del venerabile Ajahn Jayasaro
© Ass. Santacittarama, 2004. Tutti i diritti sono riservati.
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DA BAMBINO ERO AFFASCINATO DALLE RICERCHE: amavo i racconti di eroi greci che affrontano prove di tenacia e di ingegno alla ricerca di favolosi tesori, e i cavalieri della Tavola Rotonda alla ricerca del Santo Graal. Da adolescente, scoprii la visione buddhista della vita come ricerca spirituale. In un momento in cui i valori del mondo circostante mi sembravano vuoti e superficiali, l’affermazione del Buddha che aspirare alla liberazione da ignoranza e attaccamento è l’autentica Nobile Ricerca mi parve, allora come adesso, irrefutabile. Mi convinsi che qualunque sforzo umano estraneo alla Nobile Ricerca, per quanto valido sul piano convenzionale, fosse in ultima analisi futile.
Nella vita monastica assumiamo il ruolo di monaci buddhisti con le sue regole e la sua disciplina, non come una nuova identità, ma perché ci rendiamo conto che la ricerca a cui ci votiamo richiede un certo grado di struttura e di sostegno. Ogni ricerca degna di questo nome ci chiede di affrontare demoni, aggirare sabbie mobili e ignorare sirene. E possiamo farcela, con l’aiuto del Sangha e avendo fede nel valore della ricerca.
Fede è un termine impopolare in certi ambienti buddhisti occidentali, soprattutto per chi, rimasto scottato da un’educazione teistica, si è rivolto al Buddhismo perché più ‘scientifico’. A me personalmente questa parola piace, e trovo che ‘fiducia’, l’altra traduzione corrente del termine pali saddhá, sia troppo secolare. Comunque sia, a prescindere dalla traduzione, occorre innanzitutto prendere atto che è qualcosa di cui non si può fare a meno. Non si può provare che l’illuminazione esista, ma se non si ha fede in questa possibilità è improbabile che la pratica arrivi molto lontano. La fede chiarisce l’obiettivo, concentra i nostri sforzi e dona energia. E’ vero che nel nostro caso è la saggezza, non la fede, a smuovere le montagne; ma è la fede che in primo luogo ci stimola a farlo, e che ci sostiene negli inevitabili momenti di frustrazione che mortificano i nostri sforzi.
Ci sono tante cose che gli esseri umani possono cercare nella vita: sicurezza, ricchezza, potere, fama, rispetto, amore, immortalità e perfino l’annullamento. Molti passano la vita a cercare, senza mai aver chiaro cosa vogliono esattamente; l’unica cosa chiara è che, di qualunque cosa si tratti, non l’hanno ancora trovata. C’è chi abbandona la ricerca, chi si dà all’alcool o alle droghe, chi si fa prendere dall’amarezza e dal cinismo. Molti cercano esperienze di vetta, e affrontano cose fuori dal comune solo perché nessun altro le ha mai fatte prima di loro. Cercano la ‘sfida’, sono assetati di adrenalina. Vogliono essere diversi dalla massa. Tutti temono che la propria vita non abbia alcun significato.
Ma ogni esperienza – dal ripulire una tubatura intasata di capelli all’estasi sessuale a Shangrila – avviene all’interno della dimensione circoscritta e assai limitata di quelli che il Buddha chiamava áyatana, gli oggetti dei sensi. Vediamo come anche l’esperienza più esotica e inconcepibile di questo mondo non trascenda mai la sfera dei sensi. Per quanto denaro si possegga, per quanto abbondanti le gioie mondane, si resta pur sempre nella dimensione delle basi sensoriali. Per quanto sublime sia un’esperienza estetica, non è dato agli occhi di vedere una forma che sia niente di più che una forma. Una forma è semplicemente una forma. Appare e scompare. Non sa fare altro. Nulla di che, a ben pensarci. Il samsara non soddisfa la nostra sete di straordinario.
