Insegnamenti

Le ali dell’aquila

del venerabile Ajahn Jayasaro

© Ass. Santacittarama, 2005. Tutti i diritti sono riservati.
SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.
Traduzione di Fabrizio Bartolomucci.

NELLA LINGUA THAILANDESE SI PARLA DI DUE SPECIE DI AMICI. Ci sono gli ‘amici nel cibo’, che sono amici quando c’è qualcosa da mangiare, quando tutto va bene, ma che spariscono quando sorgono problemi e ‘amici nella morte’, che sarebbero pronti a morire per te. Qualche volta mi capita di pensare a queste due espressioni mentre rifletto sulla nostra pratica di Dhamma. Ci sono pratiche che usiamo come rifugi quando le cose vanno bene, ma a cui non ci rivolgiamo più appena le cose diventano difficili. Mi ricorda anche la scena di un film che ho visto molti anni fa, nel quale il protagonista, Woody Allen, aveva escogitato un’idea brillante per fuggire di prigione: aveva preso un pezzo di sapone e lo aveva modellato a forma di pistola, e poi colorato di nero con del lucido da scarpe. Ma proprio la notte in cui aveva pianificato la fuga, c’era un forte temporale e così lui se ne stava lì cercando di fare la faccia truce, con il lucido da scarpe che gli colava lungo le braccia, per ritrovarsi alla fine, con al posto della pistola, una massa di schiuma. Qualche volta nei primi anni di pratica possiamo avere la sensazione di usare gli insegnamenti del Buddha un po’ come faceva Woody Allen con la sua pistola di sapone: appena comincia a piovere tutto si squaglia. Dobbiamo metterci d’impegno per sviluppare la pratica, perché questi insegnamenti che abbiamo scoperto sono ancora fragili, non resistono a circostanze avverse. Dobbiamo nutrirli e proteggerli, ed a volte dobbiamo accettare umilmente che ci sono alcune cose che la nostra mente non ha ancora la forza di affrontare. Per questo dobbiamo fare particolare attenzione allo sviluppo della saggezza quando ci relazioniamo con i vari fenomeni o problemi che sorgono durante la pratica. Nel Sabbasava Sutta(Majjhima Nikaya 2) il Buddha offre molti metodi per affrontare gli asava [le energie di base che straripando ci impediscono di vedere le cose chiaramente. Esse sono il desiderio sensuale, il desiderio di esistenza eterna e l’ignoranza] o le loro manifestazioni.

 

Ci sono alcune cose da evitare senz’altro, e che per un monaco esse sarebbero offese parajika [una infrazione per un bhikkhu talmente seria da comportare l’esclusione dal Sangha monastico]. E’ come passeggiare troppo vicino al bordo di una scogliera, una pratica da evitare, che non va usata per mettere alla prova la nostra capacità di resistenza o il lasciare andare. Ci sono invece altre cose che vanno sopportate, come il caldo ed il freddo, la fame e la sete e così via, ed altre ancora che vanno utilizzate consapevolmente, saggiamente. Per esempio, dei ‘requisiti monastici’ (cibo, vestiti, riparo e medicine) non possiamo farne a meno, non possiamo lasciarli andare. Siamo costretti a rapportarci ad essi in qualche modo, anche se sono parte del mondo sensoriale, perché il nostro corpo deve dimorare nel mondo sensoriale, è parte di esso. Perciò il Buddha insegnò il principio della saggia riflessione (yoniso patisankha) sull’uso della cose che dobbiamo utilizzare. Altri asava sono affrontati riducendoli gradualmente e indebolendoli mediante la pratica.

 

Non c’é solo una pratica generica buona per tutte le circostanze, perciò dobbiamo sviluppare una certa sensibilità e consapevolezza verso la natura delle condizioni con le quali ci troviamo a confrontarci, oltre alla conoscenza e alla forza mentale per relazionarci con tali condizione in modo corretto. Ciò può risparmiarci molta frustrazione, perché se ci manca tale facoltà di saggezza, ci potremmo trovare talvolta a sopportare cose delle quale dovremmo liberarci o a cercare di liberarci di cose che invece vanno sopportate. Oppure potremmo evitare cose che invece vanno usate in modo consapevole, o sforzarci di essere presenti e attenti a cose che dovrebbero essere del tutto evitate. Di nuovo torniamo all’importanza della retta visione, che corrisponde alla facoltà della saggezza.

