Insegnamenti

Il sentiero del risveglio

di Ajahn Chandapalo

© Ass. Santacittarama, 2013. Tutti i diritti sono riservati.
SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.
Discorso tenuto all’A.Me.Co il 28 aprile 2012.

TROVO CHE questo periodo storico sia interessante; la meditazione buddhista è sempre più conosciuta e diffusa, anche se, non sempre viene spiegata e definita come tale: meditazione buddhista. La traduzione inglese dei testi Canonici, ha adottato – fin dall’inizio – il termine mindfulness per tradurre in inglese la parola pali sati (1), che in italiano definiamo consapevolezza.

Mia madre vive in Inghilterra, ha ottant’anni, l’anno scorso è morto mio padre e lei ha avuto un periodo molto difficile. E’ stata una grave perdita, dopo sessant’anni di matrimonio. Ne è seguita una depressione, con stati di ansia e panico. Lo psicologo che la cura le ha consigliato di fare un corso di mindfulness per anziani, fornito gratuitamente dall’ospedale del Servizio Sanitario Nazionale.

Questa pratica è entrata a far parte del sistema sanitario anglosassone, prima negli Stati Uniti e adesso in Inghilterra. Sta prendendo piede anche in Italia: ho partecipato a un paio di conferenze sull’uso clinico di certi aspetti della meditazione. Per rendere più accettabile la tecnica, viene oscurato ogni riferimento alla pratica e alla religione buddhista. Magari cercando bene si può trovare da qualche parte una precisazione relativa a “un antico metodo di insegnamento del Buddha”.

La pratica della mindfulness viene ritenuta molto efficace per diversi scopi. E’ stata sviluppata negli Stati Uniti, da un medico che pratica il buddhismo, nella tradizione coreanaL’ha introdotta come metodo per gestire meglio il dolore in pazienti che non potevano essere curati con terapie farmacologiche. Più recentemente la pratica è stata applicata a pazienti depressi, con crisi d’ansia, o come terapia di sostegno alla cura dei tumori. Credo sia una buona cosa. In breve i medici adottano una tecnica basata sulla meditazione buddhista, insegnando a prestare attenzione direttamente al corpo, alle sensazioni, in modo non giudicante, e a imparare a sopportare pazientemente il disagio.

E’ abbastanza buffo perché, per diverso tempo, mia madre mi ha fatto domande cercando di capire cosa facessi, mentre io cercavo di spiegarglielo. Tanto che un paio di anni fa, i miei genitori mi chiesero di registrare una meditazione guidata, appositamente per loro. Preparai un file MP3 che loro ascoltavano prima di addormentarsi. In qualche modo è sempre difficile spiegare, farsi capire, dai propri genitori. Ho letto che uno dei principali discepoli del Buddha: Sariputta, che era molto rispettato e apprezzato per la sua grande saggezza e capacità di insegnare agli altri, diceva che poteva insegnare a chiunque, eccetto che a sua madre: mi ha dato un certo sollievo saperlo! Dato che sono suo figlio, quando cerco di insegnarle, mi interrompe, fa battute, accende la televisione. Invece, in una situazione più formale come quella del Servizio Sanitario Nazionale, il suo ascolto si fa più attento.

E’ ancora all’inizio ma sembra che stia apprezzando questa tecnica, nonostante preferisca sempre la mia meditazione guidata. Sarà perché le istruzioni di mindfulness dell’ospedale sono registrate con una voce con un forte accento americano, che le piace meno.

