Insegnamenti

Aprire il cuore

di Sister Ajahn Jitindriya

© Ass. Santacittarama, 2009. Tutti i diritti sono riservati.
SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.
Tradotto da Gabriella De Franchis
Tratto dal libro “Freeing the heart”, reperibile dal sito www.amaravati.org.

 

QUANDO SI TRATTA DI OFFRIRE DELLE RIFLESSIONI SUL DHAMMA, per me è sempre come se fosse la prima volta! Poco tempo fa, mi ha colpito la lettura di un articolo che parlava di un giovane pianista russo che è stato un bambino prodigio; sembra che al momento sia il più bravo pianista del mondo. Non so dirvi il nome, ma ha un folto cespuglio di capelli neri come Sai Baba!

Ad un certo punto in quest’articolo su di lui – un giovane molto sicuro e pieno d’energia – l’intervistatore gli ha chiesto se diventava mai nervoso prima di una esibizione. Egli ha risposto, “Sempre, divento sempre così nervoso che non riesco a bere niente.”. Poi ha aggiunto: “Ma quel nervosismo è davvero importante, perché non appena comincio a suonare il piano, si trasforma in ispirazione.”. E c’era questa sua fotografia mentre sfiorava i tasti. Si vedeva che era già in paradiso, era andato via. Davvero emozionante.

Mi ha fatto vedere il nervosismo sotto un punto di vista nuovo. Non si tratta di una risposta inadeguata nei confronti di una situazione nella quale ci potremmo sentire inadeguati mentre ci si dovrebbe sentire sicuri, o che so io. In effetti, è molto vicino a tutto ciò che riguarda il Dhamma – si è vicini alla soglia dello sconosciuto e la maggior parte di noi, se gliene viene data la possibilità, si tira subito indietro. Ecco perché nella vita monastica, fa bene confrontarsi con situazioni come questa. Ci sono molte situazioni nelle quali non ci si può tirare indietro, e allora è lì che si guarda, si sta con quello e si guarda dentro quel nulla oscuro che si spalanca… “Di che si tratta?”

Non sto parlando della mia esperienza personale riguardo al tenere discorsi, o al nervosismo che si ha quando ci si deve “esibire”, ma di qualcosa da affrontare, qualcosa che ci può capitare abbastanza normalmente nella vita di tutti i giorni, nella nostra cosiddetta esperienza normale e ordinaria – però abbiamo così tanti modi per evitarla e per tirarci indietro che spesso non la riconosciamo. Non cogliamo l’occasione per andare veramente verso ciò che potremmo chiamare ‘vuoto’, perché è scomodo, non è sicuro. In quel senso d’insicurezza c’è paura – paura di perdere il senso d’identità, di non sapere cosa fare quando non c’è identità, quando non c’è strategia, quando non ci sono punti di riferimento. Quello che succede è che ci sentiamo veramente minacciati.

Come il Buddha ha spesso indicato, vale la pena conoscere questo senso di insicurezza che si ha di fronte a ciò che non si conosce; familiarizzare con quel sentimento e rivolgersi ad esso, esplorarlo quando si presenta in una data situazione. Nei rapporti tra le persone può succedere abbastanza spesso. Un segno per riconoscere che stiamo indietreggiando, o che siamo sul punto di ritirarci, è quel senso di dukkha che si può manifestare con la rabbia o con la paura, con il desiderio o l’impazienza, o anche con la noia o l’irrequietezza; si manifesta in molti modi.

Riconoscetelo quando si manifesta, quando sentite che nello stomaco sta cominciando a formarsi una specie di nodo, o quando avete la sensazione che il cuore si stia chiudendo, o che la mente si sta chiudendo; quando vi viene la voglia di andare via, di allontanarvi o di cambiare argomento, o quando non siete in grado di guardare l’altra persona, di guardarla negli occhi.

Che cosa è? Quando esploro queste cose in me stessa, di solito scopro che si tratta di ‘paura’, un meccanismo di difesa – non volere essere ferita o non volere imbarcarmi in qualcosa che percepisco come spiacevole, non volerne fare l’esperienza; paura del dolore che comporta, della possibile sofferenza. Basata sul ricordo, non è vero? La paura della possibile sofferenza, che non è ancora un fatto reale.