Quando capiamo che una forma è solo una forma, il suo contenuto comincia a perdere il potere di ammaliarci o irretirci, di deprimerci o indignarci. I suoni sono soltanto suoni. A prescindere da che suono sia, la sua natura è sempre la stessa: instabile e incostante, nulla di più. Il suono è solo suono. Gli odori sono soltanto odori. I sapori sono soltanto sapori. Le sensazioni fisiche sono solo sensazioni fisiche. I pensieri, gli umori, le emozioni sono solo quello che sono, e nulla di più: impermanenti, vuote e senza proprietario. Non si può godere e trattenere nessuno degli áyatanaper un lasso di tempo indefinito. E’ qui, io credo, che l’idea e l’intera logica della rinuncia diventa una questione di buon senso, anche se non comune. Cominciamo a sentirci stanchi di quel continuo correre e arrabattarci solo per poter fare esperienza di più forme, più suoni, più odori, più sapori, più sensazioni fisiche, più emozioni, pensieri e idee. Vi pare un modo soddisfacente di vivere l’esistenza umana? Il principe Siddharta, e innumerevoli donne e uomini dopo di lui, hanno intrapreso la ricerca spirituale nella convinzione che “dev’esserci qualcosa di più nella vita”.
Ma nel mondo la norma è seguire il desiderio sensoriale. L’obiettivo è godere di un certo tipo di sensazioni ed evitarne altre. Più esperienze si hanno, più ricca viene considerata la vita. L’intensità e la passione sono viste come traguardi. Fin da giovanissimi assorbiamo l’idea che l’amore romantico sia il vertice dell’appagamento; la poesia, i romanzi, la televisione, i film, sono tutti d’accordo. Di solito si pensa che la libertà abbia a che fare con il consumo: più denaro abbiamo, più scelta di ripieni per il nostro panino, più ci consideriamo liberi. Perfino il mercato finanziario viene definito ‘libero’.
Nella vita monastica, d’altro canto, siamo disposti a osservare attentamente tutto, per capire come stanno le cose veramente. Il nostro ruolo nel mondo è quello di prendere una certa distanza dai ritmi pressanti del mondo per esplorare e comprendere la natura dell’esistenza. E lo facciamo consapevoli che non si tratta di una ricerca puramente intellettuale. Il successo dipenderà in gran parte dalla nostra integrità morale e maturità emotiva. Nello scoprire la verità, non si tratta di aderire a quello che troviamo scritto sui libri buddhisti, ma di usare questi insegnamenti come ipotesi di lavoro. Ci sembra che siano in grado di dare una spiegazione adeguata ed esauriente dell’esperienza umana? Con gli efficaci strumenti di sati,samádhi e paññá impariamo a vedere la verità così com’è.
Quel che il Buddha ci ha offerto è un insegnamento che ci apre gli occhi alla vita e all’esperienza. Ci poniamo domande come: “Cos’è questo? E io cosa sono? Cos’è questa vita, questo corpo, questa mente?” E l’umile riconoscimento che non sappiamo è il motore della nostra indagine. Riponiamo la nostra fede in un’indagine che ci conduca all’esperienza diretta della verità. Ajahn Chah usava l’immagine dell’uccello che si sveglia e si accorge di essere in gabbia. Non importa com’è la gabbia, se anche fosse una gabbia d’oro squisitamente decorata, quando l’uccello capisce cos’è una gabbia e che la libertà sta fuori, non può più accontentarsi del vecchio modo di vivere.
Abbracciamo la vita spirituale per liberarci dai confini della gabbia. La nostra via, il nostro modo di vivere come samana, può aver senso e valore solo alla luce di un’aspirazione alla trascendenza. Dobbiamo credere alla visione di una libertà che sta oltre i legami e gli attaccamenti fondati sull’identità personale. Questa libertà deriva dal comprendere fino in fondo, attimo per attimo, la natura e i meccanismi della schiavitù. Pratichiamo per capire la natura dei cinque khandha e dei sei áyatana.
La ragione per cui l’attaccamento alle forme, ai suoni, agli odori e a tutti gli áyatana è così ingannevole è molto semplice: sono cose che non durano. Oggi sono andato trovare una nostra sostenitrice laica, Mae Jorm, che è in ospedale. Il cancro ha raggiunto uno stadio per cui lei non ha più la forza nemmeno di buttar giù un sorso d’acqua. Aveva la gola secca e una voglia pazza di bere, ma quando gli versavamo in bocca dell’acqua non riusciva a deglutirla. Cominciava a colarle giù da un angolo della bocca. Era così penoso guardarla. L’attività del suo corpo e dei suoi organi sensoriali sta cessando. Conosco quella donna fin da quando ero novizio, e presto sarà morta.
