di Sister Ajahn Sundara
© Ass. Santacittarama, 2008. Tutti i diritti sono riservati.
SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.
Tradotto da Gabriella De Franchis
Tratto dal libro “Freeing the heart”, reperibile dal sito www.amaravati.org.
QUANDO IL BUDDHA INSEGNÒ LE QUATTRO NOBILI VERITÀ, disse che prendere rifugio nell’esistenza umana è un’esperienza insoddisfacente. Se ci si attacca a questa struttura mortale, si soffrirà. Non ottenere quello che si vuole è sofferenza – con questo ci possiamo trovare abbastanza d’accordo. Ricevere quello che non si vuole può anche essere doloroso. Ma se ci inoltriamo un po’ di più lungo il cammino del Buddha, anche ottenere ciò che vogliamo è sofferenza! Questo è l’inizio del sentiero del risveglio.
Quando ci rendiamo conto che anche ottenere ciò che vogliamo nel mondo materiale è insoddisfacente, allora incominciamo a diventare maturi. Non siamo più dei bambini, che sperano di trovare la felicità ottenendo ciò che vogliono o rifuggendo dal dolore.
Viviamo in una società che venera la gratificazione dei desideri. Ma molti di noi non sono veramente interessati al soddisfacimento dei desideri, perché intuitivamente sappiamo che l’esistenza umana non si riduce a questo.
Mi ricordo quando, molti anni fa, cercavo di capire cosa secondo me fosse la verità, ma non ne avevo idea. In un certo qual modo sapevo che si trattava di qualcosa che andava oltre la portata dei miei pensieri e della mia mente emotiva, qualcosa che trascendeva questo mondo di nascita e morte.
Con il passare del tempo, il desiderio di vivere una vita vera e reale, divenne la cosa più importante. Mentre cercavo di armonizzare i miei pensieri, i miei sentimenti e le mie aspirazioni e di raggiungere la pace, divenni consapevole del fatto che c’era qualcosa fra la mia mente e le mie aspirazioni. Sembrava ci fosse un enorme divario tra loro, ed era quello che io chiamavo “me stessa”, questo corpo con i suoi cinque sensi fisici. A quel tempo non mi rendevo neanche conto che gli insegnamenti buddhisti presentavano l’essere umano con un sesto senso, la mente, la piattaforma sulla quale sorgono i pensieri.
La mente e il corpo sono una riserva di energia e io scoprii che il fluttuare della mia energia dipendeva da come li usavo. Il modo in cui io mi relazionavo con la vita e il mio modo di comprenderla, sembravano anche dipendere dalla chiarezza della mia mente e questa chiarezza, a sua volta, era molto condizionata dal grado di energia che avevo. Così avevo una gran voglia di scoprire come vivere senza disperdere inutilmente quell’ energia.
Molti di noi sono cresciuti con uno stile di vita non molto disciplinato. Nella mia famiglia sono stata allevata in un’atmosfera che incoraggiava una certa quantità di libertà e di espressione. Ma seguire i propri capricci e le proprie fantasie, fare ciò che vogliamo quando vogliamo, in realtà non porta molta saggezza nelle nostre vite, né molta compassione o sensibilità. Di fatto ci rende piuttosto egoisti. Malgrado non mi fosse stato inculcato un gran senso della disciplina, da bambina apprezzavo la bellezza di essere viva, l’armonia della vita e l’importanza di non sprecarla. Tuttavia l’idea di vivere in modo sobrio e disciplinato era alquanto estraneo alla mia condizione.
L’incontro con la meditazione e con la pratica della visione profonda, mi sembrò un primo contatto con la disciplina più facile che seguire precetti morali o comandamenti. Spesso abbiamo la tendenza a guardare con timore ciò che ci lega, qualsiasi convenzione che limita la nostra libertà. Così molti di noi arrivano alla disciplina attraverso la meditazione. Quando guardiamo nei nostri cuori, al modo in cui ci relazioniamo al mondo dei nostri sensi, giungiamo a vedere come tutto è interconnesso. Il corpo e la mente si influenzano costantemente e fanno leva l’uno sull’altro.