 

Se durante la pratica ci capita una difficoltà ricorrente, dobbiamo prendere in considerazione quella difficoltà e cominciare ad esaminarla da vari punti di vista. In alcuni casi può essere come usare una pistola di sapone sotto la pioggia: abbiamo l’insegnamento, stiamo facendo la cosa giusta ma non la stiamo applicando correttamente. Ci applichiamo con poco vigore, ci manca integrità e continuità e così, invece della cosa reale, ci ritroviamo – a causa della debole presa che abbiamo su di essa – con una cattiva imitazione. Non può funzionare. In altri casi forse utilizziamo lo strumento sbagliato per quel tipo di lavoro, o forse intraprendiamo una specifica pratica senza una piena comprensione della sua relazione con gli altri fattori necessari a sostenerla.

 

Così se ci troviamo bloccati nella pratica gli indriya [le cinque facoltà spirituali: Saddha/fede, viriya/energia, sati/presenza mentale, samadhi/raccoglimento, pañña/saggezza] possono essere usati come basi di partenza per investigare. Supponiamo che abbiamo difficoltà a mantenere la presenza mentale, allora possiamo porre attenzione al fondamento della presenza mentale che, secondo i cinque indriya, è viriya (energia, vigore). E possiamo domandarci: ‘la nostra presenza mentale è debole perché ci manca vigore? C’è un modo per poter mettere maggior impegno nella pratica?’ – infatti il retto sforzo sosterrà naturalmente la retta presenza mentale… Se poi troviamo che lo sforzo è debole, e non ci sembra di arrivare molto lontano con la sola forza di volontà o la determinazione (adhitthana), allora possiamo tornare indietro di un gradino ed arrivare alla fede-fiducia (saddha). Così se lo sforzo è debole e ci sembra che non riusciamo ad averne abbastanza per un forte impegno nella pratica, possiamo domandarci se la facoltà della fede è debole. La fede qui può essere di diversi tipi. C’è la fede di base di un buddhista, che è la fede nell’illuminazione del Buddha come essere umano, e di conseguenza fede nel potenziale umano per l’illuminazione e nel nostro stesso potenziale per l’illuminazione. Abbiamo questo tipo di fede?… Oppure ci troviamo intrappolati in stati mentali auto-critici, pensando che non possiamo realmente farcela o che i nostri problemi sono troppo difficili da risolvere, cosa che ci porta generalmente ad assumere un atteggiamento depresso e cupo nei riguardi della realtà? Se ci capita ciò, significa che in quel particolare momento la facoltà della fede è carente. E se manca la facoltà delle fede, viriya mancherà se viriyamanca sati mancherà, e così non ci sarà né samadhi né pañña.

 

E’ anche importante avere fede nel nostro oggetto di meditazione, per cui ci dovremmo domandare: ‘Quanta fede, quanta fiducia abbiamo nella nostra meditazione, nel processo meditativo? Quanto è importante per noi? Pensiamo realmente che la pratica della meditazione ci possa condurre all’illuminazione?’ Se non è così, se alla mente manca la fede, allora di nuovo l’energia non sarà presente e così non saremo capaci di mantenere sati.

 

Questi indriya sono tutte cose che vanno controcorrente, non sorgono naturalmente. I loro opposti invece sorgono naturalmente: mancanza di fede, pigrizia, disattenzione, distrazione, illusione – queste cose sorgono assai facilmente, sono naturali per la mente non addestrata. Ma quelle qualità virtuose che si oppongono ad esse – fede, energia, presenza mentale, samadhipañña – nascono con difficoltà. Ora il fatto stesso di trovare la pratica difficile non è sorprendente in effetti ciò è proprio quello che le dà sapore, ciò che la rende così provocativa ed interessante. Se fosse facile, sarebbe davvero noiosa. Perché la faremmo se fosse così facile? Se vediamo un problema come una sfida è facile sentirci stimolati ed ispirati da esso: l’energia potrà sorgere facilmente. Se invece si guarda qualcosa solo come un problema è facile sentirsi oppressi e scoraggiati. Così ci domandiamo: ‘Ci sentiamo appesantiti, oppressi o ostili nei riguardi di quelle situazioni con le quali stiamo lavorando? Pensiamo che dovrebbero essere diverse?’ Il modo in cui sentiamo la pratica e il modo con cui la interpretiamo influisce sulla pratica stessa: è una via a due sensi. Possiamo evitarci un bel po’ di sofferenza sviluppando abilità nel modo di guardare alle cose.