Gli occhi ci lasciano, le orecchie ci lasciano, e anche se le forme sono sempre là è come se per noi non ci fossero più. I suoni c’erano prima che nascessimo e ci saranno quando saremo morti. Nessuno ha mai trovato la libertà contemplando cose belle. Nessuno ha raggiunto la liberazione, la libertà dal circolo vizioso di nascita e morte ascoltando bella musica o udendo bei suoni. Queste cose possono darci un po’ di pace, ma manca l’autentica saggezza. E’ solo un modo per raffinare la qualità della nostra distrazione.
Attraverso la fede e una fiducia di fondo negli insegnamenti del Buddha pregustiamo una libertà che intuiamo presente e realizzabile. E’ possibile. C’è speranza. C’è una via. Ma fin quando c’è attaccamento ai cinque khandha, fin quando ci si aggrappa al piacere che il corpo fisico può offrire, al piacere delle sensazioni, delle percezioni, di pensieri, idee, emozioni e coscienza sensoriale, allora si ha ancora il piacere di dukkha. Il Buddha lo ha detto chiaramente: l’attaccamento ai cinque khandha è attaccamento adukkha. E attaccandosi a dukkha non ci si può liberare da dukkha.
Quindi in realtà non c’è nulla da raggiungere – nulla di nuovo, quanto meno. Ovunque andiamo, restiamo sempre nello stesso posto. Un posto dove ci sono forme, suoni, odori, sapori, sensazioni fisiche e eventi mentali. Tutto qui. Abbiamo già visto tutto quel che c’è da vedere. Che camminiamo in una valle himalayana incontaminata o ci accalchiamo nella folla di una minacciosa città, il lavoro da fare è lo stesso. Possiamo vedere la verità delle cose ovunque. Certo, alcuni ambienti sono più adatti di altri – ecco perché il Buddha istituì monasteri e un ordine monastico – eppure ovunque siamo, in qualsiasi posizione ci troviamo, possiamo coltivare la consapevolezza, accendendo la luce interiore.
Cerchiamo di apprendere dall’esperienza, qualunque essa sia, imparando a vedere le cose come dhamma invece che come ‘questa persona’, ‘quella persona’, o come ‘questo e quello’. Ci applichiamo costantemente al processo di decondizionamento e rieducazione. Fermiamo la degenerazione. Ricominciando daccapo ogni volta. Con infinita pazienza. Fino a che il lavoro sarà compiuto.
Data la fede nella perfetta illuminazione del Buddha, la fiducia che gli insegnamenti che egli condivise con esseri umani e deva per quarantacinque anni siano veritieri, e la convinzione che gli ariya sávaka siano veramente giunti al cuore di questi insegnamenti, ne discende che ciascuno di noi, di qualunque provenienza sia, ovunque sia nato, qualunque lingua parli, uomo o donna, giovane o vecchio, ha in se stesso la capacità di realizzare la verità. Gli esseri umani possono raggiungere il risveglio, possono realizzare ilnibbána, perché siamo come pesci nell’acqua: come potrebbe il pesce non capire che cos’è l’acqua? E’ tutto intorno a noi, dentro di noi. Tutto quello che dobbiamo fare è imparare ad aprire gli occhi.
Eppure è comune tra i praticanti buddhisti rendersi conto che un forte sentimento di saddhá – ossia di fede nel Buddha, nelDhamma e nel Sangha – e una profonda fiducia negli insegnamenti del Buddha, non sempre si accompagnano a una fede altrettanto forte nella propria capacità di realizzare la verità. Eppure se non abbiamo fede in noi stessi i cinque indriya non possono maturare. Questa sfiducia nel nostro potenziale di illuminazione ci tarpa le ali e ci porta fuori strada. Dubitiamo perché abbiamo una concezione sbagliata di noi stessi. Inghiottire il mito di un ‘io’ indipendente ci procura un’indigestione spirituale.
