del venerabile Ajahn Munindo
© Ass. Santacittarama, 2008. Tutti i diritti sono riservati.
SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.
Dal libro “Liberta’ inattesa”
Traduzione di Chandra Livia Candiani.
Estratto del libro “Libertà inattesa”, su gentile concessione dell’Editore Ubaldini.
Come gli uccelli non lasciano orme nell’aria,
la sua mente non si aggrappa
alle tentazioni che le si offrono.
La sua rotta è lo stato di liberazione senza tracce,
invisibile agli altri.
Dhammapada, strofa 92
LA RINUNCIA, nekkhamma in pāli, è una delle dieci pāramitā, “perfezioni” o “energie di bontà”. Personalmente, sono convinto che la rinuncia sia uno degli aspetti della vita spirituale più importanti e insieme dei meno apprezzati. Non lo dico per giustificare la mia vita di monaco. Non vi sorprenderà che dica che la rinuncia è una buona cosa, dato che la pratico da venticinque anni! E’ piuttosto che io, insieme con molti altri, scelgo di vivere questa vita perché comprendo che c’è un enorme beneficio nel riuscire a rinunciare a quel che è extra, a lasciar andare quel che non è necessario e a vivere una vita semplice.
Non parlo solo della rinuncia ad aspetti fisici esteriori, come, per esempio, mangiare la sera. Non c’è niente di morale o immorale nel non cenare la sera: andare a dormire senza un bicchiere di latte, che gran cosa! Non mi riferisco nemmeno ad aspetti più difficili, come la musica o il sesso. Queste cose a cui monaci e monache rinunciano non sono in se stesse l’essenza della rinuncia. Questi gesti esteriori di rinuncia sono forme per incoraggiare un lasciar andare interiore. I gesti di per sé sono funzionali, aiutano la coltivazione di una forza del cuore che ci sostiene nel percorso spirituale. E sicuramente tutti noi, non solo monaci e monache, abbiamo bisogno di questa capacità. E’ vero che la comunità monastica sceglie di sottolineare questo aspetto dell’insegnamento del Buddha, ne fa uno stile di vita, ma l’addestramento è importante per chiunque sia interessato alla libertà interiore.
Fino a qualche decennio fa, la chiesa cattolica chiedeva ai suoi seguaci di astenersi dal mangiare carne il venerdì. Quando il Papa levò questa proibizione, pensai che era un peccato. Anche se il senso di quella particolare forma di astinenza poteva essere discutibile, per lo meno incoraggiava, a un certo livello, la pratica formale della rinuncia. Sono anche abbastanza all’antica da pensare che la quaresima sia tuttora una buona idea. In quel momento dell’anno abbiamo l’occasione di pensare: “Bene, in questo periodo dedicherò un po’ d’energia per osservare se riesco a rinunciare a qualcosa”.
La realtà è che se non sappiamo dire di “no” ai nostri desideri condizionati, siamo facilmente pilotati dal mondo esterno e dai nostri impulsi interiori. Se non potete dire “no” a voi stessi quando entrate in uno di quei supermercati che hanno di tutto, siete portati a comprare di più di quanto avevate intenzione. Sfogliando entusiasmanti cataloghi o facendo la spesa in rete, potreste ritrovarvi a dare i dati della vostra carta di credito, comportandovi secondo il copione del mercato, e solo dopo cominciare a pensare: “Perché l’ho fatto?”. Ci riconosciamo tutti in situazioni del genere, nell’incapacità di dire “no” alle cose extra.
Possiamo riconoscere questa tendenza a livello esterno: compriamo vestiti di cui non abbiamo bisogno, cibo non necessario o CD che magari non ascolteremo mai. Ma è più difficile notare come questo schema di comportamento appartenga anche al nostro mondo interiore, vedere la compulsione mentale ad aggiungere qualcosa all’esperienza: buono, cattivo; giusto, sbagliato; devo, non devo. Questa tendenza a reagire, giudicare e aggiungere qualcosa all’esperienza ci impedisce di ricevere la realtà in forma pura, non diluita. Il senso di una vita in cui si rinuncia a certe scelte è che, coltivando una volontà conscia di dire “no” alle cose che potremmo voler avere o fare, cose non veramente necessarie al nostro benessere, usiamo le convenzioni esterne per imparare a lasciar andare a un livello più profondo. Impariamo l’arte del lasciar andare. E chiamiamo questo processo di apprendimento “addestramento”, perché ci vuole una certa abilità nell’applicazione dello sforzo. Uno sforzo maldestro in questo campo conduce facilmente a una rimozione cieca e potenzialmente dannosa.
