dalla monaca Ajahn Candasiri
© Ass. Santacittarama,2002. Tutti i diritti sono riservati.
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Traduzione di Silvana Ziviani.
E’ UNA DOMANDA che tutti noi dobbiamo porci: “Perché andiamo in un monastero?” Tutti, monaci o monache, novizi o laici, devono chiedersi: “Perché sono venuto?” Dobbiamo essere chiari, per ricavare il massimo beneficio da ciò che un monastero può offrire. Se non siamo chiari, potremmo perdere molto tempo facendo cose che diminuiscono i vantaggi derivanti da una permanenza qui.
Il Buddha ha parlato di tre febbri che ci bruciano, di tre malattie che ci affliggono, come esseri umani. Queste tre indisposizioni ci tengono continuamente agitati, ci rendono incapaci di fermarci, di essere completamente a nostro agio; esse sono l’avidità, l’avversione e l’illusione, lobha, dosa, moha. Ma, nella sua compassione, il Buddha ci ha dato anche l’antidoto.
In effetti, queste febbri sono basate su istinti naturali. Per esempio, l’avidità o il desiderio sensuale, la spinta sessuale e la brama di cibo, sono istinti che permettono all’umanità di sopravvivere. Senza il desiderio sessuale nessuno di noi sarebbe qui ora! E naturalmente senza fame o desiderio per il cibo, non avremmo voglia di assumere quel nutrimento che ci serve a mantenere il corpo normalmente sano. Ma i problemi sorgono quando perdiamo il contatto con ciò di cui veramente abbiamo bisogno e cerchiamo perciò la gratificazione sensuale fine a se stessa.
Altro tipo di istinto di sopravvivenza è il nostro atteggiamento verso il pericolo. O ci voltiamo e attacchiamo ciò che percepiamo come una minaccia alla nostra sopravvivenza fisica oppure cerchiamo di sfuggirvi. Questo atteggiamento è la base di dosa, odio o avversione. Ovviamente, anche questo ha la sua importanza in natura, ma di nuovo abbiamo creato confusione e ciò che ci troviamo spesso a difendere non è tanto il corpo fisico, ma il senso di un sé, ciò che noi crediamo di essere, in rapporto con gli altri.
La terza febbre, che deriva quasi automaticamente dalla precedente, è l’illusione, moha, che non ci fa distinguere e capire chiaramente come stiano effettivamente le cose, che cosa voglia dire realmente essere una persona umana. Abbiamo la tendenza a fissare noi stessi e gli altri come personalità, come dei ‘sé’. Ma queste sono solo idee o concetti, che noi opponiamo ad altri concetti di chi o che cosa dovremmo essere. Quindi se qualcuno sfida questo ‘sé’, potrebbe trovarsi a fronteggiare una forte reazione da parte nostra; istintivamente attaccheremmo o ci difenderemmo o al limite cercheremmo di allontanarci da ciò che percepiamo come un pericolo. Certo che se ci si pensa seriamente, sembra proprio una follia!
Però, come ho detto prima, il Buddha, dopo aver indicato la natura del morbo, ci presenta anche la cura. E ce l’ha data sotto forma di insegnamenti semplici, che ci aiutano a vivere in un modo che ci permette di capire questo male, per potercene liberare; o almeno per evitare quelle cose che possano aggravarlo.
Questa considerazione mi porta alla vera ragione del perché uno viene in un monastero: vogliamo liberare il cuore dalla malattia, vogliamo affrancarci dal desiderio e dalla confusione; e riconosciamo che qui sembra possibile realizzarlo. Naturalmente ci possono essere altre ragioni e ci sono molti che non sanno perché sono venuti, semplicemente si sono sentiti attratti dal luogo.
Allora ci chiediamo, che cosa c’è in un monastero che sembra diverso dal resto del mondo?… E’ un luogo che ci riporta alle nostre aspirazioni, alle capacità che abbiamo. Ci sono immagini del Buddha e dei suoi discepoli, che sembrano emanare un senso di calma, di agio, di consapevolezza. Troviamo anche una comunità di monaci e monache, che hanno deciso di vivere seguendo quanto il Buddha ha raccomandato di fare per guarire da queste malattie.
Dopo aver riconosciuto che siamo malati e che abbiamo bisogno di cure, cominciamo a vedere che la cura va nella direzione opposta a quella seguita nel mondo esterno. Comprendiamo che per curarci efficacemente, dobbiamo prima conoscere la causa della malattia, che è il desiderio. Per potercene liberare, dobbiamo perciò capire il nostro desiderio di avere o di sbarazzarci di qualcosa, di esistere come un sé separato. Quindi, invece di correre dietro ai desideri, li esaminiamo da vicino.