 

L’abilità di usare il pensiero saggiamente ed intelligentemente e’ quello che il Buddha ha chiamato yoniso manasikara. Senza di esso, il pensiero, invece di restare in uno stato neutro, diventa ayoniso manasikara, lasciato incontrollato prende naturalmente il cammino non salutare. Quindi utilizziamo la facoltà della saggezza per valutare ed adattare. Arriviamo a conoscere quali cose devono essere sopportate con fermezza e riconosciamo i vari tipi di errato pensiero (micchasankappa), su cui invece non bisogna soffermarsi, pazientemente aspettando che passino da soli. Per esempio, le fantasie sessuali oppure i pensieri di odio e di malevolenza sono abitudini che creano un kamma estremamente pesante nella mente. Essi intossicano la mente, le fanno perdere il senso di equilibrio e la possono condurre facilmente nei reami infernali perciò il Buddha ha detto: ‘Nel momento in cui diventiamo consapevoli di tali pensieri, li interrompiamo immediatamente senza un attimo di esitazione. Non diamo loro alcuna ospitalità’.

 

Nella pratica abbiamo bisogno di molte qualità – un ampio campionario di strumenti o armi. Abbiamo bisogno di calda ed amorevole gentilezza, compassione, perdono ed anche, allo stesso tempo, un rifiuto intransigente da parte della mente nei riguardi delle intenzioni non salutari. Con l’aiuto di tutti questi strumenti sviluppiamo una forte aspirazione a liberarci dal ciclo dell’esistenza, dagli attaccamenti a quelle cose che costituiscono l’individuo: forma, sensazioni, percezioni, formazioni mentali e coscienza. Mediante la costante riflessione sulla sofferenza legata all’attaccamento – non solo come studio teorico, ma mediante le nostre stesse esperienze – gradualmente ci allontaniamo dalle cose. Questo non avviene con avversione o con il desiderio di sbarazzarci di esse (vibhavatanha). Piuttosto e’ come se, mentre percorriamo una strada, vedessimo una deviazione a sinistra che ci sembra invitante da prendere, con alberi, montagne ed un bellissimo panorama, ma non è la strada su cui vogliamo andare. Non pensiamo, ‘forse potrei andare da quella parte…’, facciamo una scelta precisa di non andare in quella direzione perché vediamo che non va dove vogliamo andare noi. La mente è fresca, non c’è il calore provocato dal movimento dell’avversione non c’è alcun motivo per sentirsi arrabbiati o ostili. Così, sebbene le forme, le sensazioni, le percezioni, le formazioni mentali, ed i vari tipi di coscienza possono avere aspetti piacevoli, amabili ed attraenti, non sono ciò verso cui vogliamo andare, lo abbiamo già fatto per tanto tempo. Ci siamo attaccati a queste condizioni vita dopo vita, e tutto questo dove ci ha portato?… Nei momenti in cui sorgono nella mente sofferenza e angoscia, solitudine, ansietà, paura o depressione, cosa possono fare per noi tutte le esperienze piacevoli e meravigliose che abbiamo avuto? Nulla.

 

Così ci addestriamo a vedere le forme semplicemente come forme, i suoni come suoni, gli odori come odori, i gusti come gusti, le sensazioni fisiche come tali. Sta tutto lì, sono solo componenti del mondo materiale sono semplicemente dhammata, come si dice in thailandese. Ma poi nel momento in cui sorge nella mente il desiderio o l’attaccamento verso qualcosa, esse non sono più solo dhammata, non più semplicemente qualcosa di ordinario – la realtà così com’è – automaticamente acquistano un senso preciso ci proiettiamo su di esse, e diamo loro importanza, significato. Al contrario vedere le cose come dhammata significa essere consapevoli dei fenomeni semplicemente per quello che sono. Ma quando sorgono i soliti pensieri: ‘Non dovrebbe essere cosi’!, ‘Perché io?’, Non avrebbe dovuto dire ciò!’, vediamo che questi tipi di giudizio sono tutti basati sulla sensazione che le cose dovrebbero essere in modo diverso da come sono.