Spesso abbiamo delle aspettative nei confronti degli altri o ci creiamo l’idea di un futuro doloroso, e ci tiriamo indietro, evitiamo o cerchiamo in qualche modo di rafforzare il nostro senso di sicurezza e d’identità con qualcosa che ci è familiare, qualcosa di piacevole, qualcosa che vada bene e che sia permesso nel mio mondo.

 

‘Vibhava – Tanha’

Quando veniamo attratti verso un insegnamento spirituale, verso un nostro impegno nella pratica del sentiero per trovare questa promessa libertà dal dolore – l’illuminazione, la saggezza, la compassione; la capacità di esistere nel mondo senza paura o odio – è una cosa molto promettente, qualcosa verso la quale tutti tendiamo. In molti casi, però, intraprendiamo una pratica spirituale con ciò che è chiamato vibhava-tanha, la sensazione di volere fuggire dalla propria vita così com’è, dalle cose così come sono. Questo non va visto come qualcosa si sbagliato, è una cosa normale che semplicemente accade. Abbiamo deciso che qualcosa non è giusto, che non è abbastanza buono, è spiacevole, intollerante, insopportabile e… “Voglio uscirmene. Ci deve essere un modo per uscirne” o perlomeno, ci deve essere un altro modo!

Un sentiero spirituale si intraprende per diverse ragioni. Forse perché si è avuta un’intuizione di quello che si potrebbe chiamare il ‘Non nato’, o che potrebbe essere chiamato coscienza pura, l’Incondizionato, o uno stato dell’ essere che è completamente libero dalle solite oppressioni o dalle costrizioni che sentiamo in quanto esseri limitati. E’ una cosa difficile da descrivere; ognuno ne fa esperienza in maniera diversa. Si riconosce l’esistenza di qualcosa di più profondo da scoprire, una comprensione più profonda che può diradare questa confusione presente per la maggior parte del tempo.

Oppure, si vuole seguire la propria intuizione di una felicità ultima da scoprire, che può essere basata su una visione profonda, o semplicemente su qualche tipo di speranza d’evasione – come se volessimo fare esperienza della felicità ultima e renderla permanente, trovare una sensazione di serenità che resta, di felicità che rimane, che non cambia. La maggior parte di noi vuole trovare quel tipo di sensazione e mantenerla per tutto il tempo. E’ solo quando ci conosciamo un po’ di più – per esempio attraverso la meditazione, l’introspezione e la riflessione – quando conosciamo meglio la natura della mente, che cominciamo a riconoscere le nostre tattiche d’evasione e il fatto che sono queste stesse tattiche d’evasione a creare la prigione dalla quale stiamo cercando di fuggire.

Così, ad un certo punto, ci rendiamo conto che questa felicità che stiamo cercando – questa libertà, questa saggezza e compassione – non verrà facilmente, che di fatto dobbiamo fare dietro front e affrontare proprio tutte quelle cose dalle quali siamo fuggiti. E’ qui che inizia il sentiero. E’ qui che abbiamo bisogno di sviluppare molte qualità del cuore che ci aiutano nel cammino – coraggio, in primo luogo, un’enorme pazienza, fede, volontà e alcune facoltà e poteri della mente come la concentrazione, la presenza mentale e la saggia riflessione.

Spesso ci vuole molto tempo per capire quando stiamo evitando ciò che veramente ha bisogno di essere guardato. Non è facile da vedere perché abbiamo tanti concetti nella mente, in primo luogo di ‘bene’ e ‘male’ basati sull’esperienza di dolore e piacere. In qualche posto nelle profondità della nostra psiche, giudichiamo ciò che è spiacevole come male e, secondo i vari tipi di processi di condizionamento, accusiamo noi stessi per questo, o accusiamo l’archetipo Padre o Madre, o qualcos’altro ‘là fuori’.

 

L’abitudine di colpevolizzarsi

Sotto certi aspetti, specialmente nella cultura occidentale, abbiamo un senso di colpa radicato ed è necessario scoprirlo perché, finché non arriviamo al punto di vedere come male e, a certi livelli, come ‘colpa mia’, il nostro stesso concetto del dolore – ‘Ho fatto qualcosa di male,’ o ‘Qua c’è qualcuno che ha sbagliato’ – allora non c’è veramente modo di liberarsi dal dolore che questo coinvolge. Bisogna arrivare a questo stadio per cominciare ad aprire il cuore a quel livello di sofferenza.