La disciplina che seguiamo è basata sui precetti, che usati saggiamente portano ad un senso di dignità e rispetto di sé. Ci tengono lontani da quelle azioni o parole che possono essere dannose per noi e per gli altri, e danno l’impronta della semplicità e della rinuncia. Ci chiediamo: “Di che cosa ho veramente bisogno?” invece di rispondere immediatamente alla pressione di una società materialistica.
Ma come possono i precetti aiutarci a capire i tre malesseri? In un certo senso la disciplina monastica è come un container all’interno del quale si possono osservare i desideri man mano che si manifestano. Deliberatamente ci poniamo dentro un’area delimitata che ci impedisce di inseguire tutti i desideri, e lo facciamo per poterli osservare e per notarne il cambiamento continuo. Generalmente, quando siamo invischiati in una serie di desideri, non vi è alcun senso di obiettività. Tendiamo ad esserne completamente identificati, ad esserne trascinati, per cui ci è estremamente difficile vederli chiaramente o fare qualcosa di appropriato.
Per quanto riguarda la cupidigia o l’avversione, riconosciamo che queste energie sono naturali e comuni a tutti. Non diciamo che è sbagliato, per esempio, avere un desiderio sessuale o anche soddisfarlo nelle circostanze idonee, ma riconosciamo che sorge per uno scopo particolare e che porterà determinate conseguenze. I monaci e le monache hanno deciso che non vogliono avere figli e riconoscono che il piacere della gratificazione è molto più fuggevole delle possibili implicazioni e responsabilità a lungo termine. Quindi decidono di non dar seguito al desiderio sessuale.
Tuttavia, ciò non significa che non lo sperimentiamo, che appena rasata la testa e indossato l’abito, smettiamo immediatamente di provare qualsiasi desiderio. Anzi si può verificare che, venendo al monastero, l’esperienza di questi desideri si intensifichi. Nella vita laica, generalmente, possiamo fare tutto ciò che ci fa sentire bene, che ci allevia la tensione, e spesso senza essere veramente consapevoli di ciò che stiamo facendo. Alcune volte si prova un vago senso di disagio, a cui segue immediatamente la ricerca di una gratificazione esteriore che possa alleviarlo, sempre passando da una cosa all’altra. In un monastero non è più così facile poter fare ciò. Deliberatamente ci poniamo dei limiti per aver la possibilità di osservare le pulsioni, le energie, i desideri che, nella vita normale, ci terrebbero in continuo movimento.
Ora potreste chiedervi: “Ma che libertà è questa? Costringersi in una situazione in cui uno deve continuamente limitarsi, conformarsi? Doversi sempre comportare in un certo modo, e ad orari prestabiliti; cantare ad una certa velocità e su un certo tono; sedersi in un posto assegnato, vicino alle stesse persone. Io mi sono seduta per quindici anni sempre vicino o dietro a Sister Sundara!… Che specie di libertà è mai questa?
E’ la libertà dalla schiavitù del desiderio. Invece di essere spinti ciecamente e disperatamente dai nostri stessi desideri, scegliamo di comportarci in un modo che sia appropriato ed in armonia con le persone e l’ambiente che ci circondano.
E’ però importante capire che ‘libertà dal desiderio’ non significa ‘non avere desideri’. Se pensassimo così potremmo sviluppare un grande senso di colpa e trovarci a lottare continuamente. Come ho detto prima, il desiderio fa parte della natura, ma è stato distorto dai nostri condizionamenti, dai nostri pregiudizi, dai valori della società e dalla propria educazione. E non è neanche facile sbarazzarsi di tutto ciò in un momento – solo perché lo vogliamo o perché pensiamo che non dovremmo avere quei desideri. La situazione va affrontata in un modo molto più sottile.
La disciplina e i precetti monastici ci aiutano a creare uno spazio di calma intorno a queste energie, in modo che, una volta sorte, possano spegnersi tranquillamente. E’ un processo che richiede una grande umiltà, perché innanzi tutto dobbiamo riconoscere che il desiderio è presente e ciò può essere umiliante. Spesso, e soprattutto nella vita monastica, i nostri desideri possono essere assai meschini; il senso di un sé ci fa dare importanza a cose molto banali. Per esempio, potremmo avere un’idea molto forte su come vadano tagliate le carote, per cui se qualcuno ci suggerisce di tagliarle in un altro modo, potremmo agitarci e stare sulla difensiva! Quindi, dobbiamo essere molto pazienti, molto umili.