Non possiamo costringerci ad avere fede, e non c’è bisogno di farlo. Dobbiamo solo abbandonare le idee errate che ostacolano la fede, e cominciare a fare più attenzione alla nostra esperienza.
La nostra tradizione fa un’importante distinzione tra due livelli di verità, quella convenzionale e quella assoluta. La verità convenzionale si riferisce alla dimensione fenomenica, condizionata, o relativa: a questo livello ha senso parlare in termini di ‘io’, ‘esseri umani’, ‘monasteri’ e ‘ordini monastici’. Per ‘verità assoluta’ si intende le cose così come sono, non mediate da concetti e preferenze. Questa dimensione trascende il linguaggio e il pensiero. La persona saggia usa le verità convenzionali per comunicare, senza però lasciarsi ingannare. Se si capisce questa differenza, si chiariscono anche certi insegnamenti buddhisti che altrimenti risulterebbero enigmatici. In particolare quelli che riguardano il ‘sé’.
Appartengono al livello convenzionale, ad esempio, i vari riferimenti a un sé che troviamo nei Sutta – come quello famoso che esorta a prendere rifugio in se stessi e le istruzioni sui vari modi di coltivare il proprio sé. Non sono in contraddizione con la verità ‘assoluta’ di anattá. L’insegnamento circa l’anattá non implica che il Buddha rifiutasse il ‘sé’ a un livello convenzionale, ci ricorda semplicemente di non confondere un’utile finzione sociale con la realtà ultima. Non vi è un io indipendente, eterno, un centro immoto dell’esperienza o un’anima individuata, un’identità personale separata come spesso pensiamo. Per quanto osserviamo accuratamente non riusciamo a trovare ‘chi’ agisce, pensa, fa, o trasmigra da una vita all’altra. Ma un ‘io’ convenzionale c’è. Come dice un maestro: “C’è un io, solo che non è permanente”.
Il nostro scoraggiamento riguardo alla pratica deriva spesso dallo sforzo di immaginare come questo ‘io’ circoscritto potrebbe realizzare l’assoluto. Come fa un ‘io’ limitato a realizzare l’illimitato? Avendo posto una domanda fondata su presupposti errati (la realtà dell’io) giungiamo naturalmente a una risposta errata: “No, non vedo proprio come sia possibile realizzare ilnibbána“. In altre parole, come potrebbe questo povero piccolo ‘me’ raggiungere una cosa tanto stupenda? La distanza sembra enorme.
Come può questa persona realizzare la verità? E’ proprio qui il punto, non vi pare? No che non può. Questa ‘persona’ non realizza la verità. Piuttosto, la verità si rivela quando si comprende che cos’è questa ‘persona’.
La comprensione della terza nobile verità porta alla manifestazione, alla rivelazione del nibbána. Consiste, nelle parole del Buddha, nel “rimettere dritto qualcosa che era stato rovesciato”. E’ come “una luce che brilla nelle tenebre”. Non si crea nulla di nuovo, c’è una radicale ridefinizione dell’esperienza e il riconoscimento di qualcosa che era lì da sempre. L’elemento senza morte è anche senza nascita. Non è qualcosa che viene portato all’esistenza. Piuttosto, viene a cadere ciò che lo copriva o lo schermava. Non appena afferriamo questa idea, siamo pervasi da una nuova energia. Capiamo che ogni nostro senso di inadeguatezza si fonda sull’attaccamento a un sé convenzionale come se fosse una realtà assoluta. In quel momento il nostro impegno e la nostra energia, la nostra costanza nella pratica, si rafforzano molto, e quel dubbio insidioso circa la nostra capacità di percorrere il sentiero fino in fondo si dilegua, a volte all’istante. Cominciamo a dare quel che occorre.