Tutti conosciamo bene il piacere che accompagna la gratificazione dei nostri sensi quando, per esempio, ascoltiamo una musica che ci ispira o quando guardiamo un meraviglioso paesaggio. Ma fate attenzione a come quel piacere viene rovinato non appena ci attacchiamo all’esperienza. Ciò può essere molto doloroso e spesso ci sentiamo confusi dal mondo dei sensi. Ma con la consapevolezza otteniamo la visione profonda della natura transitoria delle nostre esperienze sensoriali e veniamo a conoscenza del pericolo di rimanere attaccati a qualcosa che è transitorio e che cambia. E con questa comprensione, in modo naturale, evitiamo di perdere le nostre energie nell’inseguire qualcosa sulla quale abbiamo poco controllo e la cui natura è transitoria.
Il risultato naturale della pratica della meditazione è il controllo dei nostri sensi. Comprendere il pericolo che c’è nel seguire ciecamente i nostri sensi, i desideri e gli oggetti collegati ad essi, è un aspetto della disciplina. La comprensione ha come sua naturale conseguenza l’applicazione della disciplina. Non si tratta del controllo dei sensi fine a se stesso, si tratta di sapere che il desiderio dei sensi non porta pace e non ci può portare oltre il limite dato dall’identificare se stessi con la propria mente e con il proprio corpo.
Quando per la prima volta si viene a vivere al monastero, si deve adottare la disciplina degli Otto Precetti. I primi cinque precetti si riferiscono a quello che viene chiamato Retta Azione e Retta Parola: astenersi dall’uccidere, dal rubare, dalla errata condotta sessuale, dal mentire e dal prendere droghe e intossicanti. Gli altri tre si concentrano sulla rinuncia, come il trattenersi dal mangiare dopo un certo orario, ballare, cantare, suonare uno strumento musicale, adornarsi e dal dormire su letti alti e sontuosi. Alcuni di questi precetti possono sembrare irrilevanti nei giorni nostri e nei nostri tempi. Per esempio, che cosa è oggi un letto alto e sontuoso? Quanti di noi hanno un letto con baldacchino? O perché non è permesso ballare, cantare o suonare uno strumento musicale, nella pratica spirituale?
Quando prendiamo gli ordini monastici, assumiamo ancora più precetti e impariamo a vivere con maggiore controllo. La rinuncia del denaro, per esempio, ci rende, sotto l’aspetto materiale, totalmente dipendenti dagli altri. Questi standard possono sembrare molto strani in una società che venera l’indipendenza e l’autosufficienza materiale. Ma queste linee guida iniziano ad avere più senso quando le integriamo nella nostra pratica di meditazione. Diventano fonte di riflessione e ci mettono in contatto con la parte spirituale. Ci accorgiamo che ci aiutano ad affinare il nostro comportamento e a sviluppare profonda consapevolezza delle nostre attività fisiche e mentali e del modo in cui ci rapportiamo alla vita. E così, quando guardiamo nei nostri cuori, possiamo vedere chiaramente i risultati e le conseguenze del nostro agire con il corpo, con la parola e con la mente.
Seguire una tale disciplina ci fa anche essere più calmi e richiede molta pazienza verso noi stessi e verso gli altri. Generalmente tendiamo ad essere impazienti. Ci piace fare le cose bene e subito e dimentichiamo che buona parte della nostra crescita e della nostra trasformazione viene dall’accettare il fatto che questo corpo umano e questa mente sono lungi dall’essere perfetti. Per una ragione: abbiamo il kamma, un passato che ci portiamo appresso e di cui è molto difficile liberarsi.
Per esempio quando osserviamo il precetto dell’astenersi dal parlare in modo sconveniente, abbiamo l’opportunità di imparare a non creare più kamma con le nostre parole e di evitare che queste diventino un’altra fonte di danno e di sofferenza per noi e per gli altri esseri.
La retta parola (samma vāca) è uno dei precetti più difficili perché le parole possono rivelare i nostri pensieri e metterci in una posizione vulnerabile. Finché stiamo zitti non è poi così difficile. Possiamo pure apparire abbastanza saggi, finché non iniziamo a parlare. Chi di voi ha fatto un ritiro probabilmente ricorda di avere avuto paura quando bisognava di nuovo parlare con gli altri esseri umani. E’ così bello, non è vero, stare in silenzio; non ci sono conflitti o litigi. Il silenzio è grande portatore di pace!
