Insegnamenti

L’amicizia spirituale

del venerabile Ajahn Amaro

© Ass. Santacittarama, 2005. Tutti i diritti sono riservati.
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Dal Forest Sangha Newsletter, n. 41.
Traduzione di Giuliano Giustarini.

 

IN ALCUNI PAESI BUDDHISTI LEGATI AL THERAVADA, la tradizione del monachesimo della foresta è ancora fiorente. Questo stile di pratica, che consiste nell’andare a vivere all’aperto, cercando la solitudine e meditando nelle foreste, è molto spesso incoraggiato. Il nostro insegnante, Ajahn Chah, praticò in questo modo per molti anni. Ma nell’ultima parte della sua vita, dopo aver trascorso molto tempo viaggiando, meditando e vivendo da solo, egli integrò la sua pratica e il suo insegnamento nella creazione di una comunità spirituale.

Si era accorto che, vivendo da solo sulle colline, era in grado di sviluppare la concentrazione e la visione profonda e di sperimentare alcuni stati mentali interessanti, ma che una volta tornato a stare con gli altri monaci, questi stati duravano poco. Cominciava a perdere la sua disposizione d’animo e diveniva sconvolto, arrabbiato e irritato verso tutti gli altri monaci, che trovava inutili e incompetenti. Dopo alcuni anni trascorsi in questo modo, si rese conto che c’era qualcosa che doveva imparare: “Mi è facile starmene da solo ed essere un asceta nella foresta. Quello che mi resta difficile è stare con le altre persone, imparare come trascorrere il tempo con gli altri”. Così cominciò ad assumere sempre più questa prospettiva e in seguito fondò e condusse i suoi monasteri secondo questo stile di vita.

Spesso i suoi monasteri furono criticati perché i monaci e le monache che vi risiedono sembravano avere pochissimo tempo per meditare, dovendo lavorare molto e trascorrendo molto tempo insieme, durante i canti e durante la meditazione. Molti si lamentarono ritenendo che queste condizioni fossero di ostacolo. Egli ascoltò e comprese le critiche, ma non ne fu mai intimidito. Vide che imparare a vivere insieme agli altri era un insegnamento profondo e una grande ricchezza.

Di fatto, è la comunità spirituale, o amicizia spirituale, che sostiene la vita spirituale. È interessante che, tra tutti i maestri di meditazione in Thailandia, Ajahn Chah è stato di gran lunga quello che ha fondato più monasteri (in tutto tra i 130 e i 140). Per gli esseri umani ordinari è così che funziona. Constatiamo che, per crescere nella vita spirituale, abbiamo bisogno del sostegno di amici. Senza di questo, tendiamo ad andare alla deriva o ad affondare.

Nelle scritture c’è un passo sull’amicizia spirituale che viene spesso citato. Un giorno Ananda andò dal Buddha e gli disse: “Signore, io penso che metà della vita santa sia l’amicizia spirituale, l’associarsi con il Buono”. E il Buddha rispose: “Non è così; non dire così, Ananda. Non è metà della vita santa, ma è tutta la vita santa. L’intera vita santa è amicizia con il Buono, associarsi con il Buono”. Ora, il termine Pali per ‘amicizia con il Buono’ è kalyanamittaKalyana significa ‘buono’ o bello e mitta significa ‘amico’. Spesso viene tradotto come l’associarsi o l’accompagnarsi con il Buono (con la B maiuscola), indicando la Realtà Ultima o Incondizionato.

Per anni ho sempre interpretato questa citazione come: “L’amicizia spirituale è tutta la vita santa”, ma il Buddha stava facendo un gioco di parole, egli affermava al contempo che non è soltanto l’avere amici spirituali che è la totalità della vita santa, ma anche la nostra intimità con il Buono, con la Verità Ultima. Questi due aspetti si sostengono reciprocamente. I nostri amici con inclinazioni affini alle nostre, nostri compagni di vita spirituale, sostengono il nostro impegno, ma in effetti quello che rappresenta davvero il fuoco della vita spirituale è la nostra capacità di risvegliarci a ciò che è veramente Buono, il Meraviglioso, la Realtà Ultima.

Quando diciamo ‘amicizia spirituale’, intendiamo soltanto il tipo di persone che incontriamo nei monasteri buddhisti? L’amico spirituale deve per forza avere una testa rasata? O potrebbe essere anche nostro marito, nostra moglie, il nostro compagno di vita? Ci sono molti tipi diversi di relazione o di amicizia che possiamo avere. Potremmo così chiederci quali tra queste sono spirituali e quali non lo sono. Una relazione romantica può essere spirituale? Oppure l’amicizia spirituale deve per forza essere platonica? Può essere una relazione tra insegnante e studente, o tra fratello e sorella? Piuttosto che suddividere le relazioni in categorie o cercare di immaginare quali tipi di amicizia sono spirituali e quali non lo sono, è molto importante guardare le basi su cui si poggia la relazione e il nostro approccio alla relazione stessa. Le relazioni, suggerirei, cadono in due categorie essenziali. In un tipo di relazione tendiamo a rapportarci alle altre persone con un senso di separatezza, nell’altra ci rapportiamo con un senso di interezza.