Se nascono dubbi nella pratica, indagate lo scoraggiamento, l’incertezza e l’esitazione in quanto stati mentali. Osservate quando si presentano domande come: “Riuscirò mai a raggiungere lo stesso livello di Ajahn Chah o Ajahn Man e tutti quei grandi maestri?”. Insistendo su ‘me’ e la ‘mia’ storia personale, sulle ‘mie’ mancanze e peculiarità, il solo pensiero di poter essere alla pari con monaci di quel livello appare ridicolo. Ma l’essenza della pratica non sta – che sollievo! – nel graduale perfezionamento della personalità e del carattere; sta nella comprensione di carattere e personalità come fenomeni condizionati. Certo, tendenze non salutari come l’egoismo, l’invidia, l’ansia e via dicendo inevitabilmente si indeboliscono grazie alla pratica; ma l’idea non è cercare di trasformarsi in qualcosa di nuovo e ‘più spirituale’. Carattere e personalità non sono e non sono mai stati la nostra vera identità. Non sono il sé. Non sono qualcosa di reale in senso assoluto. Quindi dobbiamo imparare a guardarci dall’idea di diventare un essere illuminato. Altrimenti quando ci chiediamo: “L’illuminazione è davvero possibile per me?”, “Non sarà forse arroganza, ambizione, materialismo spirituale?”, potremmo decidere “no, non io”, e dare una falsa dignità a quell’opinione sbagliata chiamandola umiltà.
L’asmimána (la sottile nozione di “Io sono”) è il nocciolo del problema, il guastafeste, la mosca nel minestrone cosmico. E’ la cosa più difficile da smascherare, perché la preconcezione di un io è la base su cui gli esseri non illuminati fondano la propria intera visione del mondo. L’esistenza di un ‘io’ indipendente e autonomo sembra ovvia, tutti la danno per scontata, è un fatto intuitivo. Ecco perché è così duro affrontare i fatti della vita – nascita, vecchiaia, malattia e morte – le vediamo come cose che capitano ‘a me’. E’ il ‘mio’ dilemma, il ‘mio’ problema. ‘Io’ sono nato, ‘io’ sto invecchiando e ‘io’ morirò. Se conoscete la lingua Thai sapete che la parola samkan significa ‘importante’. Ma a volte il termine viene usato con funzione di verbo: ‘samkan tua‘ significa ‘darsi importanza’. E ci diamo importanza in così tanti modi. Non solo con l’arroganza e l’orgoglio, ma anche con l’umiltà. Con l’essere qualcosa, in generale. Lo vediamo chiaramente quando ci confrontiamo con gli altri, considerandoci migliori, uguali, peggiori e via dicendo. Ecco dove ‘samkan tua‘, dove teniamo in piedi il mito dell’io nella forma più ovvia. Il Buddha disse che la pratica per contrastare o minare direttamente asmimána è aniccá saññá, la contemplazione o il costante ricordo della transitorietà e del mutamento. L’investigazione dell’impermanenza e dell’incostanza dei fenomeni ci permette di vedere che ciò che abbiamo sempre ritenuto qualcosa di solido non è solido affatto; ciò che crediamo permanente non è affatto permanente. Questo ‘io’ solido che fa le cose, ha avuto certe esperienze, conosce alti e bassi, non è affatto un’entità coerente. Se prendete una candela o una torcia e la fate ruotare velocemente in cerchio avete l’illusione che ci sia un cerchio di luce concreto. Ma in realtà non c’è nulla del genere. Lo stesso vale per la nostra indagine della mente e dei cinquekhandha. Con la pratica, essendo pienamente consapevoli e vigili nel momento presente, la verità del cambiamento si palesa da sé. La presenza mentale rallenta le cose, se non altro a un livello soggettivo. All’improvviso, abbiamo tempo. Ci sono pause. La sensazione che le cose non si muovano più così rapidamente. E con quella consapevolezza penetrante e quella presenza mentale c’è l’opportunità di indagare e notare che le cose sorgono e cessano. Il sorgere e cessare dei cinque khandha può essere visto in quanto verità semplice e impersonale. Conosciamo la coscienza semplicemente in quanto tale, senza bisogno di aggiungere nulla. Con la presenza mentale e la saggezza non creiamo più grosse storie attorno alle cose. Viviamo gli episodi della nostra vita più come haiku che come scene di un complesso e avvincente romanzo autobiografico.