Il messaggio del Buddha è molto ricco, non si limita solo alla consapevolezza, anche se questa tecnica, applicata con l’atteggiamento corretto, può dare molti benefici. Quando non siamo in lutto, non siamo depressi o ansiosi, c’è comunque un’esperienza universale di dukkha (2), di sofferenza, anche sottile. Perfino quando abbiamo tutto, quando non possiamo lamentarci di nulla. Siamo in buona salute, abbiamo avuto genitori affettuosi, una buona educazione: non ci manca niente. Ugualmente, possiamo notare che ci sono dei momenti, dei periodi di incertezza, di insicurezza, di paura, un senso di non sapere cosa fare, una forma di sofferenza esistenziale. Anche se pratichiamo la meditazione, abbiamo molti obblighi: dobbiamo lavorare per guadagnarci da vivere, accudire figli e genitori, gestire le relazioni con parenti e amici. Per questo il messaggio del Buddha è qualcosa che possiamo applicare alla nostra vita intera, nel suo senso generale, e non si limita ad una sola tecnica di meditazione formale, ma è valido nel contesto complessivo del nostro cammino spirituale. Il Buddha si riferiva al suo messaggio come a un Sentiero del Risveglio” (3), che conduce alla pace, alla conoscenza diretta, alla liberazione da ogni sofferenza.

L’anno scorso ho passato un periodo con il mio Maestro, Luang Por Sumedho: un americano, che è monaco da quarantacinque anni. Un anno e mezzo fa ha rinunciato al suo ruolo di abate del nostro più grande monastero inglese, Amaravati, per tornare ad essere un semplice monaco, senza impegni. L’anno scorso era in Italia per qualche mese, ospite di un paio di posti in cui i monaci possono fare un ritiro individuale. Uno di questi è un piccolo eremo che ci è stato offerto, in Valle d’Aosta, a duemila metri sopra il livello del mare, vicino al Monte Rosa. Luang Por Sumedho ha trascorso qualche settimana lì, ed io sono andato a trovarlo, nei giorni del suo compleanno, quando compiva settantasette anni. Mi ricordo che rifletteva un po’ sulla sua vita, raccontando di quando era giovane e gli sembrava di sapere tante cose, di avere molte opinioni, anche forti, molte idee su come migliorare il mondo. Adesso che ha settantasette anni, di cui quarantacinque da monaco, deve ammettere che quello che sa è poco. Ci sono tante cose che rimangono incerte e quello che possiamo sapere con certezza non è molto. Mi diceva che, in fondo, si è reso conto che ci sono solo due cose che contano: la sofferenza e la fine della sofferenza. Sembra niente, ma è quello che veramente importa per poter vivere bene, per fare una vita serena e felice e per poter accettare quello che la vita ci offre. Mi sentivo piuttosto ispirato da questo, anche se l’avevo già letto, visto che è quello che proclama il Buddha, il quale da sempre insegna soltanto due cose: la sofferenza e la fine della sofferenza. A volte, pensiamo che ancora non sappiamo abbastanza, che dobbiamo studiare ancora. Io studio e poi, dimentico. Spesso, abbiamo questa voce autocritica che ci dice: “sei monaco da tanti anni e non ti ricordi ancora questo elenco di trentasette – non mi ricordo come si chiamano – Bodhipakkhiya dhamma”.

Ma, la sofferenza e la fine della sofferenza, sono qualcosa di tangibile, qualcosa di pratico che possiamo realizzare da noi stessi, qui ed ora. Forse, in questo momento, non vediamo alcuna sofferenza: abbiamo tutto, con la miglior fortuna che potremmo desiderare. Ma anche se fosse così, sappiamo che siamo ancora soggetti alla vecchiaia, alla malattia, alla morte, alla separazione dalle persone e dalle cose amate. Non possiamo sempre avere quello che vogliamo, a volte dobbiamo accettare quello che non desidereremmo. E quindi, anche se adesso tutto sembra andare ottimamente, comunque, in fondo, rimane sempre un certo livello di ansia. Abbiamo speranze per il futuro, speriamo per il meglio ma, nello stesso tempo, temiamo il peggio. Quindi la sofferenza, dukkha nel suo senso più ampio, è decisamente un’esperienza universale.

