Insegnamenti

Esperienze monastiche di un buddhista occidentale

del venerabile Ajahn Amaro

© Ass. Santacittarama, 2009. Tutti i diritti sono riservati.
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Traduzione di Maria Angela Falà

Riprendiamo questa intervista da Inquiring Mind (autunno 1995, poi in italiano in Paramita, n° 58). Ajahn Amaro stava per trasferirsi in California a Redwood Valley di Mendocino County, dove c’è adesso un monastero theravada ‘della foresta’ (www.abhayagiri.org ) su un terreno donato dal monaco fondatore della Città-dei-Diecimila-Buddha, il maestro cinese Master Hua, in quei tempi appena scomparso.

 

Cosa pensa dell’insegnamento del Dharma e della pratica della meditazione come vengono proposti in Occidente?

In Occidente le persone tendono a separare la pratica meditativa dalla vita di ogni giorno. Ajahn Chah poneva l’accento sul fatto che “se avete tempo per respirare, avete tempo per meditare”. Quando camminate respirate, quando state in piedi respirate, quando state distesi respirate. Penso che in Occidente parte del problema risieda nella grande enfasi che si pone sui ritiri. Se si seguono molti ritiri intensivi, si sviluppa certo una forte concentrazione. Molti di quelli che ho incontrato in America hanno seguito ritiri per 15 o 20 anni e sono realmente capaci di ottenere un buon livello di concentrazione; ma, e mi dispiace, non hanno trovato molta libertà.

Notate come la parole ‘sedersi’ sia diventato un sinonimo per meditazione o pratica del Dharma. Sedersi è un termine operativo, significa: “Sono qui ora sul mio cuscino, i miei occhi sono chiusi, il mondo si è dissolto nella vacuità”. Abbiamo appreso come concentrare la mente e come far uscire le irritazioni mondane e le responsabilità. Creiamo un grande spazio dentro di noi e siamo molto abili a liberarci dai pensieri e dalle sensazioni. La meditazione sembra quasi come trovarsi in un poligono di tiro con delle piccole anatre. Potete diventare dei grandi tiratori o tiratrici, colpire i pensieri ‘anatra’ e le sensazioni ‘anatra’.

Questa enfasi posta sui ritiri è tipica dell’Occidente o è stata importata dalla tradizione asiatica?

Una delle ragioni per questa enfasi sui ritiri, almeno nei gruppi vipassana, e dovuta al sistema asiatico che ha incoraggiato molti dei nostri insegnanti e stili di pratica. Goenka e i discepoli di Mahasi Sayadaw pongono l’accento su ritiri estremamente strutturali come primo passo per la pratica. Ritiri, ritiri, ritiri. Questi insegnanti hanno avuto una grande influenza e hanno aiutato decine di migliaia di persone; ma penso che il loro stile abbia condotto a questo squilibrio, all’insana separazione tra vita e ritiri.

Certamente, se per vent’anni seguite dei ritiri, potete crearvi un grandissimo spazio interiore. Può però diventare quasi come uno stato di polizia: potete solo ripulire le strade dagli abitanti indisciplinati della vostra mente; ma, mentre state per buttarli tutti fuori, dei guerriglieri potrebbero essere ancora sotterraneamente attivi. Per questo quando lasciate un ritiro cominciate a sentire la vita ordinaria difficile e turbolenta. E allora aspettate di cominciare il prossimo ritiro. Parlo in modo molto generale e forse esagerando un po’, ma penso di descrivere un modello che molti lettori possono riconoscere.

Ajahn Chah e i maestri della foresta al contrario non enfatizzavano i ritiri e dava no eguale importanza alla comunità e alla vita quotidiana.

Ajahn Chah voleva che facessimo periodi di pratica intensiva, ma dovevamo ugualmente uscire per la questua al mattino e fare i lavori consueti nel monastero. Per cui anche il tempo della pratica formale intensiva non era separato dalla vita e totalmente privato dagli stimoli quotidiana.