La relazione di separatezza è imperniata su un profondo senso di ‘me’ e ‘te’, o di ‘sé’ e ‘l’altro’, ed è qualcosa di molto concreto, solido. Ci rivolgiamo all’altra persona per soddisfare un bisogno che abbiamo e che è dovuto alla sensazione che manchi qualcosa in noi; e quell’altra persona sembra poter riempire quello spazio. Questo tipo di relazione o amicizia ha in sé una connotazione di dipendenza. Abbiamo bisogno che l’altra persona ci stia intorno per sostenerci, per farci sentire bene; oppure possiamo avere bisogno che quella persona ci stia intorno come nemico – un buon protagonista contro cui combattere!

Possiamo avere una relazione molto intensa, profonda quando siamo innamorati di qualcuno e sperimentiamo momenti di felicità, un senso di interezza o completezza. Ma questi momenti comportano anche sentimenti di desolazione e perdita, di solitudine e separazione. Anche una forte amicizia, come quella con un insegnante con il quale meditiamo o con il quale condividiamo una mutua comprensione del proprio mondo più intimo, può deluderci. Finché questa amicizia si basa su un senso di ‘me’ e un senso di ‘te’, e non si riconosce questa polarità, vi saranno sempre dolore e perdita.

Nelle scritture si narra un episodio in cui Visakha va dal Buddha, dopo essere appena stata al funerale di un suo nipote. Visakha era una dei migliori discepoli del Buddha. Aveva dieci figli maschi e dieci figlie femmine, e ogni figlio aveva a sua volta dieci figli maschi e dieci figlie femmine. Era quindi circondata da un oceano di nipoti, che adorava e da cui era adorata. Il Buddha vide che i suoi capelli e i suoi abiti erano bagnati e le chiese come mai. Lei rispose: “Signore, un mio caro, amato nipote è morto, per questo i miei capelli e i miei abiti sono bagnati”. Allora il Buddha le chiese: “Visakha, ti piacerebbe avere tanti figli e nipoti quanti sono gli abitanti di Savatthi?”. “Sì, signore”, rispose Visakha. “Ma, Visakha, quante persone muoiono ogni giorno a Savatthi?”. “Dieci persone, o signore, o nove, o otto, almeno una. Non c’è giorno a Savatthi in cui non muoia qualcuno”. “Dunque, Visakha, se tu avessi tanti figli e nipoti quanti sono gli abitanti di Savatthi, assisteresti ogni giorno ai funerali di tuoi discendenti. Staresti mai con gli abiti e i capelli non bagnati?”. “No, signore, ho abbastanza figli e nipoti!”. Poi il Buddha disse: “Coloro che hanno cento persone care hanno cento dolori” (Udana, VIII 8).

L’attaccamento che abbiamo verso i nostri cari è qualcosa di bello ma è anche causa di dolore. Ha in sé una spina, un’ombra, e questo è inevitabile. Se investiamo nel piacere che ci viene da queste relazioni, allora, quando c’è separazione, non possiamo evitare di provare un senso di perdita. Perciò un’amicizia spirituale di questo tipo presenterà sempre una certa assenza di equilibrio.

Ora, d’altra parte, abbiamo quella che mi piace definire una relazione di pienezza, che avviene quando la nostra associazione con gli altri non si basa affatto sul senso del sé. Essa, invece, si basa su un atteggiamento di abbandono, di non-egoità; di apertura piuttosto che di bisogno.

Questa qualità può essere sviluppata consciamente in varie maniere. Un modo è costituito dalla pratica devozionale rivolta a una figura idealizzata, come il Buddha, Dio, Gesù, Krishna o qualcun altro, magari una persona vivente, come un guru. L’atto di abbandono del sé, di donare se stessi in devozione a una figura divina, opera in virtù dell’energia della propria fede verso la divinità della persona. Ciò forma un’importante connessione tra sé e l’altro. Donando completamente se stessi al Divino, interiore o esteriore, sia attraverso un oggetto che lo rappresenti o attraverso una persona che ne incarni le qualità, possiamo produrre una relazione veramente spirituale. Quando la mente si apre a queste qualità, cominciamo a interiorizzare le qualità che queste figure incarnano. Sviluppiamo una gioia interiore e una libertà dentro il nostro essere, senza creare uno stato di qualsivoglia dipendenza.