Il Buddha ci invita a non cercare di fuggire la sofferenza, ma a prestarvi attenzione, a percepire quando si presenta qualche disagio, insoddisfazione, frustrazione. In qualsiasi forma essa si manifesti. Notiamo qual è la nostra tendenza, come siamo abituati a reagire. Forse, cercando di nasconderla in qualcos’altro, distraendoci in qualche modo, provando a dimenticare. Oppure diamo la colpa a qualcun altro. Siamo presi dalla rabbia, dall’odio per chi percepiamo come la causa della nostra sofferenza. Comunque possiamo riconoscere a noi stessi di essere interessati all’esperienza stessa e voler capire come reagiamo. Ancora, usiamo la consapevolezza non giudicante per vedere, per comprendere. E nella meditazione, sviluppiamo questa capacità di raccogliere l’attenzione, di rimanere presenti, con un atteggiamento dolce, accogliente verso ciò che sperimentiamo, cercando di trovare un livello di equilibrio interiore, di equanimità. Un senso di contentezza nel momento. Una bella dimora, adesso, qui ed ora, che non dipenda dalle condizioni esterne, che non dipenda dall’avere o dal dover ottenere qualcosa, oppure dalla necessità di sbarazzarsi di quel qualcosa. Una dimora che nasca, più che altro, da questo atteggiamento di accoglienza, dall’essere in pace con le cose, così come sono. Dall’essere pazienti con le cose, come sono. Riconoscendo che tutto è passeggero, che tutto cambia continuamente ed è per questo che ci applichiamo al qui ed ora. In questo modo abbiamo accesso a un più alto livello di stabilità interiore, di equanimità e contentezza. Poi, quando la vita ci mette di fronte a qualche difficoltà, come un dolore, una frustrazione, una sofferenza di qualsiasi tipo, una perdita, una delusione, possiamo cogliere l’opportunità per aprirci all’esperienza che stiamo vivendo. Non cercando di fuggirla, non analizzandola, ma ammettendola completamente nella consapevolezza, disponibili a guardarci dentro e ad avere questa prospettiva: che dukkha, la sofferenza, è naturale, è un’esperienza universale.

Una tale prospettiva già offre un certo sollievo, perché, anziché subirla a livello troppo personale: “C’è qualcosa di veramente sbagliato, in me. Forse, sono pazzo, c’è qualcosa di decisamente storto, in me. E’ un fallimento personale. Tutti gli altri sembrano contenti solo io soffro…”, anziché deprimerci con questi pensieri, utilizziamo un altro livello di comprensione, una diversa prospettiva. Proviamo ad aprirci, a investigare l’esperienza con un atteggiamento di grande pazienza, di sopportazione. In questo modo, l’esperienza stessa è accompagnata da una certa serenità. Non siamo totalmente immersi, risucchiati dall’esperienza. C’è ancora il dolore, il dispiacere, ecc., però è come se guardassimo all’oggetto dell’attenzione, raccolti nella consapevolezza stessa che non è sofferenza. Ne è già libera. Esattamente come uno specchio, un buono specchio, riflette perfettamente quello che ha davanti, senza distorcere, senza aggiungere nulla e non è, in alcun modo, contaminato o modificato dall’oggetto che ha davanti. La consapevolezza è già libera ed è più grande dei contenuti dell’esperienza. Quindi dopo aver sviluppato la pratica formale con la consapevolezza del respiro, del corpo fisico, del suo movimento, delle sensazioni, degli aspetti mentali allora portiamo la consapevolezza nell’ordinarietà della nostra vita ed incominciamo ad aprire la consapevolezza per includere anche queste esperienze, normalmente indesiderate, per guardare dentro di esse, per comprendere direttamente. Così diventano più chiare le cause della sofferenza. Vediamo che gran parte della sofferenza è qualcosa che noi aggiungiamo con la nostra reazione abituale. Desiderando ciò che non abbiamo, evitando ciò che abbiamo. Possiamo, piano piano, imparare ad aprirci alle esperienze. Poi, scopriamo che anche dukkha, la sofferenza, è qualcosa di mutevole, non è qualcosa di durevole, di solido, di reale, come sembrava. Anche dukkha è qualcosa di impermanente, di insostanziale. Abbiamo la capacità di accoglierla, di restare in sua presenza. Quindi esercitiamo questa equanimità, che non significa indifferenza ma riuscire a stare con le cose così come sono, in modo equilibrato, senza essere trascinati via dalle abitudini mentali e dal nostro modo “consueto” di reagire. La sofferenza stessa diventa il nutrimento per la nostra pratica, che ci porterà alla fine della sofferenza stessa. Con questo atteggiamento e la comprensione della insostanzialità, vediamo la sofferenza come qualcosa che segue le leggi di natura. Si indebolisce il nostro senso di identità – “io sono questo, questo è mio“- perché il rifugio, il posto sicuro è la consapevolezza stessa. Anche se ci perdiamo, perché le abitudini sono forti e continuano a farci reagire, confondendoci, abbiamo però, in ogni momento, anche l’accesso alla consapevolezza. Perché essa non è qualcosa che scompare definitivamente, qualcosa che dobbiamo faticare molto per ottenere o andare a cercare da qualche parte, è qui ed ora, immediatamente. Come accendere la luce. Questa possibilità di aprirci alle cose come sono, incominciando a sperimentare, ci permette di lavorare con questo, procedendo poco a poco. Un dolore fisico durante la meditazione, un disappunto quando si perde qualcosa, quando qualcosa va contro le nostre aspettative, quando sembra che qualcuno non ci apprezzi o interpreti male il nostro comportamento: assumiamoci le nostre responsabilità, riuscendo ad accogliere la sofferenza stessa, in modo che possa svanire, cessare. Quando riusciamo ad ammettere le cose come sono, la sofferenza prodotta dal volere o non-volere le cose come sono, cessa. C’è questa semplice capacità di stare con le cose come sono. Poter vedere il quadro più grande, in prospettiva. Provate: è liberatorio.