Quando vi concentrate a creare uno spazio interiore chiaro e soggettivo, la vostra vita è costruita intorno ad esso cercando di essere in quello spazio con il minor numero di distrazioni possibili. Quello spazio diventa la controparte del mondo esterno. Anche se possediamo una grande chiarezza mentale ed esperienze di superamento del sé in quello spazio, quegli stati esistono in contrapposizione alla famiglia, alla società e al mondo fenomenico e fisico. Perdiamo metà del quadro. Inoltre la nostra pace e la felicità dipendono completamente da alcune condizioni.

Recentemente ho riflettuto sulla storia dell’illuminazione del Buddha proprio sulla base di questa affermazione. Nel corso della notte, come si racconta, il futuro Buddha fece voto di non alzarsi finché non avesse ottenuto la completa illuminazione. Il Signore dell’Illusione, Mara, cercò di disturbare la sua meditazione con immagini paurose e sensuali, ma senza successo. Alla fine della notte la realizzazione della verità da parte del Buddha fu completa, ma, sebbene avesse conseguito il risveglio, le armate di Mara gli stavano ancora intorno.

Allora Mara gli chiese: “Quale diritto hai di pensare di avere ottenuto L’illuminazione?”. Il Buddha, allungando la mano e toccando la terra, invocò la Madre Terra che apparve e disse: “Questo è mio figlio che ha compiuto tutto ciò che c’è da compiere per affermare di avere conseguito l’illuminazione. Egli è il Sommo Risvegliato”. Dai suoi capelli produsse un gran flusso d’acqua che spazio via le armate di Mara, che ritornarono portando fiori e altre offerte.

Penso che la storia ci dica che se la nostra liberazione è semplicemente un’esperienza soggettiva, mentale e interiore, allora siamo solo a mezza cottura. La saggezza deve fuoriuscire nel mondo. Anche il Buddha ha dovuto compiere un gesto di umiltà e chiedere la benedizione della terra. Per distruggere le armate di Mara completamente, dobbiamo aprire gli occhi e proiettarci fuori dallo stato beato di pace interiore. Perché la liberazione posse essere compiuta, dobbiamo toccare la terra.

Che cosa l’ha spinta a diventare un monaco buddhista?

Quando visitai per la prima volta il monastero di Ajahn Chah in Thailandia, trovai un gruppo di occidentali come me, con un vissuto simile, che stava vivendo nella foresta praticando la meditazione buddhista e mi sembravano molto contenti.

Quando spiegavano come vivevano e quali erano le basi della loro pratica, questo aveva senso per me. Prima pensavo che la libertà derivasse dal non avere regole o limiti. In realtà non mi ero mai posto il problema se tale premessa fosse vera, anche se cercare di vivere in quel modo era stato doloroso e difficile. I monaci mi suggerirono di cercare la libertà dove poteva essere realmente trovata. Sottolinearono che il mondo materiale è pieno di limiti e che non si può cercare ciò che è illimitato in un mondo in cui si trovano limitazioni. Spiegavano che vivendo una vita disciplinata, semplice e pacifica, si può scoprire la vera libertà che sta dentro di noi. Udite queste parole, la mia reazione fu: “Come ho potuto essere così stupido?”. Mi sentii nello stesso tempo confuso e sollevato.

La vita monastica è venuta meno alle sue aspettative?

Per niente. Anche se l’ultima cosa che avrei pianificato per me sarebbe state una vita da celibe e di rinuncia, ciò che ho scoperto è stato un nuovo piacere nella semplicità e la soddisfazione profonda che proviene dal non cercare attivamente la soddisfazione. E’ strano, ma dolcemente ironico, che nel monastero io abbia trovato proprio quel piacere che così rabbiosamente cercavo fuori del monastero. Sembra quasi di aver perso tutto, ma l’esperienza interiore è uno dei grandi piaceri. La vita del monaco è una festa! Quando sono stato ordinato per la prima volta, ero solito pensare: “Non mi merito questo”; oppure: “Non la farò franca per molto”.

