sviluppiamo il perdono e lasciamo andare qualsiasi risentimento possiamo avere nei confronti delle persone che ci hanno fatto del male o che ci hanno in qualche modo causato sofferenza, ci apriamo alla compassione. E’ possibile ammettere che dovevano essere in uno stato terribile per commettere quelle azioni.
Da adolescente provavo un sentimento fortemente negativo nei confronti di mio padre. Le nostre opinioni erano molto diverse. Io gli urlavo contro e lo consideravo ottuso, bigotto e quant’altro. Mi portavo appresso questa terribile negatività e biasimo nei suoi confronti. Poi, quando sono arrivato all’età di quarant’anni circa, ho cominciato a vedere le cose in modo diverso. Perché mai lui, da genitore, avrebbe dovuto sapere cosa fare con un figlio dei fiori degli anni ‘60 e ‘70? Suo padre era nato nel 1863, lui era cresciuto in una famiglia edoardiana degli anni venti e aveva frequentato un collegio spaventoso. Perché mi dovevo aspettare che fosse smisuratamente amorevole e comprensivo? Viveva in un universo che era completamente diverso dal mio.
Quando iniziai ad avere questi pensieri, fui travolto da un forte senso del perdono e da una grande luminosità e compassione e pensai: “Ha fatto veramente un gran bel lavoro! Ben fatto papà!”. Una parte di me non poteva credere che la pensassi così, perché era in netto contrasto con quello che c’era stato prima. Però trovai un grande amore, gioia e vera riconoscenza anche nei confronti di chi, secondo il modo che prima avevo di vedere, mi aveva fatto tanto male.
Quindi, l’atto di perdonare, quando viene da una spiritualità sincera del cuore, è più un segno di forza che un segno di debolezza. Inoltre può portare grande gioia, piacere e luminosità dentro di noi e anche in quelli che ci circondano – è un vero per-dono, una manifestazione che pervade tutto di una grande benedizione.