Quest’anno, ho avuto una serie di esperienze per me abbastanza nuove. La morte di mio padre. Mia madre è caduta in depressione, e ho dovuto andare avanti e indietro in Inghilterra, sei o sette volte, per starle vicino. Talvolta voleva suicidarsi, mi svegliava nel pieno della notte, in uno stato di panico, voleva uccidersi e mi chiedeva di aiutarla. Ho dovuto chiudere a chiave i medicinali perché non sapevo se avrebbe provato a farlo sul serio. Un problema dopo l’altro: ho avuto un forte dolore alle cervicali, sono stato diverse settimane a letto. Un medico ha notato un neo sulla mia testa e mi ha consigliato di toglierlo perché, pur essendo per fortuna poco aggressivo, era comunque maligno. Poi un giorno stavo andando all’aeroporto di Fiumicino, per prendere l’aereo, in una giornata calda. Avevo in grembo la mia borsa, con il passaporto, vari altri documenti e altro ancora. Era un po’ scomodo, quindi l’ho messa nel sedile davanti, considerando che non c’erano molte persone e pensando di averla sotto gli occhi. Ad un certo punto, mentre guardavo fuori dal finestrino, mi è venuto il pensiero “tutto è incerto, l’unico vero motivo per cui soffriamo è che non vediamo chiaramente l’incertezza della cose”. Ho sentito una mano sulla spalle, ho girato la testa, mi hanno chiesto qualcosa e … non c’era più la borsa. Il treno stava per partire. Ho un ricordo molto chiaro del momento: all’inizio, ho avuto un rifiuto: – “no, non è possibile!” . Ma poi mi sono detto “sì, non c’è più, mi hanno rubato la borsa!”. Sono scattato in piedi e ho gridato “mi hanno preso la borsa … qualcuno l’ha vista?”. Il treno già partiva, nella borsa avevo il passaporto, la carta d’identità, la carta d’imbarco per il volo, il cellulare. Non possedevo più alcuna attestazione sulla mia identità, niente. Alla fine, sono riuscito a prendere il volo, perché al mattino avevo fatto il check-in online e mi ricordavo il numero del posto e all’aeroporto si sono fidati. Nonostante tutto, anche se ho provato un momento iniziale di forte disappunto, mi sono sentito piuttosto sereno su l’intera faccenda. Ero anche rincuorato perché tutti erano stati molto gentili con me: il capotreno, la polizia, lo staff all’aeroporto, e il giorno dopo, mi sono stati offerti due cellulari nuovi! Inoltre sentivo compassione per le persone che vivono rubando e afflitte dalla paura di dover rubare. Ho colto anche l’occasione per riconoscere quanto la pratica mi abbia aiutato ad affrontare tutte queste esperienze.

