del venerabile Ajahn Amaro
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Traduzione di Chandravimala Candiani.
Un discorso di Ajahn Amaro tenuto durante un ritiro in California a ‘The City of 10’000 Buddhas’ nel luglio del 1991.
STORICAMENTE CI SONO STATE DIVERGENZE di opinione riguardo ai meriti del buddhismo Theravada e di quello Mahayana e, leggendo gran parte della letteratura, essi sembrano differenziarsi nei confronti dell’approccio alla pratica buddhista, e nello stesso tempo avere anche grandissime affinità.
Quando, nel 1978, arrivai all’International Forest Monastery in Tailandia, non avevo mai letto nessun testo buddhista e in realtà non avevo intenzione di diventare un monaco buddhista. Ero un giramondo, un ricercatore spirituale freelance ed ero sbucato in questo monastero della foresta, fondato da Ajahn Sumedho un paio di anni prima, più che altro in cerca di pasti gratuiti e un tetto sopra la testa per qualche notte. Non mi aspettavo di sicuro che dodici o tredici anni dopo avrei fatto quel che ora faccio. Ma quando arrivai e chiesi ai monaci di parlarmi del buddhismo, di spiegarmi un po’ com’era in modo che potessi farmi un’idea della loro vita, la prima cosa che uno di loro fece fu di darmi una copia di un libro di discorsi di un maestro Zen, e aggiunse: “Non metterti a leggere la letteratura Theravada è tremendamente noiosa, assai arida. Leggi questo, è molto simile a quello che facciamo e ti potrai fare un’idea di come sia la nostra pratica.” E io pensai: “Bene, evidentemente questi ragazzi non sono troppo attaccati alla loro tradizione.” Il libro era “Mente Zen, mente da principiante”.
Dunque, si può da subito vedere che, anche se c’è un accento su una forma particolare di buddhismo all’interno di ogni paese buddhista, essa non è necessariamente costrittiva o limitante. Passarono mesi senza che sentissi anche solo pronunciare i termini “Theravada” e “Mahayana”, e tanto meno le differenze di opinione tra di essi. Sembrava che se ne vivevi veramente la vita, non ci fosse grande disparità, ma se vi pensavi molto ed eri il tipo di persona che scrive storie e libri e si interessa del lato politico dell’esperienza religiosa, è lì che finivi per trovare le divergenze.
Nel corso degli anni, ho sentito spesso raccontare da Ajahn Sumedho che il primo anno di vita monastica praticava seguendo le istruzioni di un ritiro di meditazione Ch’an tenuto dal venerabile Maestro Hsu Yun e che usava i discorsi di Dharma di quel ritiro in Cina come istruzione di base della sua meditazione. Quando giunse a Wat Pah Pong, Ajahn Chah gli chiese quale genere di meditazione praticasse da principio pensò: “Oh no, mi chiederà di rinunciarci e di seguire il suo metodo.” Ma quando Ajahn Sumedho descrisse quel che faceva e aggiunse che dava ottimi risultati, Ajahn Chah disse: “Oh, benissimo, continua a farlo.”
C’è, dunque, una forte identità di scopo, e, anche se possono esserci differenze storiche tra le due tradizioni, esse sono in profondo accordo. E si comincia a capire di cosa parlino le diverse tradizioni buddhiste. Sono state suddivise in Hinayana, Mahayana e Vajrayana, come generi diversi di pratica buddhista, ma sono solo differenti etichette che riguardano diversi atteggiamenti della mente e quando le tradizioni vengono usate con saggezza, si rivolgono a tutti gli aspetti della mente, dai più egoistici e mondani fino ai più elevati. Si rivolgono ai diversi livelli della nostra vita e solo quando non vengono compresi, quando li si prende come posizioni fisse, solo allora c’è conflitto tra le tradizioni.
Per esempio, il buddhismo Theravada viene spesso considerato come rappresentativo della posizione Hinayana, di un interesse per se stessi che ci fa dire: “Che io esca velocemente da qui, ne ho abbastanza di questa confusione voglio finirla con tutto questo il più presto possibile.” Si può comprendere che questo è uno stadio ben preciso dello sviluppo spirituale. Per esempio, inizialmente abbiamo un atteggiamento mondano fondamentalmente non siamo affatto interessati allo sviluppo spirituale. Vogliamo solo la felicità, comunque e ovunque si possa trovarla. Abbiamo una prospettiva mondana e nessun orientamento spirituale. Così, dunque, la nostra prima forma di risveglio alla vita spirituale avviene quando cominciamo a riconoscere la sofferenza. Riconosciamo il bisogno di soccorso e aiuto.