Se vogliamo comprendere la rinuncia, dobbiamo provarla. Accumulare parole su questa pratica non ci sarà d’aiuto. Ne verifichiamo la validità solo facendo uno sforzo e osservando il risultato. Talvolta ci sorprende quanto ci faccia bene sapere di poter dire “no” a noi stessi; può addirittura diventare inebriante. Ricordo quando feci da traduttore a un giovane monaco appena ordinato, pieno dell’ispirazione che nasce dall’essere stato appena accolto nel Sangha dei rinuncianti. Chiedeva ad Ajahn Chah un consiglio su come applicare i vari metodi per coltivare la rinuncia e la determinazione. Con gli occhi brillanti e pieno di energia, spiegava ad Ajahn Chah che aveva preso la risoluzione di passare i prossimi tre mesi del ritiro delle piogge osservando le pratiche di non sdraiarsi per dormire, di non accettare altro cibo che quello raccolto nella questua, di mangiare una sola volta al giorno, di indossare solo il minimo dei vestiti, e così via. Elencò moltissime delle pratiche dhutanga (ascetiche) che il Buddha suggeriva. Ajahn Chah ascoltò e poi commentò che la cosa migliore sarebbe stata di prendere la risoluzione di continuare a praticare per tutti e tre i mesi, qualunque cosa succedesse, e non intraprendere alcunché di particolare. Ajahn Chah era ben consapevole di quanta ispirazione possa esserci nella pratica della rinuncia quando per la prima volta assaggiamo il potere che genera.
Talvolta possiamo anche diventare un tantino evangelici al riguardo, predicando a chiunque ci ascolti le virtù della rinuncia, e imponendole anche agli altri. E’ questo l’aspetto che finisce per creare una cattiva reputazione a questo tema. Alcuni anni fa, Ajahn Sumedho dovette intervenire per attenuare l’entusiasmo di un incaricato anziano di recente nomina in un piccolo monastero affiliato. Questo monaco aveva escogitato un sistema per cui tutto il cibo preparato e offerto al pranzo di mezzogiorno veniva versato in un grande catino di plastica, riso curry, dolci, tutto insieme. Lui gli dava una mescolata, ne pigliava qualche mestolo per sé per poi passare il catino agli altri. Non c’è dubbio che questo gesto di rinuncia servisse degnamente a sfidare le preferenze riguardo al cibo, ma è evidente che non tutti nella comunità lo trovavano ugualmente utile. Ajahn Sumedho, con la sua saggezza, inviò una grande scatola di biscotti graziosamente incartati e dall’aspetto delizioso, con un appunto: “Da non mettere nel catino”.
Anche senza uno specifico gesto esterno di rinuncia, possiamo imparare vedendo quanto sia difficile lasciar andare tutto quello che è extra nella nostra mente. Un esempio è quando sediamo per meditare. Sappiamo come la pratica della concentrazione possa stabilizzare la mente, aprire il cuore e creare maggiore chiarezza e comprensione, eppure quando decidiamo: “Bene, mi riservo trenta minuti per sedere in meditazione”, e cerchiamo di concentrarci, la mente si perde ogni secondo. Pensiamo: “Ma perché? Perché la mente si distrae? Non è necessario, ho chiuso con tutto ciò, voglio stare in pace”. Questo è quel che intendo per extra. Dunque, possiamo lasciar andare l’extra? Abbiamo la capacità, la forza che ci fa semplicemente dire “no” alla compulsione?
DIVERSO DALLA MORALE
Va compreso che in questo caso non stiamo parlando di morale. Talvolta questi due aspetti della pratica, etica e rinuncia, vengono confusi e non è utile. Non parliamo dei cinque precetti che tutti conoscono: non uccidere, non rubare, non avere una sessualità irresponsabile, non parlare in modo falso, e non assumere sostanze inebrianti. Questi sono aspetti morali che, se li trascuriamo, causano sofferenza a noi stessi e agli altri. Quando ci impegniamo negli otto precetti, i tre aggiunti sono precetti di rinuncia. Il sesto riguarda l’astenersi dal prendere cibo di sera, il settimo e l’ottavo riguardano la rinuncia al divertimento, alla distrazione, alla musica, gli ornamenti e l’indulgere nel sonno. In aggiunta, il terzo precetto diventa di rinuncia, passando dall’astensione da una sessualità irresponsabile al celibato (nessuna attività sessuale intenzionale). Questi non sono aspetti della moralità. Tradizionalmente, si incoraggiano i buddhisti laici a prendere gli otto precetti per certi periodi per coltivare la facoltà della rinuncia, per lasciar andare l’abitudine ad attaccarsi a ciò che non è pertinente alla meta. Questi sono mezzi abili, non principi morali.