Forse la cosa più difficile è stata vedere mia madre soffrire così tanto. Ma non le chiedevo di non provare quello che provava. Le stavo vicino in modo aperto, disponibile, ricettivo, per aiutarla, per calmarla, e ciò ha avuto un buon effetto. Aveva crisi di ansia, non sapeva cosa fare con se stessa, potevo darle solo piccoli consigli, magari prepararle una tisana, ma questo bastava a calmarla. Ed ora sta molto meglio. La fiducia nella consapevolezza, aprirci alle cose come sono, al flusso della vita, rilassarci nel qui ed ora, ci dà un senso di connessione con gli altri esseri umani, perché siamo tutti sulla stessa barca. Per quanto tendiamo a dare enfasi alle differenze – la nazionalità, le classi sociali, le religioni ecc. – sono di poca importanza quando ci rendiamo conto che siamo tutti soggetti alla vecchiaia, alla malattia, alla morte, alla separazione. La vita ha un senso, c’è la possibilità di imparare, strada facendo, se siamo pronti e disponibili. E’ un processo: un processo di risveglio, di risvegliarci alla vita per trovare una comprensione diretta e liberatoria. Vale la pena di continuare. Avendo iniziato, è sufficiente continuare, anche se talvolta si torna distratti, si può sempre riprendere, consapevolmente. La vita, alle volte, ci procura molte distrazioni. Ci allontaniamo dalla strada che abbiamo intrapreso, ma possiamo sempre tornare indietro e riprendere la direzione. Come ha detto il Buddha “E’ un sentiero che è bello all’inizio. E’ bello a metà. E’ bello alla fine.”

Non c’è solo il momento della liberazione finale, la Grande Illuminazione, su cui abbiamo investito tutto e che speriamo un giorno di realizzare, nonostante temiamo di non esserne capaci. C’è la pratica del qui ed ora. Con questo atteggiamento di disponibilità e fiducia nella consapevolezza, avendo una direzione precisa e strumenti efficaci da utilizzare, abbiamo la possibilità di imparare dalla varietà delle esperienze.

La nostra sofferenza non è sprecata, diventa il materiale per arrivare alla non-sofferenza: alla fine della sofferenza.

NOTE

  • – samma sati: “retta consapevolezza” è il settimo degli otto fattori nel Nobile Ottuplice Sentiero, e fa parte della sezione della concentrazione (samadhi).

“E cos’è la retta consapevolezza: c’è il caso in cui un monaco rimane concentrato nel corpo e sul corpo. Ardente, attento, e consapevole. Mettendo da parte l’avidità e la sofferenza, rispetto al mondo, rimane focalizzato sulle sensazioni… sulla mente… sulle qualità mentali… questo si chiama retta consapevolezza…”

da Majjhima Nikāya ,Satipatthana Sutta – Le quattro cornici di riferimento

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  • – dukkha (sofferenza): “La nascita è dukkha, la vecchiaia è dukkha, la morte è dukkha, dolore, lamento, sofferenza, angoscia, disperazione sono dukkha, essere associati a chi non amiamo è dukkha, la separazione da quelli che amiamo è dukkha. Non ottenere ciò che desideriamo è dukkha. In breve, i cinque aggregati dell’attaccamento sono dukkha.”

da Samyutta-Nikāya, Dhammacakkappavattana Sutta – La messa in moto della Ruota del Dhamma

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  • – Nobile Ottuplice Sentiero, “E cos’è mai, o monaci, questo sentiero di mezzo, realizzato dal Tathāgata che produce la visione e la gnosi, e che guida alla calma, alla perfetta conoscenza, al perfetto risveglio, al nibbāna? E’ il Nobile Ottuplice Sentiero, ovvero la retta visione, la retta intenzione, la retta parola, la retta azione, il retto modo di vivere, il retto sforzo, la retta consapevolezza, la retta concentrazione.”

da Samyutta-Nikāya, Dhammacakkappavattana Sutta – La messa in moto della Ruota del Dhamma