Qui ad Amaravati abbiamo avuto una conferenza di contemplativi, cui hanno partecipato molti monaci e monache cristiani appartenenti a diversi ordini, nonché alcuni induisti e alcuni sufi. E’ stato interessante parlare con loro perché, mentre i buddhisti non sono soliti praticare una religione teistica, la maggior parte delle altre tradizioni possiedono una figura di Dio piuttosto forte su cui focalizzare la propria attenzione. Le loro preghiere, la liturgia, tutta la loro espressione religiosa è imperniata sulla devozione a Dio: donare se stessi a Dio, pregare Dio, donare il proprio cuore a Gesù, a Maria o a Krishna.

E’ chiaro che più si pratica in questo modo e più è facile vedere Krishna o Gesù, non soltanto esternamente, ma anche interiormente. Questo processo di auto-abbandono conduce gradualmente a una completa, pura identificazione con quella figura divina. Nella poesia mistica sufi ci sono spesso riferimenti alla Realtà Ultima. I suoi versi tradizionali descrivono la relazione tra l’individuo e il Divino, e suonano come appassionate canzoni d’amore. Possiamo notare come in alcune poesie sufi il processo della pratica spirituale termina con la realizzazione del fatto che noi stessi siamo ‘l’Amato’. Non c’è, a questo livello, alcuna differenza o separazione effettiva tra l’individuo e Dio (o Realtà Ultima).

L’altro modo di coltivare questa relazione di pienezza è attraverso il sentiero della meditazione e della saggezza. Adottando questo approccio, diventiamo più consapevoli di come creiamo il senso del sé. Lasciando andare il senso dell’io e del mio nella nostra attività quotidiana, ci impegniamo in un processo di auto-abbandono, senza che vi sia alcun oggetto, essere o divinità esterno che ci sostenga e ci rafforzi. Semplicemente attraverso l’investigazione, la contemplazione e la visione profonda (cioè usando il potere della mente) superiamo il senso del ‘sé’, permettendo al cuore e alla mente di aprirsi totalmente alla Verità.

Un’amicizia o una relazione, così coltivata, porta con sé libertà da dukkha, che è incompletezza e insoddisfazione. Se ci rapportiamo in questo modo agli altri, lasciando andare il sé e lasciando cadere il senso di ‘io’ e del ‘mio’, l’esperienza di stare insieme diventa un’esperienza di gioia e di gradevolezza, anziché di bisogno. Non c’è nessun senso di insicurezza, alienazione e solitudine nella relazione e vi è perciò una tremenda libertà. Possiamo sempre apprezzare la compagnia l’uno dell’altro e sostenerci l’un l’altro, ma non è più una nostra pretesa. Lo stesso accade nell’addestramento spirituale, dove dobbiamo stare attenti a non divenire dipendenti dall’insegnante: un autentico insegnante non avrà bisogno dell’ammirazione e delle attenzioni dei suoi discepoli.

Oggi molti problemi derivano da disfunzioni nelle relazioni famigliari o sociali. Capita di trovarsi imprigionati in relazioni in cui non si riesce ad amare l’altra persona, ma non si riesce neanche a lasciarla. La relazione è, in questo caso, molto distruttiva: non si può vivere con l’altro (o con gli altri), ma non si può neanche vivere senza. Se cerchiamo di instaurare un’amicizia senza una vera comprensione della bellezza spirituale, o Verità, allora ci saranno sempre disfunzioni di questo genere; ma se cerchiamo di vivere con una certa consapevolezza della Verità, in un rapporto di intimità con la Verità, senza però nessun amico spirituale che ci sostenga, allora è molto probabile che perderemo la nostra via. Nessuno dei due approcci porterà buoni risultati. Amicizia spirituale e intimità con la Verità si sostengono reciprocamente ed è proprio questa simbiosi che, idealmente, si esprime nella quadruplice comunità dei discepoli buddhisti. Uomini e donne laici, monaci e monache, in quanto comunità spirituale, possono accrescere la possibilità di visione profonda della Verità. Nonostante a molti di noi piaccia starsene da soli, ci riesce difficile farne un’ottima opportunità di pratica.

Mi sembra che sia un po’ come nell’esperienza di Ajahn Chah: gli piaceva stare da solo nella foresta senza che nessuno lo disturbasse, ma è stata la forma monastica, con uno stile di vita comunitario, quella che egli ha adottato per addestrare i suoi monaci e le sue monache. Nella vita di comunità, la maturità spirituale, quella qualità di autentica indipendenza, viene messa alla prova. Indipendentemente da quello che ci capita, ci deve essere lo sforzo di sostenere un certo equilibrio: dobbiamo aprirci al punto di vista e ai sentimenti degli altri, e mantenere tuttavia un’integrità interiore, così da non vacillare, abbatterci o affondare. Rimango sempre impressionato da quelli che conservano la loro vita spirituale e la loro pratica lontani dalle altre persone. Sviluppare una penetrazione reale della Verità richiede una forza tremenda, e ci può essere non più di una manciata di persone capaci di farlo da soli, senza aiuto.