Per fortuna ci sono dei punti di riferimento, o Rifugi, che ci forniscono sicurezza e una certa prospettiva in mezzo al mondo caotico dei desideri. I rifugi sono il Buddha, il Dharma e il Sangha: il Buddha è il nostro maestro, colui che conosce le cose così come sono, che vede chiaramente, non in modo confuso, o agitato dalle impressioni sensoriali; il Dhamma è l’Insegnamento della Verità, cioè come veramente sono le cose in questo momento, che sono spesso diverse dall’idea che abbiamo di esse; e il Sangha è la comunità di coloro che praticano e anche l’aspirazione che abbiamo di vivere in concordanza con ciò che riteniamo vero, invece di seguire tutti gli impulsi confusi ed egoistici che sorgono.
Il Buddha ci ha detto come fare, in modo molto semplice, basandoci sui Fondamenti della Consapevolezza. Nella mia pratica uso spessissimo la consapevolezza del corpo. Il corpo può essere un buon amico per noi, perché non pensa! La mente, con le sue idee e i suoi concetti, ci confonde sempre, ma il corpo è molto semplice e possiamo prendere nota di come è ad ogni momento. Per esempio, se qualcuno mi parla in un modo che mi sembra aggressivo, posso notare la mia reazione istintiva, che mi fa stare in un atteggiamento difensivo e forse anche rispondere in un modo aggressivo. Tuttavia, quando sono consapevole di questo processo, posso scegliere di non reagire in quel certo modo. Invece di sbuffare, mi posso concentrare sul respiro e rilassarmi, e il mio atteggiamento verrà percepito non minaccioso dall’altra persona. Se, per mezzo della consapevolezza, lascio andare il mio modo difensivo, anche gli altri potranno rilassarsi invece di perpetuare la spirale della reattività. In tal modo possiamo contribuire a dare al mondo un po’ di pace.
La gente che visita i monasteri fa spesso commenti sulla pace che lì si respira, ma questo non capita perché sono tutti calmi o immersi nella beatitudine e nella serenità, anzi essi sperimentano continuamente ogni tipo di cose. Una volta, una monaca ha detto che non aveva provato sentimenti così micidiali di rabbia fino a quando non aveva fatto parte del Sangha! Ciò che caratterizza il monastero è la pratica; per cui qualsiasi cosa i monaci e le monache stiano passando, essi fanno almeno lo sforzo di esserne consapevoli, di sopportarlo pazientemente, invece di pensare che non dovrebbero avere quei pensieri o cercare di cambiare la situazione.
Anzi, la vita monastica fornisce molte situazioni in cui la rinuncia e la disciplina sono esse stesse le condizioni per il manifestarsi di sentimenti molto forti; ma c’è anche la rassicurante presenza degli altri. Quando incappiamo in queste sensazioni, possiamo parlare con un anziano, con un fratello o sorella più anziani, la cui risposta probabilmente sarà: “Ah, sì, non preoccuparti, passerà”. A me successe così. E’ normale, fa semplicemente parte del processo di purificazione. Siate pazienti, in modo da acquistare gradualmente fiducia nella possibilità di andare avanti, anche se sembra che tutto dentro di noi stia crollando.
Quando si viene al monastero, si trovano persone che vogliono andare alla radice dell’ignoranza umana, dell’egoismo e di tutte quelle cose obbrobriose che capitano nel mondo e comprenderle; sono persone che vogliono guardare nei loro cuori e osservarvi la bramosia e la violenza, che all’esterno molti sono solo pronti a criticare. Sperimentando ed entrando in contatto con queste cose, impariamo a far pace con esse, proprio qui all’interno dei nostri cuori, in modo che poi possano cessare. Forse, invece di reagire automaticamente all’ignoranza dell’umanità, aggiungendovi confusione e violenza, potremo agire e parlare con saggezza e compassione in modo tale da dare un senso di agio e concordia agli altri.
Quindi non è una fuga, ma un’occasione per osservare e affrontare tutte quelle cose che abbiamo cercato di evitare durante la vita. Quando, con coraggio e calma, riconosciamo le cose così come sono, iniziamo a liberarci dai dubbi, dall’ansietà, dalla paura, dalla bramosia, dall’odio e da tutto ciò che costantemente ci spinge alle solite reazioni condizionate. Qui al monastero, abbiamo il sostegno di amici sinceri, oltre alla disciplina e agli insegnamenti che ci aiutano ad andare avanti in quella che certe volte ci sembra un’impresa impossibile!
Che tutti possano realizzare la vera libertà. Evam.