L’Hinayana, dunque, riguarda questo passo iniziale sul cammino spirituale, la comprensione che qualcosa va fatto per sistemare la nostra vita. E’ un naturale interesse per se stessi non ti metti ad aiutare gli altri, né ti sta troppo a cuore il benessere degli altri se tu stesso stai affogando. Prima di tutto devi raggiungere la sicurezza della riva. Ma poi basare la propria pratica spirituale sull’interesse per se stessi e cercare solo di rendersi la vita tranquilla e felice è ovviamente di scarso valore. Si può comprendere che se restiamo bloccati a quel livello, subentrerà una certa aridità e sterilità.
Recentemente, ho fatto, a questo proposito, un’esperienza interessante. Di solito, la mia personalità è tendenzialmente amichevole, generosa, estroversa e ho sempre provato una forte inclinazione per gli insegnamenti buddhisti Mahayana. Ma verso la fine dello scorso anno, sentii insinuarsi in me un certo nichilismo. C’era una persistente tendenza del tipo. “Ne ho abbastanza di questo voglio tirarmi indietro.” Era molto inusuale per me e iniziò ad emergere con molta forza. L’idea di vivere la vecchiaia e di dover fronteggiare l’esistenza umana e le banalità della vita e il tedio di una noiosa routine monastica non mi divertiva affatto. Tutto cominciò a sembrarmi assolutamente non invitante. Era come ritrovarsi in mare aperto senza alcun orizzonte in vista. Era una forte, sgretolante negatività. Non provavo amicizia per nessuno, non sentivo alcuna ispirazione per la vita monastica. Tutto sembrava una tediosa filastrocca.
Ogni due settimane, recitiamo le regole monastiche e cantarle dura circa quarantacinque minuti. E’ il modo abituale di rinfrescare lo spirito della comunità monastica, rinnovando l’aspirazione e la dedizione alla nostra disciplina e al nostro stile di vita. Io sedevo, recitando le regole, e la mia mente diceva: “Che farsa, che perdita di tempo” e intanto cercavo di ricordare le parole che ci si aspettava che io cantassi. Questo avveniva all’inizio del ritiro monastico invernale, in cui avrei dovuto aiutare ad insegnare e io pensavo: “Sarà veramente difficile.” Ci si aspettava che fossi di ispirazione ai giovani monaci e monache e la mia mente stava attraversando uno stato tanto negativo. Lo osservavo, ma sembravano esserci un sacco di giustificazioni a questo modo di pensare così negativo. Pensavo: “Bé, forse ho sbagliato tutti questi anni forse non ero che una zucca vuota, un pazzo troppo ottimista ed essere un annoiato cinico era fin dall’inizio la via giusta.”
Poi, una notte, feci un sogno molto vivido, a forti tinte. In questo sogno, mangiavo le mie mani, dito dopo dito. Tiravo fuori il pollice e poi tutte le altre dita e le mangiavo. Era un sogno così vivido, che ne sentivo il sapore ed era un sapore dolce. Mangiai tutta la mano sinistra e cominciai con la destra, mangiai le prime tre dita, finché non rimasero che l’indice e il pollice. A quel punto, qualcosa in me disse: “Svegliati!” Mi svegliai con il ricordo chiarissimo del sogno. Realizzai all’istante quel che stavo facendo. Per trascuratezza, stavo distruggendo le capacità che erano i miei più utili compagni e assistenti. Le tendenze negative e autodistruttive stavano insabbiando e bruciando tutte le buone qualità. Le qualità spirituali venivano distrutte. Fu uno shock e compresi di aver imboccato il sentiero sbagliato. Poi, qualcos’altro accadde spontaneamente.In realtà, non pensai al buddhismo Mahayana o all’ideale del bodhisattva, ma cominciai a dirmi: “Bene, non m’importa di provare neanche un istante di felicità in questa vita, non m’importa di dover rinascere diecimila milioni di volte. Se solo riesco a compiere un atto di gentilezza verso un altro essere in migliaia di milioni di vite, allora tutto questo tempo non sarà stato speso invano.” Nella mia mente, cominciarono a sorgere spontaneamente pensieri come questo, e provai all’improvviso un’incredibile gioia e felicità e un senso di sollievo, che è strano se ci pensate razionalmente: diecimila milioni di vite di attività inutile e di completo dolore e noia. Ma il risultato fu una gioia vibrante e una sensazione di piacere. Era l’evasione dalla prigione dell’autoriferimento.