 

Il senso di colpa è basato sulla sensazione che non avremmo dovuto dire quello che abbiamo detto o che avremmo dovuto dire quello che non abbiamo detto, che in qualche modo saremmo dovuti essere migliori di quanto siamo effettivamente. Tuttavia se si comprende dhammata si giunge alla conclusione che le cose sono esattamente in questo modo come conseguenza di certe cause e condizioni. Quando comprendiamo ciò possiamo vedere che, in questo momento, le cose non potrebbero essere diverse da come sono. In risposta alla domanda: ‘Come può mai uno comportarsi in modo tanto maleducato e volgare?’… vediamo che è la conseguenza di tutte le cause e le condizioni precedenti, forse persino di quelle associate ad eventi avvenuti nell’infanzia o in una vita passata. Oppure potrebbe essere una certa infermità o un particolare stato mentale a spingere quella persona ad agire in modo tanto spiacevole. Comprendiamo che, dati i condizionamenti che influiscono sulle componenti o khanda [forma, sensazione, percezione, formazioni mentali, coscienza] che formano quella persona, ciò era la perfetta manifestazione di quello che doveva avvenire in quel particolare momento.

 

Imparare a vedere le cose in termini di cause e condizioni, e che sono la sola o perfetta manifestazione delle cause e condizioni in quel dato momento, non deve condurci semplicemente ad uno stato di ottusa passività: ‘Be’, questo è il modo in cui vanno le cose, ed andrà sempre cosi”… Significa che le cose sono in questo modo in conseguenza di cause e condizioni che sussistono in questo momento, ma le cause e le condizioni cambiano.

 

E’ solo quando la mente avrà realizzato l’equanimità che sarà in grado di rispondere in modo appropriato, in modo creativo. Questo contrasta decisamente con il punto di vista, piuttosto comune in occidente, secondo il quale occorre mettere passione nelle cose che si fanno. Oggi è molto apprezzato il coinvolgimento passionale: la gente pensa che solo dalla passione possano scaturire cambianti e azioni positive. La mancanza di passione non è una parola che si sente sbandierare molto in giro. Ma il Buddha ha detto che le azioni scaturite dalla passione saranno sempre leggermente distorte, non saranno mai perfettamente adeguate alla situazione. Mancheranno sempre di una certa circospezione e maturità di visione.

 

Così la strada che porta alla soluzione ed alla pace si basa, in prima istanza, sul riconoscimento ed accettazione della situazione come dhammata. E’ così com’è, a causa di esperienze passate, di situazione passate e così via, che sono culminate ora in questi particolari fenomeni. Con il riconoscimento e l’accettazione di dhammata, vengono abbandonati l’avversione ed i vari dhamma non salutari. La mente entra in un sereno stato di equanimità, in modo simile a quello nel quale una macchina passa in folle prima di ingranare una marcia superiore. Vediamo che l’equanimità è uno stadio necessario, che ci condurrà successivamente ad uno stadio attivo, in cui ci sarà parlare o tacere, agire o non agire o qualsiasi altra cosa.

 

Una verità essenziale della mente umana a cui il Buddha si è riferito molto spesso è che la saggezza e la compassione sono inseparabili. In una della metafore tradizionali viene presentato un uccello gigante, una grande aquila con due ali, una della quali è la saggezza e l’altra è la compassione. Il Buddha ha messo in risalto il fatto che quanto più vediamo chiaramente la natura della sofferenza, tanto più chiaramente comprendiamo che la sofferenza è condizionata dal desiderio che si origina dall’ignoranza, vediamo allora l’efficacia dell’Ottuplice Sentiero nell’alleviare tale sofferenza, e cominciamo ad intravederne la cessazione. Appena la nostra comprensione delle Quattro Nobili Verità si approfondisce, sentiamo maggiore compassione per noi stessi e per gli altri – in realtà per tutti gli esseri senzienti. Così la riprova, per così dire, della saggezza che abbiamo sviluppato mediante la pratica è la compassione che proviamo, e la prova della compassione che c’è nel nostro cuore – accertandosi che sia vera compassione, e non semplice pietismo o sentimentalismo – è la facoltà della saggezza.