Ci sono delle particolari difficoltà che si incontrano ad essere monaci buddhisti in Occidente? Come vi sentite quando girate vestiti con la tonaca nella nostra società?

Mi è sempre parsa la cosa più normale del mondo. Penso che a diversi livelli tutti ci sentiamo come degli emarginati nel mondo. Tutti ci sentiamo un po’ diversi dagli altri in un modo o in un altro ed essere vestiti come monaci buddhisti in Occidente e solo un’altra forma di differenza.

Inoltre, anche se siamo monaci o monache buddhisti, siamo diversi solo quando siamo fuori del monastero, dentro il monastero è normale avere la testa rasata e indossare la tonaca gialla. Le donne hanno la testa rasata e gli uomini hanno la gonna.

Vivere facendo parte di una comunità monastica buddhista: sta in questo la differenza, che siate in Occidente o in Oriente. Ajahn Chah enfatizzava sempre il Sangha, la comunità, come un metodo di pratica in se stessa. Non si trattava solo di vivere con un pugno di altri uomini per praticare la meditazione. La vita nella comunità monastica è essa stessa un metodo di pratica e un metodo di liberazione. Sebbene Ajahn Chah insegnasse delle tecniche di meditazione individuali, sottolineava continuamente l’importanza della comunità. Penso che questa sia una delle ragioni per cui le nostre comunità hanno avuto un così grande successo in Occidente.

Quando si vive in una comunità, le tradizioni monastiche acquistano un senso importante. Funzionano e funzionano bene. Non stiamo cercando solo di conservare un sistema asiatico arcaico come una curiosità o una formalità. La vita di rinuncia — vivere di elemosina, vestirsi tutti uguali — e le altre regole sono metodi con cui educare se stessi. Per mezzo di esse il cuore può liberarsi.

Molti occidentali non sono attratti dalla comunità considerata come una via, forse perché una tale via contrasta con la tendenza della nostra cultura a considerare il primato dell’individualismo, l’importanza di andare da soli.

Sono d’accordo. La vita comunitaria ti fa lasciare da parte i tuoi desideri per il bene comune. E’ un autosacrificio. Per un individualismo sembra quasi la morte; ma imparare a vivere in comunità e, per molti occidentali, in prospettiva un buon cambiamento. Infatti ciò che maggiormente ci fa soffrire e avere un ‘io’ al centro di tutto. La società sostiene e convalida questo atteggiamento che ha portato a profondi sentimenti di alienazione e insicurezza.

Quando impariamo come rinunciare alle nostre passioni e ai nostri pregiudizi, non stiamo contemporaneamente perdendo la nostra libertà o denigrando la nostra individualità. Essere capaci di ascoltare e di trattare con gli altri è un modo per riconoscere la nostra relazione con loro e la nostra interdipendenza con tutto ciò che vive nel pianeta. Quando lasciamo andare tutte le nostre richieste egoiste cominciamo a riconoscere la vastità della nostra vera natura. E’ una dinamica di estrema importanza per lo sviluppo della vita spirituale.

Pensa che ci siano differenze significative tra essere monaco in Europa o in America ed essere monaco in Asia?

Una delle grandi benedizioni del monachesimo buddhista in Occidente e che qui si libera dal formalismo, dal ritualismo e dal complementi culturali dell’Asia. In un certo senso per gli occidentali e molto più facile arrivare all’essenza degli insegnamenti. Anche i nostri maestri asiatici avevano rimarcato questo fatto. Essi dicevano: “Siete molto fortunati, noi abbiamo tutto questo bagaglio culturale con cui dobbiamo confrontarci”. Gil occidentali non conoscono niente dell”ismo’ del buddhismo prima di cominciare a studiare e praticare.

D’altra parte i monaci e le monache occidentali non sono sostenuti dai laici come i loro confratelli e consorelle asiatici.

Certo. E avere quel rispetto e quel sostegno è molto hello. Quando vado in Thailandia sono trattato come un dignitario in visita. In Occidente dobbiamo ancora guadagnarci il rispetto. C’è gente che mi ha chiesto: “Che fai per vivere? In che modo contribuisci al Prodotto Nazionale Lordo?”.