Quando la mente entra in questo atteggiamento di desiderio di morte, aspettando solo che tutto finisca, non provi interesse che per te stesso. Diventi cieco e immune verso gli altri. Anche senza volerlo, ti ritrovi a costruire ogni sorta di muri intorno a te stesso. E capisco che è questa la causa dello spirito e della tradizione Mahayana: far sorgere l’altruismo, la sollecitudine, anche se è un compito smisuratamente vasto, assumerselo in ogni caso. Esso libera il naturale altruismo e senso di affinità che proviamo per gli altri esseri. Riconosciamo, allora, l’interconnessione con tutti gli altri esseri, tutte le altre vite e per rispetto verso di essi, nasce un senso di gioia nel poter dare, aiutare e servire. E’ interessante che, più o meno nello stesso periodo, qualcuno mi diede un libro che dimostrava che questo principio non si ritrova solo nella tradizione buddhista. L’autore parlava di questo principio portando esempi della tradizione hindù e giudaica. Raccontava la storia di Sri Ramakrishna e di come, prima che lui stesso e Swami Vivekananda nascessero, egli avesse scovato Vivekananda (che era il suo migliore discepolo) in uno degli alti paradisi di Brahma, assorto in meditazione, totalmente disinteressato al mondo, “vicino alla montagna dell’Assoluto!” Che frase grandiosa! Vivekananda se ne stava seduto, totalmente rapito nella beatitudine. Allora, Ramakrishna assunse la forma di un bimbo intessé il corpo di un bambino d’oro al di fuori dall’atmosfera di questo regno elevato e cominciò a cantare e a suonare di fronte al saggio. Alla fine, l’attenzione del saggio restò catturata, aprì gli occhi e vide un bimbo incredibilmente affascinante che suonava e saltellava di fronte a lui. E, infine, con gli occhi completamente aperti, guardò il bambino che gli disse: “Io scendo giù e tu vieni con me.” Così Vivekananda scese e lo raggiunse.
L’altro esempio riguarda un Rabbi, chiamato Rabbi Leib che raccontava ad alcuni dei suoi discepoli: “Prima di questa vita, non volevo nascere non volevo venire qui. Questo mondo umano è pieno di follia, di gente pazza e idiota. Ne avevo abbastanza di tutto questo e non volevo più esserne coinvolto. E poi un giorno, arrivò un individuo, aveva l’aspetto di un contadino, con un badile sulla spalla e mi disse: “Non hai niente di meglio da fare che startene qui sdraiato tutto il giorno a goderti la beatitudine dell’eternità? Io lavoro ininterrottamente solo per portare un pochino di felicità, un po’ più di gioia nella vita degli altri, e tu cosa fai? Non fai che gingillarti!”” Disse che restò tanto toccato da questa persona che accettò di seguirla. Questo individuo col badile era Baal Shem Toov, uno dei fondatori dell’Hassidismo. Si dice che egli vagasse per i regni superiori del cosmo cercando persone adatte da poter inviare sulla terra perché si prendessero cura dei nostri simili. E’ interessante vedere che questo stesso principio esiste nell’esperienza umana in diverse tradizioni.
L’interesse per se stessi ci conduce all’esperienza del deserto, anche se notiamo che le contaminazioni più grossolane della mente sono state eliminate o si sono logorate da sole, anche se non siamo posseduti da troppa ansia, desiderio, avidità, avversione, invidia o quant’altro, e la mente è piuttosto in pace. Come vi potete accorgere, dopo un ritiro di una settimana, potete sedere con la mente concentrata, silenziosa e, anziché provare rapimento o un senso di interezza e di totalità, la sensazione è: “E allora? E’ per arrivare a questo che il Buddha formulò il suo insegnamento, questo vuoto mentale, dove non accade nient’altro?” Senza pensieri e sensazioni, senza passioni con cui lottare, è come ritrovarsi in una grigia stanzetta. Non c’ alcun disturbo, ma sembra un’esperienza un po’ insipida per costruirci attorno una religione diffusa in tutto il mondo.