La fede è ciò che ci fa andare avanti nei momenti difficili. La fede e la tenacia. Gli esseri umani in condizioni estreme sanno mostrare una tenacia incredibile – i prigionieri di guerra sul Treno della Morte in Kanchanaburi durante la Seconda Guerra Mondiale sono un buon esempio – ma il fatto che sopravvivano ai maltrattamenti e alle privazioni spesso sembra dipendere più dalla volontà che dalla capacità di sopportare. Quelli che non vedono il motivo o il valore della tenacia sono alienati dalle proprie risorse interiori, e muoiono. Perdono la volontà di vivere – perdono la fede, potremmo dire. Nella vita spirituale, la capacità di persistere malgrado gli alti e bassi, le notti oscure, i deserti e le paludi dello scoraggiamento, dipende dalla volontà di farlo. E se ne abbiamo la volontà è perché crediamo che ne valga la pena. Questa è la fede.
Il Buddha criticò aspramente la fede cieca di tipo dogmatico. Insegnò una fede che prevede l’esercizio delle facoltà critiche e non pretende di essere più di quello che è. Fece presente che è possibile avere una fede incrollabile in qualcosa ed essere del tutto fuori strada. La forza del sentimento non è una prova. Ci ammonì a prendere gli insegnamenti come ipotesi di lavoro e sottoporli al vaglio dell’esperienza. Osservatevi, e osservate il mondo che vi circonda. Molti anni fa ebbi una piccola esperienza mistica che fece crescere la mia fede nella possibilità di un cambiamento radicale di vita. Non si trattò di una prova intellettuale di quella possibilità, ma di un’esperienza il cui profondo impatto emotivo si fa ancora sentire.
Mi trovavo ad attraversare in autobus una vastissima area desertica. Il viaggio sarebbe durato dalle quindici alle venti ore e non c’era nulla da vedere ai due lati dell’autobus, solo sabbia e rocce. Ero nella mia tarda adolescenza, in una fase di notevole scontentezza. Avevo praticato la meditazione in India, e mi pareva di cominciare a notare qualche progresso. Ma poi dovetti partire per mancanza di soldi. Durante il viaggio di ritorno in Occidente e le mie molte avventure mi accompagnava la sensazione di aver sprecato una preziosa occasione. Di aver perduto qualcosa. Dunque stavo viaggiando attraverso questo deserto apparentemente interminabile, e se guardavo dal finestrino non vedevo altro che sabbia e rocce dappertutto. Ricordo che pensai: “Proprio come me, solo sabbia e rocce, a perdita d’occhio…” Ogni volta che guardavo dal finestrino questo pensiero si riaffacciava: “Eccomi qui, sabbia e rocce”. A un certo punto devo essermi addormentato.
Durante la notte capitò un fatto piuttosto insolito. Scoppiò un temporale nel deserto. Quando ripresi coscienza sentii subito che l’aria si era rinfrescata. Guardai dal finestrino e non potei credere ai miei occhi. Per tutto il deserto e sugli spuntoni di roccia c’erano fiori stupendi, una profusione di corolle dai colori sgargianti, gialle, malva e turchese! Mi sembrò un miracolo. Come potevano esserci fiori in un luogo del genere? Da dove erano venuti? Solo poche ore prima, solo interminabili distese di rocce e sabbia. E ora splendidi fiori selvatici dappertutto! Non erano fiori grandi, erano piuttosto piccini, ma fiorivano così all’improvviso. E in quel mio stato d’animo già predisposto alla metafora pensai: “Ho tutti quei piccoli fiori nel mio cuore, riposano nella mia mente, hanno solo bisogno di un po’ di pioggia”. E a quel pensiero la faccia mi si allargò in un sorriso: “Sì, posso farcela”.
Anche nel deserto nascono fiori. Anche quando la mente si sente arida, opaca e senza vitalità, se continuiamo a praticare, continuiamo a coltivare i cinque indriya, a irrorarla con l’acqua del Dhamma, della presenza mentale, della chiara comprensione e dello sforzo sincero, applicando abilmente tutti i meravigliosi insegnamenti del Buddha che abbiamo imparato, possiamo creare vitalità e bellezza nella mente. C’è sempre un modo per andare avanti. C’è sempre una via alla pace. Questa è la speranza che il Buddha ci ha trasmesso. Tutte le condizioni mentali non sono altro che condizioni. E le condizioni cambiano. Possiamo influire sulla natura di quel cambiamento vedendo la vita per quella che è, vivendola con saggezza grazie allo studio e alla pratica delDhamma.