Avrebbe dovuto dire loro che stava lavorando per il Prodotto Nazionale Sottile.

Ho risposto chiedendo loro che cosa rende sana una nazione. Dipende da quanti sacchi di grano esporta o da quante tonnellate di acciaio vende? 0 la salute di una nazione include il benessere degli individui? E quel benessere dipende solo dalla salute fisica e dal comfort o include anche la pace mentale? Cerco di espandere la definizione di benessere nazionale.

Quali sono le regole monastiche più difficili da seguire in Occidente?

E’ diverso per tutti, penso, ma per molti di noi le regole più difficili sono quelle del celibato e del mantenere una certa calma distaccata nei rapporti con gli altri. Non si tratta solo di fuggire agli stimoli sessuali. Anche i comuni sentimenti di amicizia e di affetto possano facilmente portare a un flusso di emozioni che sottende qualcosa di più intimo. Mentre non c’è niente di male in un tale flusso tra esseri umani, se si sono presi dei voti di castità allora questi sottintesi o questi approcci violano l’impegno preso.

E che dice degli spettacoli? Non sente più la musica?

Non molto, anche se prima ero un grande appassionato e l’ascoltavo sempre. Ora che non lo faccio più deliberatamente, mi accade che quando per caso la sento, è come se la sentissi per la prima volta. La musica era diventata una presenza così comune, nella mia vita, che aveva perso il suo potere. Se adesso la sento, ha una freschezza meravigliosa: divento ogni nota, ogni frase.

Quando si adotta una vita di rinuncia, non si condanna il mondo dei sensi di per se, in quanto conduce all’avversione e alla negatività. Al contrario, si impara ad accettare tutto ciò che viene offerto apprezzandolo a pieno. Qualsiasi cosa arriva, viene accettata e apprezzata, ma cerchiamo di non aggiungerci altro. Penso che molti ascoltino la musica perché amano il posto in cui la musica li porta, il momento presente. Non pensate a niente altro, sperimentate l’armonia, l’equilibrio e il ritmo che la musica suggerisce. Ma tutte queste qualità sono presenti nella mente di chi medita. Se abbiamo bisogno della musica che ci porta, allora quando non c’è la musica (o un buon cibo o un bel luogo o qualsiasi altra cosa) probabilmente ci sentiamo deprivati. Immediatamente cominciamo a cercare un’altra esperienza che ci riconduca in quel luogo paradisiaco.

Quello che fanno i precetti è di chiudere la porta a tutte le nostre abituali fonti di soddisfazione, così che tutta la nostra attenzione si dirige all’interno, dove scopriamo una bellezza, una chiarezza e una vastità dell’essere che è inamovibile, indipendente dalle circostanze e dalle condizioni. Così, quando sentiamo un brano musicale o vediamo un bel cielo blu o la bella forma di un albero, è un extra.

Credetelo o no, sono diventato monaco perché in fondo sono un edonista. Il bello è cominciato quando sono diventato monaco. Non sto cercando di sconvolgervi dicendo questo. Per me almeno essere monaco è la via che mi permette di gioire meglio della vita. La mia vita è gioiosa, piena di gioia come un’esperienza crescente.

Tutti andranno ad ordinarsi dopo aver letto questa intervista!

Bene. Ma ricordate che la gioia viene solo dopo che ci si è autoarresi, sacrificati. Penso che la nostra cultura abbia paura del sacrificio. Sentiamo di dover possedere e accumulare per essere completi e accumuliamo non solo oggetti materiali, ma anche persone e relazioni. E’ difficile comprendere che lasciare la presa non è una perdita, una sconfitta. Certamente quando perdiamo una cosa bella o che ci è cara, c’è come un’ombra che ci attraversa il cuore, ma noi illuminiamo l’ombra con la comprensione che la sensazione di perdita è solo il risultato karmico, di considerare che fondamentalmente non possediamo niente. La vita di rinuncia a basata sulla comprensione che non possiamo mai realmente possedere qualcosa.