Si può essere in grado di riconoscere il giudizio che insorge – non deve necessariamente essere un giudizio discorsivo – non ci si sente dire a se stessi “Questo è male” quando si prova una certa sofferenza, impercettibile o più esplicita. Si tratta per lo più di scoprire un atteggiamento, un modo di reagire che è ad un livello molto istintivo, in cui scopriamo una resistenza che si manifesta fisicamente e mentalmente. Questa resistenza che sentiamo insorgere – una specie di chiusura a livello della mente o un nodo a livello fisico – è un segno che il Buddha indica come dukkha.

Volgiamoci a questo, riconosciamolo, riconosciamo ciò che sta accadendo e nel riconoscere, in quel momento, può avvenire che si lasci andare la resistenza. E poi ci si deve rimanere dentro: i meccanismi di difesa sono molto forti e si riattivano in continuazione. Continuiamo a riconoscere la resistenza o la chiusura così come si presentano e continuiamo ad aprirci restandoci dentro.

Come facciamo a restarci dentro se c’è così tanto dolore e tanta resistenza? Prima di tutto lasciamo andare tutte le storie che ci stanno attorno, i pensieri che ci portano a “Lei ha fatto questo….. lui non avrebbe dovuto farlo…. è stata colpa sua…ecc…ecc.” Questo è il primo livello, lasciamo andare tutti questi tipi di giustificazione discorsiva riguardo a ‘ciò che sento,’ e andiamo oltre, nella sensazione fisica o nella sensazione mentale così come la sentiamo. Sentiamo le difficoltà e continuiamo a rilassarci.

Come ci rilassiamo nelle difficoltà? Coltivando la presenza mentale e la concentrazione, proprio per rimanere presenti e vedere che la nostra sensazione, in quello stesso momento, è sempre instabile e in cambiamento, non è mai completamente statica. Diventa statica non appena la solidifichiamo con concetti e identificazioni, trasformandola in ‘me’ e ‘mio’, a quel punto siamo in trappola.

Se manteniamo la presenza mentale come testimone del processo di cambiamento, delle lievi variazioni fisiche o mentali – notando le sensazioni, le percezioni – allora questo è un modo per rimanere presenti con ciò che sta effettivamente accadendo, sia durante la meditazione seduta che nelle nostre relazioni personali. Di solito è un po’ più facile farlo quando siamo seduti in tranquillità, perché la concentrazione e la presenza mentale possono essere più profonde e si possono lasciare cadere quegli strati di convenzioni sociali che agitano in continuazione la nostra mente quando entriamo in relazione con gli altri. Ma, anche quando, supponiamo, stiamo discutendo e vengono toccati certi argomenti, possiamo ancora essere pienamente consapevoli dell’origine delle nostre reazioni e dei loro condizionamenti a livello di sensazioni, fisiche e mentali. La mente in sé, non è legata al tempo – ciò che è legato al tempo sono i pensieri e le sensazioni e le percezioni, ma c’è la possibilità di essere testimoni di queste cose così come avvengono ed è una possibilità senza tempo, non si trova nel tempo.

E’ sorprendente quello che si può cominciare ad osservare nella propria esperienza cosciente con un po’ di potere di concentrazione e di presenza mentale – ed è così che può sorgere la saggezza, attraverso questa chiara osservazione di quanto sta effettivamente accadendo. Non è una creazione concettuale, non è comprensione intellettuale, è un chiaro e diretto essere testimoni della propria esperienza. Ma, affinché avvenga una chiara comprensione, è utile anche sapere ciò su cui bisogna concentrarsi.

 

‘Investigare la visione della personalità’

Veniamo incoraggiati ad esaminare i ‘fattori della personalità’, come ha indicato il Buddha, (il corpo, le sensazioni, le percezioni, le formazioni mentali e la coscienza sensoriale), quello che, a volte, è chiamata ‘struttura dell’io’, ma che non è necessariamente la stessa cosa alla quale ci si riferisce in psicologia.