Pensate: “Questa è una truffa! Ho lottato per cinque o sei anni con la paura o il desiderio e simili e ora raggiungo lo spazio di libertà, sono all’aperto, ed è un deserto. Non è giusto!” Ma poi comprendete che non è questo che il Buddha indicava come la meta della vita santa, perché anche se non scorgi alcun oggetto evidente che fa da ostacolo o da contaminazione, quel che ancora c’è sei tu, o in questo caso, me. C’è il senso dell’io, qualcuno qui che fa l’esperienza, c’è una persona. Questo senso di identità, anche se non è evidente, non spunta fuori in modo vivido, è però una costante presenza. L’io è una struttura psicologica simile a un muro attorno a noi, a una prigione. Ed essendo assorbiti dalla vita nella prigione, non ci accorgiamo di essere rinchiusi. Solo quando tutto si acquieta e si ha la possibilità di guardarsi attorno e di accogliere l’ambiente, si sente il senso di limitazione, di aridità c’è tedio, è un BLEAAGGHHH!
Anche nel Buddhismo Mahayana, che è estroverso, incentrato sull’altruismo, la generosità, la compassione, lo sviluppo di una vita spirituale per il bene di tutti gli esseri, se la pratica si ferma allo stadio di “Io che dedico la vita ad aiutare gli altri”, anche se in modo altamente sviluppato, alla fine c’è ancora ME e TE, io che aiuto tutti gli esseri senzienti. Anche in questo caso, pure se c’è molta gioia, incontri comunque una barriera, un senso di isolamento o di mancanza di significato. C’è una separazione. E’ dunque importante usare la pratica della meditazione non per restare assorbiti da pensieri e sentimenti altruistici, perché, se fate attenzione, molti degli insegnamenti del Buddha sono rivolti all’assenza di un sé, alla vacuità, come gli insegnamenti su anatta. Se non c’è un sé, chi è che irradia gentilezza sul mondo intero? Se non c’è un sé, chi invia la metta e chi la riceve?
Allora, si capisce che c’è un livello di comprensione, di essere, che è al di là di ciò che è limitato dai concetti di sé e altro. Non importa quanto alta, raffinata e pura possa essere la nostra aspirazione, finché non andiamo al di là del senso di identità con un sé e della separazione, ci sarà sempre una sensazione di incompletezza, si insinuerà l’esperienza del deserto.
Dunque, se accediamo all’atteggiamento mentale del grande cuore, realizziamo ciò che appartiene alla saggezza della comprensione ultima, della Realtà Ultima, quella che viene definita insegnamento Vajra. Vajra significa diamante o fulmine, indistruttibile, supremamente potente, la Verità adamantina. E’ la comprensione dell’assenza di un sé. Quando si mette l’attenzione sul senso dell’io, si usa la pratica per illuminare le supposizioni che facciamo riguardo alla nostra identità. Dobbiamo distogliere la mente dagli oggetti esterni e portarla sulle supposizioni che creiamo riguardo al “soggetto”. Quando la mente è calma e tranquilla, è molto utile cominciare a investigare: “Chi è la persona che è al centro di tutto questo?” “Chi medita?” “Cosa conosce?” “Chi è colui che conosce?” “Cos’è che conosce pensieri e sensazioni?” E’ quando osserviamo e sfidiamo le supposizioni che esista una celata entità, è allora che all’improvviso i muri della prigione crollano.
Sei o sette anni fa, feci un’esperienza a questo riguardo, quando cominciai a usare questo tipo di meditazione in un lungo ritiro, chiedendomi: “Chi sono io?” o “Cosa sono io?” e usandolo per creare un’esitazione nella mente, per immettere in una prospettiva il senso del sé, fu come uscire dalla cella di una grigia prigione e ritrovarsi nella luce del sole, in un campo di fiori. Fu una sensazione di grandissima freschezza e di sollievo, come imbattersi in un’oasi nel deserto.