Sul sentiero, alla ricerca della verità, accanto a saddhá , vedendone il valore, nasce viriya, un’energia indipendente dai sentimenti passeggeri di ispirazione, depressione, piacere, dispiacere e felicità – sentimenti che non sono estranei, ma parte integrante della ricerca. La pratica consiste nel coltivare il giusto e saggio approccio alla pratica, senza prendere troppo sul serio quei sentimenti – e senza prendere troppo sul serio la persona che sembra farne esperienza.
Praticamente, sono sati e samádhi che ci consentono di vedere con chiarezza. La meditazione samatha, che implica la concentrazione su un oggetto, è di fatto una forma di meditazione di consapevolezza. Consiste nell’allenare la nostra attenzione a restare in contatto continuativamente con un oggetto, come ad esempio il respiro. La consapevolezza del respiro è stata chiamata la regina o il diadema degli oggetti di meditazione, perché può servire sia come mezzo per calmare la mente sia per la comprensione diretta di aniccá, dukkha e anattá. Coltivando l’impressione che il respiro sia più importante, più interessante e affascinante di qualunque altra cosa al mondo, la nostra pratica progredisce. Generiamo una profonda fede nella capacità della consapevolezza del respiro di condurci alla liberazione. Questa fede dona energia alla mente.
Quando la mente si calma, notate come i vostri atteggiamenti e valori cambiano. Vi rendete conto che imbottire la mente di fantasie e pensieri è inutile, che indugiare in forme anche sottili di rabbia, malevolenza o avidità è doloroso e futile. Che ricercare in lungo e in largo esperienze sensoriali piacevoli è umiliante e inconcludente. Vi stupite di non averci pensato prima a cercare la libertà da queste trappole. Il samádhi, ossia la pace e felicità profonde della mente, porta con sé una logica completamente diversa da quella della mente agitata. All’improvviso pensiamo con tristezza a quante volte abbiamo lasciato la mente alla mercé degli impedimenti. Quanto tempo sprecato! Vi chiedete: “Come potevo essere tanto sciocco?” Per la mente in pace solo la pace ha senso.
La mente che ha la stabilità del samádhi perde le sue reazioni abituali agli oggetti, ossia il correre verso il piacevole e rifuggire lo spiacevole. Senza samádhi la mente non ha una casa. Non ha una dimora, un luogo dove ha piacere di stare. Perciò, posta di fronte ai vari oggetti, la mente si affretta ad avvicinarsi al piacevole, allontanarsi dallo spiacevole ed esitare attorno al neutro, indecisa sul da farsi. La pace mentale ha l’effetto di calmare questo processo. All’improvviso è come se la mente fosse anche troppo contenta: non si degna neppure di dare tanta importanza a questo e a quello. La mente in samádhi è felice di essere esattamente dov’è, a casa.
Ma la mente non resta tranquilla a lungo. La coscienza del valore del samádhi può andare perduta. Quando siamo sotto l’influenza degli impedimenti, il samádhi sembra una cosa remota. Gli insegnamenti sulla quiete interiore sembrano solo belle parole e la pratica manca del tutto di mordente. Ci ritroviamo magari a evitare la meditazione, anche se in fondo ancora ne desideriamo i frutti. Ma poi, se siamo disposti ad andare controcorrente, quando la mente comincia ad acquietarsi e sati e sampajañña prendono forza, quei pensieri negativi appaiono di nuovo sciocchi. La pacificazione e chiarificazione dell’intrinseco potere della mente sembrano l’unica cosa sensata da fare. Vediamo quanto le nostre idee sulla vita dipendano strettamente dallo stato in cui siamo.