Quando iniziamo a parlare, è un altro paio di maniche. Non ci possiamo più prendere in giro. Abbiamo la tendenza ad identificarci fortemente con quello che pensiamo, e così le nostre parole, l’espressione diretta dei nostri pensieri, diventano un problema. Ma, a meno che non impariamo a parlare in modo più accurato, le nostre parole continueranno ad essere alquanto dannose per noi stessi e per gli altri. Effettivamente il grosso problema non è tanto la parola quanto il posto dalla quale viene. Quando c’è consapevolezza non ci sono conseguenze. A volte diciamo qualcosa che non è molto appropriato e poi pensiamo a come avremmo potuto dirlo in modo migliore. Ma se parliamo con consapevolezza, in quel momento, in qualche modo, la macchia di dell’immagine che abbiamo di noi stessi, che è così profondamente radicata, viene eliminata o, quanto meno, diminuisce.
La disciplina ha veramente senso se si segue questo sentiero della pratica. Quando si comincia ad essere in contato con la pura energia del nostro essere e con la pura energia della rabbia, della brama, dell’ignoranza, dell’invidia, della gelosia, del cieco desiderio, dell’orgoglio, della presunzione, si diventa molto grati del fatto che si abbia qualcosa che possa contenere tutto questo. Guardate solo lo stato in cui si trova il nostro pianeta. È la conseguenza palese del risulatto dannoso della mancanza di disciplina e di controllo della nostra avidità, del nostro odio e delle nostre illusioni.
Quindi per essere in grado di mantenere la nostra energia in un contesto di disciplina morale, dobbiamo essere molto attenti e consapevoli, perché la tendenza più spiccata della nostra mente è quella di dimenticare se stessa. Noi ci dimentichiamo di noi stessi e di quale sia il vero scopo della nostra vita e, invece, ci realizziamo con cose che non ci possono dare alcuna vera soddisfazione o che non sono nutrimento per il nostro cuore. Questa disciplina richiede anche umiltà perché finchè saremo immaturi e seguiremo i nostri impulsi, ci sentiremo repressi e inibiti dalla disciplina e, di conseguenza, invece di essere fonte di liberazione, ce ne sentiremo intrappolati.
Siamo molto fortunati ad avere la possibilità di praticare e di renderci conto che le nostre azioni, le nostre parole e i nostri desideri non sono quello che noi realmente siamo . Quando la nostra meditazione si fa più profonda, la qualità dell’impermanenza di tutte le cose diventa più chiara. Siamo sempre più consapevoli della natura transitoria delle azioni e della parola e dei sentimenti ad essi correlati. Cominciamo ad avere la sensazione di ciò che è sempre presente nelle nostre esperienze e che tuttavia non ne viene intaccato. Questa qualità di presenza è sempre disponibile e non è affatto influenzata dalle nostre interazioni sensoriali.
Quando questa qualità dell’attenzione viene ottenuta e mantenuta iniziamo a rapportarci in modo più accurato con la nostra energia, con il contatto dei sensi e con il mondo sensoriale. Scopriamo che l’attenzione consapevole in fondo è una forma di protezione. Senza di essa siamo semplicemente alla mercé dei nostri pensieri e dei nostri desideri e ne veniamo accecati. Il rifugio della consapevolezza e coltivare un contenimento, ci proteggono dal cadere in stati mentali infernali e dolorosi.
Un altro aspetto della disciplina è la saggia attenzione e l’uso saggio del mondo materiale. Il nostro contatto immediato con il mondo materiale avviene attraverso il corpo. Quando impariamo come tenere a bada il mondo fisico, stiamo seguendo le radici della nostra vita. Facciamo ciò che è necessario per mettere in armonia mente e corpo. Questo è il risultato naturale del contenimento. Lentamente diventiamo come un meraviglioso fiore di loto che rappresenta la purezza e che cresce fuori dall’acqua mentre le sue radici si nutrono nel fango. Avrete notato che il Buddha viene spesso rappresentato seduto su un fiore di loto che simboleggia la purezza del cuore umano. Se non creiamo quel fondamento di moralità radicato nel mondo della nostra vita di tutti i giorni, non possiamo veramente levarci o crescere come un fiore di loto. Appassiamo soltanto.