Il Buddha disse che la più grande felicità è essere liberi dal senso dell’ “io sono”. Può sembrare ad alcuni un po’ ridicolo o insensato, perché il nostro “sé” sembra la cosa più reale di tutto l’universo, “Se esiste qualcosa di reale, quel qualcosa sono io.” Ma è solo perché non abbiamo mai osservato o investigato il senso dell’io, del me, del mio. E’ solo perché non l’abbiamo mai studiata e vista con chiarezza, che questa illusione si mantiene. Se la si guarda da vicino, l’illusione va a pezzi. Non puoi restarne catturato.
Si usa dunque l’investigazione per sfidare le supposizioni che facciamo e i muri che costruiamo dentro la mente. E’ questa sfida alle supposizioni che dissolve l’illusione. L’istinto dell’io, tuttavia, è di cominciare immediatamente a creare qualcosa che produca un’attività altrove in modo da distrarre la nostra attenzione, in modo da interrompere l’investigazione. L’io è come qualsiasi altra creatura spaventata dalla morte e non appena cominciamo a sfidarne la supremazia e la centralità, sorge una reazione di panico. Scoprirete che la mente può suscitare ogni genere di pensiero interessante e affascinante per persuadervi a impegnarvi subito in qualcos’altro. Occorre, dunque, molta risolutezza per dire: “No!” e riportare la mente a chiedersi: “Chi è questo?” “Chi o cosa conosce questo panico?” “Cosa conosce questa sensazione?”
Nel Vajra Prajna Paramita Sutra si trovano affermazioni quali: “Non c’è traccia di sé, non c’è traccia di altro, non c’è traccia di esseri viventi, non c’è traccia di vita”, oppure: “Tutti i dharma condizionati sono sogni, illusioni, bolle, ombre, come gocce di rugiada o la luce di un lampo, così contemplatele.” O ancora: “Ogni cosa è creata solo dalla mente”. E nel Sutra del Cuore, che qui nella City of 10,000 Buddha si recita ogni giorno, ci sono sezioni che dicono: “Non c’è forma, non sensazione, né percezione, non formazioni mentali, né coscienza, non c’è ignoranza, non c’è nascita, invecchiamento, morte, non c’è sofferenza, né realizzazione, né Via.” Questo significa uscire dall’intero mondo condizionato, mettendolo in una prospettiva, non ricercando la liberazione, la certezza, la sicurezza in ciò che è intrinsecamente insicuro, intrinsecamente vincolato e limitato dal tempo, dal sé, dalla nascita e dalla morte. Finché cerchiamo la felicità nel mondo sensoriale condizionato, siamo destinati a restare delusi. Non possiamo trovarla in quel mondo. E fenomeni come la nascita, la morte, il sé, l’altro, la sofferenza sono verità relative, e in definitiva non c’è sofferenza, nessuno è mai nato e nessuno muore. L’unica cosa che esiste è “Ciò che è così com’è” o “Il Meraviglioso” o “La Mente Universale” o qualsiasi altro degli innumerevoli termini che vengono usati.
La cosa interessante è che non si ritrova questo insegnamento solo nei testi Mahayana o Vajrayana. E’ ampiamente spiegato e delucidato dal Buddha anche nelle scritture Theravada, anche se non viene molto sottolineato. Si incontrano perfino insegnanti che affermano che anatta non andrebbe insegnato, che è un insegnamento pericoloso. Una volta, dopo un discorso di Ajahn Sumedho, un ben noto insegnante buddhista presente, fu tremendamente turbato e disturbato che Ajahn Sumedho insegnasse anatta ai laici. Pensava fosse da irresponsabili, eppure lui stesso era laico! Lo stesso pensava un eminente monaco in Tailandia, affermava che anatta è un insegnamento troppo potente da trasmettere a tutti quanti, a tutti voi, ma io non lo penso (risata). E’ un insegnamento di suprema liberazione, spesso dissimulato nel Theravada, che spinge continuamente la mente a questo punto di suprema saggezza.
Per esempio, c’è un’indagine di un monaco chiamato Anuradha, che viene interrogato da dotti bramini riguardo a “Qual è la natura di un essere illuminato dopo la morte?”, “Cosa accade a un Tathagata, a un illuminato dopo la morte del corpo?”, “Continua ad esistere?”.
Il monaco risponde: “L’illuminato non dice questo.”