Se vi sentite ispirati dalla rinuncia e volete provarla, vi incoraggio a farlo, ma anche a non dirlo a nessuno. Fate che sia una forza per diminuire il carico, non per gonfiare un falso senso dell’ego. Potete, per esempio, decidere di esercitarvi una volta alla settimana o una volta al mese a dire “no” a qualcosa. Potete dire “no” al desiderio di guardare un particolare programma alla televisione, non per ragioni morali, ma semplicemente per coltivare la capacità di rinunciare senza cadere in una lotta interiore o nella cieca rimozione. Come risultato del vostro esperimento di rinuncia scoprirete qualcosa di interessante, riavrete indietro la vostra energia. Garantito. Se non vi succede la prima volta, dite “no” un po’ più di volte. All’inizio, questa energia può manifestarsi come rabbia o irrequietezza. Quando sperimentate questa agitazione, potreste decidere che la pratica non è adatta a voi. O che siete al di là, nel qual caso non avrete dubbi di sorta riguardo l’energia e l’equanimità, sarete già perfettamente equilibrati. Ma se non siete ancora a quel punto, vi raccomando di essere perseveranti con sensibilità e costanza, imparando dalle reazioni iniziali.
Talvolta questa pratica ci porta a scoprire risorse che nemmeno pensavamo di avere. Ci sorprende scoprire che riusciamo a tener fede a qualcosa, mentre in passato, sotto pressione, saremmo crollati. Per fare un esempio: io nutro generalmente sfiducia nei riguardi dei mass media e nello stesso tempo trovo estremamente convincenti i giornalisti e i conduttori dei programmi. Chiaramente, i direttori della televisione e dei giornali inviano i loro intervistatori più seducenti per garantire la qualità del materiale, ma quel che alla fine diffondono può essere completamente diverso da ciò che era stato previsto al momento della sua raccolta.
Alcuni anni fa, quando per un periodo assunsi la responsabilità del monastero di Chithurst, alcuni della televisione di Brighton insistevano per avere il permesso di filmare una scolaresca che avrebbe fatto una visita al monastero come parte del programma scolastico di educazione religiosa. Non era difficile trovare una giustificazione per dire “sì” al produttore del servizio, ma l’istinto mi diceva di non fidarmi della loro motivazione e di dubitare che sarebbero stati abbastanza sensibili da evitare di distrarre i bambini dallo scopo della loro visita. Perciò, dissi di no. Mi richiamarono molte volte per farmi cambiare idea, ma con mia sorpresa trovai piuttosto facile tener fede alla risposta iniziale. Confesso che mi preoccupavo che la scuola si sentisse delusa, ma lo stesso sentivo di dover dire di no. Alla fine, il preside mi confessò quanto felice fosse stato lo staff della scuola, perché non volevano la televisione durante la visita, ma fino ad allora nessuno gli aveva mai detto di no.
LA FRUSTRAZIONE STRATEGICA
Se in questo campo non siamo abili, possiamo facilmente distrarci, sia interiormente che esteriormente. Ho osservato che l’indulgenza non solo ci rende eccessivamente vulnerabili, ma anche torpidi. Se ci concediamo tutte le volte quello che desideriamo, diventiamo piatti, perdiamo mordente. Nell’attuale cultura dell’abbondanza e del benessere, siamo spesso restii a prendere in considerazione questa dinamica. La realtà è che ci piace ottenere quello che vogliamo, ma c’è una parte di noi che sa che accondiscendere a questo progetto non riesce a darci l’appagamento più profondo a cui aspiriamo.