 

Dove c’è vera saggezza c’è compassione, dove c’è vera compassione c’è saggezza. Ma se alla compassione manca la saggezza essa può fare più male che bene. Un antico proverbio dice: ‘la via per l’inferno è lastricata di buone intenzioni’. A volte la gente prova a fare del bene o a prestare aiuto, senza comprendere la propria mente e le proprie motivazioni, e senza comprendere le persone che vorrebbe aiutare. Non hanno alcuna sensibilità nei riguardi del momento e del luogo o nei confronti delle loro stesse capacità, e così non raggiungono i risultati che si prefiggevano. Allora potrebbero arrabbiarsi, demotivarsi o sentirsi ferite e se c’è qualche forma di critica, tali persone si sentiranno ancora peggio. Pensano che l’azione doveva essere corretta in quanto basata su buone intenzioni, che il loro cuore era puro nelle sue intenzioni. Ma la purezza delle intenzioni non è sufficiente, deve essere basata sulla saggezza, sulla comprensione della natura della sofferenza, come sorge e come viene alleviata. Deve essere basata su una reale comprensione della sofferenza.

 

Perciò quanto più guardiamo a noi stessi in azione, tanto più vediamo la sofferenza in tutte le sue miriadi di forme – dal grossolano al molto sottile – e la presenza pervasiva di tanha (bramosia) ogni volta che soffriamo. Cominciamo a vedere quanto poco necessaria sia la sofferenza, ed una profonda compassione comincia a sorgere per noi stessi e per gli altri. In realtà, la distinzione tra noi stessi e gli altri diventa molto meno rigida. Essa può quasi sparire quando la mente diventa stabile e forte, luminosa e potente, per mezzo della pratica. Allo stesso tempo, paradossalmente, diventiamo incredibilmente sensibili alla sofferenza, la troviamo intollerabile e l’incapacità a resistere alla sofferenza è il segno di una mente compassionevole. Per mezzo del triplice addestramento (silasamadhipañña) gradualmente liberiamo la mente, dotandola di una vera indipendenza ed integrità. Stiamo ampliando la sua saggezza e comprensione su come stanno le cose, ed un senso di compassione sorge per tutti gli esseri senzienti, incluso noi stessi.

 

Così, mentre pratichiamo, possiamo provare a guardare alla nostra pratica come ad una sfida. Quando sorge una qualsiasi difficoltà, quella è la nostra sfida, quella è la nostra pratica, non una distrazione da essa. A volte possiamo apprendere molto da queste sfide, perché un tipo particolare di abitudine o di squilibrio può diventare chiaro durante la pratica meditativa formale. Quando vediamo che tale schema si ripete, comprendiamo che è ovviamente improbabile che sia limitato alla nostra pratica meditativa – di solito è sintomatico del nostro complessivo approccio alla vita. E’ come se, in meditazione, stessimo guardando attraverso una lente di ingrandimento alla radice delle cose che ci causano sofferenza. Così c’è molto da imparare da ciò che ci impedisce di entrare in uno stato di concentrazione.

 

Cominciamo a vedere tutto ciò che sorge, sia esso un impedimento o un fattore d’illuminazione o qualsiasi altra cosa, come dhammata sono fenomeni condizionati, sono in questo modo a causa di specifiche condizioni. Comprendendo ciò, possiamo effettivamente penetrare nella catena della causalità ed influenzarla in modo positivo. Mediante il semplice riconoscimento delle cose come dhammata rimuoviamo la reazione istintiva verso di esse, sia di gradimento che di repulsione, e perveniamo ad uno stato di equanimità. Poi dall’equanimità, lo stato neutro, la mente può passare allo stato attivo più appropriato per gestire tale fenomeno. Se è un fenomeno non salutare ci sforziamo di abbandonarlo, se è un fenomeno positivo e salutare possiamo consapevolmente incoraggiarlo e svilupparlo. Quanto più e più da vicino guardiamo, tanta più comprensione e compassione si sviluppano nel cuore. Così se la saggezza viene sviluppata come pratica non è uno sviluppo parziale, include tutto l’essere – perché la saggezza e la compassione sono le due ali dell’uccello.