Gli viene chiesto: “Dunque non esiste?”
“L’illuminato non lo dice.”
“Sia esiste, sia non esiste?”
“L’illuminato non dice questo.”
“Allora, né esiste, né non esiste.”
“Anche questo non viene detto dall’illuminato.”
Allora, gli dicono: “Devi essere un pazzo o un neofita. Evidentemente, non comprendi l’insegnamento del Buddha o ci sapresti dare una risposta decente.”
Egli si recò, dunque, dal Buddha e gli riportò questa conversazione e chiese: “Ho risposto nel modo giusto?” E il Buddha rispose: “Sì, Anuradha, hai risposto bene.”
“Pensi che il Tathagata sia i cinque khandha?”
“No, Signore.”
“Pensi che il Tathagata possegga i cinque khandha?”
Ed egli: “No, Signore.”
“Pensi che il Tathagata non possegga i cinque khandha?”
“No, anche questo non è vero.”
“Vedi il Tathagata all’interno dei cinque khandha?”
“No, Signore.”
“Vedi allora il Tathagata come separato, al di fuori dei cinque khandha?”
“No, nemmeno questo.”
“Giusto!” disse il Buddha, “E’ solo questo che io insegno, e ho insegnato, la sofferenza e la fine della sofferenza.”
Il Buddha ci raccomanda di non cercare di definire l’illuminato in termini concettuali, perché ogni definizione concettuale risulta insufficiente, è solo relativamente vera. Il Buddha sottolineò molto chiaramente nell’insegnamento Theravada come nelle scritture della scuola del nord, che la prospettiva ultima sulle cose è quella di non avere prospettive fisse, quella della realizzazione effettiva della verità, dimorando nella posizione della consapevolezza, anziché assumere qualsiasi tipo di posizione concettuale o ideale. E’ questo il nostro Rifugio. Prendere Rifugio nel Buddha è essere questa consapevolezza, in modo da vedere che quel che ha a che fare col corpo, le sensazioni, la personalità, l’età, la nazionalità, i problemi personali, i talenti, tutti questi non sono che attributi del mondo condizionato, che sorge e passa, e ne possiamo essere consapevoli. Il succo della pratica è dimorare costantemente nella qualità della consapevolezza. La vita sarà frustrante e dolorosa se cerchiamo la certezza e la definizione riguardo a essere una persona, un luogo, un essere nel tempo. Solo quando lasciamo andare il senso dell’io, di me e del mio, il senso di essere una persona qui che deve andare o non andare da qualche parte, solo allora c’è un chiaro dimorare nella consapevolezza.
La tendenza della mente è sovente quella di concettualizzare. Diciamo: “Va bene, sarò consapevole.” E lo prendiamo come un ideale e cerchiamo di riempire la mente con questo pensiero. Quel che allora accade è che il pensiero si trasforma in un oggetto, così anziché riposare nell’essere il conoscere, cerchiamo di vedere cos’è che conosce. Come diceva talvolta Ajahn Chah: “ Siete in groppa al cavallo e andate in cerca del cavallo.” Ci chiediamo: “Chi conosce il conoscitore?” “Chi conosce la cosa che conosce il conoscere?”
Si può avere l’impressione di un’infinita regressione, ed è come cadere all’indietro da una rupe. Ma non è così, perché accade che quando lasciamo andare il senso di identità, allora c’è solo il chiaro conoscere. La mente riposa nello stato luminoso, privo di sé, che conosce, che è senza tempo. E poi sorge l’idea: “Oh, c’è il conoscere.” Dunque, anziché riposare nel puro conoscere, ci attacchiamo al pensiero che c’è qualcosa che conosce. Ci fissiamo su quel pensiero e usciamo così nel mondo condizionato. Quando ci attacchiamo a un qualunque pensiero, ci allontaniamo dal senso del puro conoscere. Se c’è solo il puro conoscere, è come stare in piedi contro un muro. Non appena ci attacchiamo a un pensiero, ci allontaniamo dal muro. Usciamo nell’esperienza, nell’attaccamento a qualche condizione.