Nella vita monastica l’uso attento di quattro necessità di base – vestiario, cibo, riparo, medicine – è una riflessione quotidiana estremamente utile perché la mente tende a dimenticare, travisare o prendere le cose per scontate. Queste quattro necessità sono una parte essenziale delle nostre vite. E’ un dovere per noi monache e monaci, avere cura delle nostre vesti. Dobbiamo aggiustarle, rammendarle, lavarle e ricordarci che ne abbiamo solo una e che questa ci è pervenuta attraverso la generosità degli altri. Lo stesso vale per il cibo che mangiamo. Noi viviamo di elemosina. Ogni giorno la gente ci offre il pranzo, perché noi non possiamo tenere provviste per il giorno seguente. Così la nostra riflessione quotidiana prima del pasto ci ricorda che non possiamo mangiare senza riflettere con attenzione a questo dono del cibo. Come questuanti, riflettiamo anche sul luogo in cui viviamo. A voi può non piacere la carta da parati della vostra stanza, ma la nostra riflessione sul riparo: “questa stanza è soltanto un tetto sulla nostra testa per una notte”, ci aiuta a tenere sotto controllo i nostri bisogni fisici. Consideriamo anche il fatto che, senza l’offerta di quello che ci occorre, non potremmo condurre questa vita. Questa riflessione alimenta nel nostro cuore un senso di gratitudine.
Avere cura del mondo fisico e di ciò che ci circonda è parte essenziale dell’addestramento del corpo e della mente e della nostra pratica di Dhamma. Se non siamo in grado di occuparci di ciò che è nel nostro immediato, come possiamo pretendere di occuparci della verità ultima? Se non impariamo a mettere in ordine la nostra stanza ogni giorno, come possiamo trattare la complessità della nostra mente?
E’ molto importante riflettere su cose semplici, come l’avere cura del luogo in cui viviamo e non maltrattare le cose che possediamo. Naturalmente è molto più difficile fare questo quando abbiamo il controllo nel mondo materiale e possiamo usare il danaro per comprare ciò che vogliamo, perché istintivamente si pensa: “Oh, ho perso questo” oppure “ho rotto quello, ma non importa, tanto ne compro un altro”.
Un altro aspetto della disciplina e del contenimento consiste nel condurre una vita retta. Per un monaco o una monaca c’è una lunga lista di cose nelle quali non dovremmo rimanere coinvolti, come predire il futuro o partecipare ad attività politiche, ecc… Apprezzo sempre di più il valore di tutto questo quando vedo come, in alcune parti del mondo nelle quali il Sangha è stato coinvolto in questioni mondane, i monaci si trovano a possedere oggetti di lusso o diventano persino benestanti possidenti.
Il retto vivere è un aspetto del Nobile Ottuplice Sentiero che include un ampio raggio di attività, come il non ingannare, non persuadere, alludere, sminuire, barattare e non farsi coinvolgere in commerci di armi, esseri umani, carne, liquori e veleni. Queste linee guida richiedono un’attenta considerazione su come vogliamo trascorrere la nostra vita e in che tipo di situazione o di professione ci vogliamo fare coinvolgere.
Le riflessioni sui precetti, sulle necessità di base, sulla retta condotta di vita e la disciplina della nostra mente e del nostro corpo, sono condizioni fondamentali affinché la vera disciplina si possa manifestare nei nostri cuori. Questa vera disciplina è la nostra totale dedizione alle Verità, al Dhamma, la costante aspirazione del nostro cuore umano ad andare oltre le nostre vite incentrate sull’ego. A volte non sappiamo realmente dire che cosa è, ma con la pratica della meditazione possiamo metterci in vero contatto con quella realtà, con il Dhamma dentro di noi. Tutti i sentieri e le discipline spirituali sono mezzi e condizioni di supporto per tenere viva questa aspirazione di realizzare la Verità nei nostri cuori. Questo è il loro reale scopo.
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Ajahn Sundara è nata in Francia nel 1946. Ha studiato danza classica e contemporanea in Inghilterra e in Francia. Dopo una vita attiva da ballerina e insegnante di danza contemporanea trascorse un periodo di profonda ricerca. Nel 1978 partecipò ad un insegnamento di Ajahn Sumedo in cui parlava della sua vita da monaco buddista, che la toccò profondamente. Dopo poco tempo chiese di fare parte della comunità monastica del Monastero di Chithurst (Cittaviveka) come una delle prime quattro monache novizie. Sin da allora ha partecipato alla fondazione della comunità delle monache e alla loro preparazione. Sin dalla fine degli anni 80 ha insegnato e condotto ritiri di meditazione in Europa e in Nord America.