Definisco quest’area della nostra pratica “frustrazione strategica”: ci determiniamo a utilizzare la frustrazione in modo costruttivo. La scuola Rinzai del buddhismo zen ha strutturato la frustrazione in una tecnica meditativa chiamata koan. Il meditante viene invitato a riflettere su un’affermazione estremamente frustrante o gli viene posta una domanda apparentemente impossibile, appositamente formulata per demolire la mente discorsiva. In questo processo viene accumulata un’enorme energia prima dell’allentamento che consegue alla “risoluzione” del koan. E’ totalmente e volutamente frustrante. Possiamo vedere questo processo in noi stessi. Senza partecipare a un ritiro zen o diventare un rinunciante celibe, osservate semplicemente il vostro livello di energia quando scegliete di seguire i desideri e quando scegliete di contenerli. La ricerca compulsiva del desiderio dissipa moltissima energia.
Qual è la condizione della mente prima che sorga il desiderio? E’ piuttosto buona, no? La mente non disturbata dal desiderio è in pace. E’ quando sorge il desiderio che sentiamo il prurito, ma se subito ci grattiamo, gratificando immediatamente il desiderio senza fermarci a investigare, non noteremo quanto il desiderio sia irritante. Quando siamo governati dal desiderio, non riusciamo a vederlo come veramente è. Il desiderio, in realtà, è semplicemente un movimento nella coscienza, un’onda sull’oceano. Ma, generalmente, non è questa la nostra esperienza; quando sorge il desiderio, di solito ci lasciamo turbare.
Dopo che il desiderio è sorto, ci si aprono tre possibilità. Possiamo gratificarlo, liberandocene così momentaneamente, cosicché il sollievo dall’irritazione del desiderio viene percepito come piacere. Più seguiamo questa possibilità, tuttavia, e più aumentiamo l’impeto del desiderio e della gratificazione. A lungo termine, tendiamo a diventare meno sereni. L’altra possibilità è reprimere il desiderio, fingere di non volere alcunché, che equivale a imporgli un cieco giudizio. La terza possibilità è scegliere di tenere il desiderio nella consapevolezza. Possiamo tenerlo. Come risultato, accade qualcosa di meraviglioso. L’energia sperimentata come desiderio ritorna a essere energia grezza. Quell’energia può veramente motivare la pratica e condurci a una felicità molto più grande di quella associata con la gratificazione dei desideri sensoriali. Dunque, la frustrazione del desiderio non è una cosa per pochi individui bizzarri o pervertiti che vivono in un monastero perché non sanno godersi la vita. La rinuncia è in realtà un modo di imparare a collegarci col nostro profondo pozzo interiore di energia.
Quando mi fanno domande sulla rinuncia, io incoraggio a investigare da soli e a non accettare opinioni non vagliate di altri, incluse le mie. Provate e vedete. Se lottate interiormente con qualcosa di difficile, come la tristezza, e non riuscite a lasciar andare, notate le caratteristiche della lotta. Sentite di voler lasciar andare, ma che non ce la fate. Vi chiedete: “Cos’è questo aggrapparsi? Cos’è tutto questo bagaglio in più che mi carico?”. Molto di questo peso non è che abitudine che viene dal non prendersi veramente il tempo per conoscere il desiderio per quel che realmente è, un movimento nella nostra mente. Deduciamo troppo velocemente che dobbiamo prendere posizione pro o contro i desideri, senza prima investigare la realtà. Il desiderio non è come sembra. Possiamo chiederci: “Voglio vivere in accordo agli schemi del desiderio che mi hanno condizionato e limitato? O voglio vivere in una situazione di libertà, mantenendo una consapevolezza non giudicante del qui e ora?”. Questa contemplazione mi è sempre di grande ispirazione. La rinuncia, come il desiderio, non è come sembra all’inizio. Andare in modo adeguato contro i nostri desideri non ci renderà meno felici!
Non pensate che questa pratica sia particolarmente difficile o solo per pochi. Tutti abbiamo bisogno di sapere come vivere consciamente, con l’autorità di seguire quel che il cuore ci suggerisce sia vero. Tutti siamo potenzialmente capaci di dirigere l’attenzione verso ciò che sentiamo personalmente che conta. Non dobbiamo, come può sembrare, lasciarci intimidire dalla convinzione di altri. Se nella nostra esperienza scopriamo qualcosa di valido, dedichiamoci a esso con tutto il cuore e risolutamente. La rinuncia, coltivata con retta comprensione, diventa il principio guida che ci sostiene lungo il nostro vero sentiero, quando altrimenti potremmo cadere nella distrazione.
Grazie per la vostra domanda di stasera.