Se la mente si rallegra del suo oggetto, se lo sceglie volentieri, allora la natura intrinsecamente serena della mente diventa palese. Il meditante fa esperienza di chiarezza, trasparenza, luminosità e purezza; entra in rapporto con la forza, la determinazione e la stabilità della mente concentrata. Allo stesso tempo, il samádhi ci fa sperimentare la flessibilità, l’agilità e la duttilità della mente. Sembra una contraddizione in termini, vero? Com’è possibile? Come può la mente essere stabile, risoluta e irremovibile e al tempo stesso flessibile e duttile? Ma in fondo perché no? Non è mica un teorema logico. E’ paccattam, esperienza diretta e personale.
La pratica del samádhi offre un primo assaggio dei tesori del mondo interiore. Ci porta alle soglie del meraviglioso, di qualcosa che solo pochi hanno sperimentato. Qui la mente comincia a intuire la portata del proprio potere e potenziale, e ciò la riempie di entusiasmo. Il meditante vede quanto insoddisfacente e superficiale sia l’ordinaria coscienza sensoriale, un po’ come se gli esseri umani cercando l’acqua continuassero a pattinare su una superficie di ghiaccio sporco senza accorgersi della fresca limpida corrente che gli scorre sotto i piedi.
A questo punto, quando sati e samádhi riempiono la mente, si può applicare la forza della consapevolezza investigante. La mente, in armonia con la propria natura, si muoverà spontaneamente verso gli oggetti da investigare e contemplare. La mente che emerge dalsamádhi è naturalmente pronta all’emergere di paññá. Quel che appare chiaro alla luce di paññá è la sostanziale uguaglianza di ogni aspetto dell’esperienza, di tutto ciò che possiamo percepire e concepire. Accediamo a un piano di egualitaria serenità. Tutto fa esattamente la stessa cosa: sorge e poi passa. Per la prima volta la natura dell’esperienza ha di gran lunga più peso dei suoi contenuti. Compiamo un rivoluzionario passaggio dall’ossessione circa il contenuto dell’esperienza alla serena, obiettiva valutazione del processo o della fisionomia dell’esperienza: il suo sorgere e passare. E’ qui, con la visione diretta e la comprensione di questo processo che asmimána – la credenza in un sé che agita lo stendardo dell’io-mio – comincia a perdere terreno.
A mano a mano che progrediamo lungo il sentiero, cominciamo a capire che la nostra crescita come esseri umani consiste in gran parte nella graduale maturazione della nostra idea di felicità. La felicità sempre più profonda e sottile che incontriamo coltivando i cinque indriya – saddhá, viriya, sati, samádhi e paññá – spesso non è visibile agli altri, specialmente a chi non pratica. E’ una felicità che non si può possedere e non dipende dagli áyatana, eppure sono qualità che nutrono veramente il cuore umano. Ma se ci ritroviamo bloccati in quella terra di nessuno dove abbiamo già rinunciato a certe forme più grossolane di gratificazione sensoriale, senza però avere ancora accesso ai piaceri e alle gioie più elevate e sottili del sentiero spirituale, allora è il momento di avere molta pazienza e riporre la nostra fede nel Buddha.
Anche se non ritengo di mancare di spirito critico, in questi vent’anni e più dedicati a studiare e praticare gli insegnamenti del Buddha al meglio delle mie capacità non ne ho ancora incontrato uno che sarei in grado di confutare. Ciò mi dà molta fede in quegli aspetti del Dhamma che ancora devo verificare. E’ come una mappa. Se la mappa è risultata affidabile per una parte del percorso, sembra improbabile che si riveli fallace nella parte restante. Il Buddha insegna che la pratica del Dhamma dona felicità al cuore dell’uomo. Noi gli diamo fiducia non minimizzando i nostri dubbi, ma mettendoci in gioco personalmente. La fede non implica la mera accettazione di una filosofia. La fede buddhista è una fede nel fare. E’ fiducia nelle nostre capacità, convinzione nel nostro potenziale: cose che si possono mettere alla prova. La pratica quotidiana può sembrarci a volte poco più che un trascinarci a fatica fra mille ostacoli; ma la fede rende adamantini il nostro sforzo e la nostra sincerità di fondo. Alla fine, è certo che arriveremo alla meta.