Per quanto mi riguarda, do certamente un grande valore all’entrata nel Sangha. Ho compiuto i primi vaghi tentativi nella pratica spirituale quando ero ancora molto giovane, e a ventun’anni ero in uno stato di profonda confusione. Fu allora che visitai un ramo di questa comunità monastica in Thailandia. Quello che davvero mi colpì fu la presenza piena di energia che quel gruppo di persone possedeva. Prima di allora non ero stato in grado, da solo, di meditare e praticare, di smettere di bere e di fumare, e di resistere alle influenze delle convenzioni sociali. Non avevo sufficiente chiarezza mentale per sostenere un’autentica e sincera prospettiva spirituale.

Ma all’improvviso, stando in un luogo dove le persone avevano rinunciato a tutte le cose cui anch’io cercavo di rinunciare e facevano tutte le cose che anch’io cercavo di fare, mi sentii come se, sperduto nella foresta, mi fossi trovato d’un tratto sull’autobus che va nella direzione giusta. Finalmente non dovevo più lottare da solo.

Da un punto di vista idealistico si potrebbe dire: “E’ meglio farlo da soli; è il modo di essere forti”. Ma per la maggior parte di noi è molto facile essere ingannati, seguire i propri desideri e le proprie paure ed essere disonesti con se stessi. Vivere con persone che hanno gli stessi nostri interessi ci fornisce un enorme specchio attraverso cui vedere le nostre preferenze, le nostre paure e le nostre scorciatoie.

Uno dei grandi benefici dell’affidarsi a una comunità spirituale, o anche a un modello di insegnamenti spirituali, è la possibilità di misurare oggettivamente i condizionamenti della nostra mente; è come osservare le proprie abitudini proiettate su uno schermo, invece che seguirle ovunque senza mai vederle. Ci viene data la possibilità di distaccarcene e di vedere ciò da cui fuggiamo sempre, ciò verso cui siamo sempre stati attratti, ciò che cerchiamo come luogo di conforto e sicurezza, ciò che ci fa sentire bene o male. Questo tipo di obiettività ci rende in grado di smettere di essere condizionati dai nostri pensieri e dai nostri stati d’animo; una volta che riusciamo a vedere le cose così come sono, siamo in grado di osservare i movimenti della mente e di trascenderli.

Quest’anno ho imparato il termine ‘schmooze’; penso che si tratti di una parola yiddish, e significa starsene con gli amici a chiacchierare e a bere del tè, senza fare niente di importante, soltanto trascorrere bei momenti insieme. E’ un’attività molto utile e ammirevole, e non sto scherzando. E’ sorprendente vedere quanto spesso le persone che sono interessate alla pratica spirituale vengono a un centro di meditazione, come potrebbe essere questo monastero, ascoltano un insegnamento oppure fanno un ritiro e, appena finisce, ognuno se ne torna a casa sua. Capita di frequentare per anni gruppi buddhisti e scoprire che le persone del gruppo si conoscono a malapena tra loro. Ma parte della coltivazione dell’amicizia spirituale consiste nel trascorrere del tempo insieme, nel generare un senso di rispetto e di gratitudine verso gli interessi e gli impegni nella vita spirituale degli altri. Non basta pensare: “L’insegnamento è finito, è ora di andare a casa”, oppure: “Il ritiro è finito, ora me ne vado, devo fare questa cosa e quell’altra”.

Arrivando a conoscere coloro che si interessano agli insegnamenti del Buddha, creiamo una connessione con loro; instauriamo un sistema di reciproco sostegno. Questo è kalyanamitta, la rete di amicizia spirituale. Questo è ciò che ci rende uniti come società umana. Gli accordi politici non funzionano, le leggi non funzionano; è la nostra capacità di rafforzare e rinsaldare la nostra bellezza interiore, la nostra gentilezza e la nostra generosità, e di incoraggiare queste qualità negli altri, questo è ciò che rende gli esseri umani in grado di vivere in modo sano e proficuo.

Nell’amicizia spirituale possiamo veramente stare con gli altri. Ci apriamo all’altra persona, pronti ad osservare i risentimenti, le opinioni e e le ossessioni che abbiamo nei suoi confronti, così come l’attrazione che possiamo sentire verso questa persona. Possiamo dunque addentrarci di più nella dimensione di ascolto, di perdono, di lasciare andare il passato e di stare semplicemente aperti al presente. E questo è il dono più bello e meraviglioso che possiamo regalare.