Se permettiamo alla mente di rilassarsi e riposare nel senso del conoscere, nella purezza dell’essere, allora c’è la liberazione, proprio in quel punto c’è la libertà. A quel punto, la mente è consapevole del senso di unità, delle cose come sono, c’è la visione unificante che nella terminologia cristiana è detta beatitudine. La visione di beatitudine è la visione della totalità, dell’interezza, la scomparsa di ogni separatezza. In questa realizzazione, non c’è sé, non ci sei tu con la verità ultima, c’è solo QUESTO, la mente nel suo puro stato risvegliato, il Dharma consapevole della sua natura.
All’inizio del diffondersi del buddhismo in America, negli anni ’50 e all’inizio dei ’60, ci fu un comune utilizzo di questo genere di comprensione, la gente affermava: “Ognuno è un Buddha”, “Siamo tutti Buddha”, “Ognuno è perfetto”. E questo, anziché creare persone dalla condotta di Buddha, che è modesta, gentile e contenuta, veniva piuttosto preso come una giustificazione della licenziosità. Qualsiasi cosa tu faccia, è perfetta, se sei sobrio è perfetto, ubriaco è perfetto, qualsiasi cosa tu abbia voglia di fare, di qualsiasi cosa tu senta l’ispirazione, è tutto vuoto. E’ tutto così com’è. Si può vedere come le persone che presero questo altissimo principio come una posizione fissa o un’identità a cui aggrapparsi non si fermarono all’idea, ma essa fu la causa della morte per alcool di alcune tra le più brillanti menti buddhiste della Beat Generation. Erano ispirati da un grande senso di libertà dello spirito, ma l’idea di tutti noi come Buddha e di ogni cosa come perfetta non è esattamente la stessa della realizzazione diretta. Quando la mente davvero riposa in questa realizzazione, quel che ne consegue è la purezza di condotta, la purezza di parola e di azione, la gentilezza, la volontà di non nuocere e la semplicità. La risposta del Buddha alla sua illuminazione, all’essere totalmente libero e al di là di qualsiasi sofferenza, non fu di seguire i piaceri fisici o di andare in cerca di intossicazioni. La sua risposta fu di vivere con grande attenzione e modestia, usando con frugalità dei prodotti della terra. Avrebbe potuto evocare qualsiasi cosa volesse, ma scelse di vivere come un rinunciante scalzo, un essere pacifico, che non fa male a nessuno.
Alcune tradizioni buddiste nel corso dei secoli sono rimaste incagliate in questo problema, laddove si sono attaccate a un principio e l’hanno preso come un’identità: “Sono un buddhista Mahayana” o “Sono un buddhista Theravada” o “Sono un buddhista Vajrayana”. E’ come indossare un distintivo che ci dà una certa credenziale, anziché vedere che i termini a cui facciamo riferimento sono atteggiamenti dell’essere. Per esempio, in Inghilterra, alla Buddhist Society Summer School, c’è un gruppo che si riunisce al pub per l’incontro serale, apparentemente perché “sono andati al di là della forma”. Quindi, tengono le discussioni di Dharma al pub, che va benissimo, sono liberi di fare quel che vogliono. I Theravada siedono intorno, chiacchierano e bevono tè. Ma si nota che l’atteggiamento generale è: “Bé, noi siamo del Supremo Veicolo. Non abbiamo bisogno di preoccuparci delle insignificanti preoccupazioni di sila, noi rispettiamo la natura ultima di Buddha di tutti gli esseri.” E si nota che molta della loro ispirazione e nobile energia è deviata nel giustificare la semplice qualità di una preferenza: che trovano piacevole farsi un bicchiere o due, folleggiare e vivere un momento senza restrizioni. Ancora una volta, sono liberi di fare quel che scelgono di fare, ma è un triste errore etichettarlo come pratica del Buddha-Dharma.
Il risultato del cercare di realizzare la vacuità in un modo di vivere sconsiderato è che ci assumiamo la sfida di dover realizzare la vacuità della disperazione e della depressione che deriva dal seguire questi desideri. Le persone sono libere di assumersi la sfida!!! Ma c’è una correlazione: non possiamo lasciarci assorbire dal piacere senza assumerne anche l’altra faccia. E’ come se ci tenessimo attaccati a una ruota mentre sale dalla parte del piacere e restassimo attaccati quando scende verso l’altro lato. Non lo dico con disapprovazione, avendo anch’io fatto un po’ lo stesso, capisco che non abbiamo la presenza mentale per lasciar andare quando si è in cima! E’ così che ci piacerebbe che fosse, ma le cose non stanno così.
All’inizio di un ritiro, tutti prendono Rifugi e Precetti. Quest’atto simbolico serve a rinfrescare l’aspirazione verso l’essere buddhisti, l’essere Buddha. Non si tratta di una cerimonia per diventare buddhisti, una sorta di battesimo. E’ più che altro un impegno a rinfrescare la nostra aspirazione all’interno di noi stessi. Esternamente, possiamo aderire a una forma, a una tradizione, a un modello, ma se non lo interiorizziamo, se non lo portiamo dentro di noi e non lo consideriamo il Buddha, Colui che conosce, lo scopo, allora qualsiasi dedizione esteriore a una particolare forma o tradizione non ci gioverà a lungo.
Un punto cruciale che tendiamo a non comprendere è la questione secondo cui, se non c’è un sé, se miriamo alla saggezza suprema, allora perché occuparsi di cose come irradiare Metta? Se non c’è nessuno qui e nemmeno là, allora perché preoccuparsi di inviare Metta per tutto l’universo? O la condivisione dei meriti: sappiamo che non c’è nessuno né qui né là, e dunque? Non faremmo meglio a conservare la nostra energia per qualcos’altro? E’ importante comprendere come i diversi livelli della nostra vita interagiscono, perché anche se in un certo momento possiamo vedere la vita dal livello della pura saggezza, dal luogo della consapevolezza senza tempo, senza spazio, senza sé, il resto del mondo non vede necessariamente le cose da quel punto di vista. Quel che la pratica buddhista offre è un modo di legare insieme tutti i diversi livelli del nostro essere.
Il Buddha usava forme convenzionali, usava i pronomi personali. Quando gli ponevano domande come: “Se non esiste un sé perché ti riferisci a te stesso come a un individuo? Perché parli ad altre persone, perché le nomini?”, il Buddha rispondeva: “Anche se fondamentalmente non c’è un sé, io uso il linguaggio comune per comunicare con le persone a un livello in cui mi possano intendere.” E’ dunque questo lo sforzo che facciamo quando parliamo di irradiare Metta, di creare buon karma o di condividere le benedizioni della nostra vita. Mettiamo il cuore nell’espandere la gentilezza amorevole. Lo facciamo.
Edifichiamo monasteri, ci sforziamo di creare opportunità e ambienti in cui le persone possano imparare. Insegniamo, offriamo guida, sostegno, istruzione. Ma avendo dato vita a queste forme, va poi dissolto ogni attaccamento ad esse. Portiamo principi sani ed energia nella vita delle persone, ma non diamo loro un senso di sostanzialità ultima. Vediamo che sono solo forme, aspetti, modelli di coscienza. I suoni che emetto, sono coscienza uditiva, suoni di cui siete tutti consapevoli. C’è un’espressione che definisce il Buddha il supremo tessitore di sogni allo scopo di svegliare i sognatori. I suoi insegnamenti, le sue parole e azioni sono un sistema di sogni. Hanno la sostanza dei sogni. Ma l’abilità del Buddha era di creare sogni che facessero risvegliare i sognatori, che ci conducessero dal mondo dei sogni alla vita reale, al mondo reale.
Ad esempio, per alcuni anni non ho avuto alcuna inclinazione per la pratica devozionale. “Anatta, questo è ciò che conta!” Ogni mattina e ogni sera, nel fare i canti tradizionali, li seguivo cercando di cantare in modo intonato, ma fondamentalmente sentivo che era senza scopo. Poi cominciai a capire che non ne coglievo lo spirito, se abbiamo retta comprensione, possiamo mettere questa energia nelle parole possiamo mettervi gentilezza e benevolenza, possiamo portare nel mondo cose utili ed efficaci, ma senza possederle, lasciandole essere così come sono, che è una grande arte e una grandissima benedizione. Si capisce perché il Buddha usasse quel modo di insegnare. Non lo fece per se stesso, ma per avvantaggiare chi sarebbe venuto dopo: forme, schemi, tradizioni, modi di vivere che aiutano a spronarci modi per incoraggiarci, per ispirarci a svegliarci, a spezzare le illusioni che ci vincolano, in modo che tutti possiamo sperimentare la vera gioia della liberazione.