L’‘io’, nel modello della psicologia occidentale, sembra che riguardi di più il fatto di avere un sano senso dell’individualità e di questo, senza dubbio, ne abbiamo bisogno, non è necessario di smantellarlo. Quando abbiamo una sana comprensione dell’individualizzazione e della situazione condizionata, il mondo condizionato nel quale ci troviamo è utile e necessario. Rispetto a questo bisogna avere un sano senso dell’‘io’ per sapere come interagire e per prendersi cura di se stessi e degli altri.

La struttura dell’io all’interno degli insegnamenti buddisti riguarda molto di più ciò che ci tiene intrappolati – il nostro credo, il nostro credo smisurato nei fattori della personalità come l’io, non come mere funzioni ma come “chi e che cosa sono”; la nostra tendenza a credere nell’esperienza fisica e a fissarla sull’io, a credere nelle sensazioni e fissarle sull’io. Spesso pensiamo alla sensazione, vedana, come ‘emozione’, ma negli insegnamenti del Buddha l’emozione è più un agglomerato di sensazioni, percezioni, pensieri e coscienza sensoriale. Vedana è quella sensazione iniziale di risposta al piacere o al dolore che sorge con la propria esperienza presente. Di solito, siamo attratti verso le sensazioni piacevoli e vogliamo sfuggire da quelle spiacevoli.

La percezione è descritta come ciò che è connesso con la memoria – come percepiamo ed etichettiamo un’esperienza basandoci sulle esperienze passate. Questo tipo di percezione condizionata è Sanna, che non è un vedere puro, un vedere diretto, ma un afferrare qualcosa in maniera tale da fissarla, sulla base delle nostre esperienze passate e quindi l’esperienza che facciamo è come pre-condizionata.

Spesso si possono notare immagini che sorgono nella mente nel momento del contatto sensoriale – qualche volta si vede nelle meditazioni o anche nell’esperienza di tutti i giorni. Abbiamo la tendenza ad attaccarci alle nostre percezioni come se fossero vere, reali e parte di me, me stesso, e ci crediamo ciecamente e ci attacchiamo alle nostre esperienze sensoriali riguardo a ‘quello che vedo, quello che sento, che odoro, gusto, tocco e quello che penso.’

Questi sono i regni dei sensi dove, se fissiamo queste esperienze come se fossero vere, reali e ciò che io sono, si crea l’’ego’. E’ come se raccogliessimo queste esperienze e da loro creassimo questo senso del ‘se’ rimanendo poi catturati in quel mondo. Non sto dicendo che queste esperienze, questi regni dei sensi, non siano reali, ma sono esperienze condizionate, dipendono da molti fattori. C’è, però, ciò che può cominciare a conoscere le esperienze del mondo sensoriale e ciò che può conoscere il vedere, giacché il vedere è effettivamente libero dal condizionamento che si basa su ciò che si vede. Non sto dicendo che non vedete ciò che vedete, è solo un altro livello di comprensione.

Se c’è una chiara conoscenza dell’esperienza presente, allora questa chiara conoscenza non è catturata dallo schema della nostra identità, sa come si crea l’identità, come si crea l’ego.

Perciò, quello che ascoltiamo, odoriamo, gustiamo, tocchiamo, pensiamo, diventa soltanto, vista, suono, odore, gusto, sensazione tattile e pensiero che sorge e passa – sicuramente dandoci molte informazioni sul nostro mondo, le nostre relazioni, ciò che deve essere fatto o che non deve essere fatto – ma ci può essere quella dimensione della mente che sa che tutto questo è parte di un mondo che scorre, che fluisce: che tutte le esperienze condizionano altre esperienze.

 

Il Non-Nato

Possiamo cominciare ad avere un certo distacco, a lasciare andare e non essere completamente bloccati nel mondo dell’esperienza sensoriale, e potremmo definire quest’altra dimensione di chiara conoscenza come il Mai-nato, il Mai-creato. Non si può concepire – si può ammetterne il concetto di ‘Mai-nato’, ma non si tratta di questo. Non può essere afferrato con una mente concettuale, ma si può imparare a dimorare in quel luogo di consapevolezza conoscitiva.

Dunque il Buddha ha creato tutto questo corpus d’insegnamenti per aiutarci a trovare il modo per liberarci dalla sofferenza. Non si tratta di creare altre idee su un regno Incondizionato alternativo, una specie di paradiso dove possiamo trovare quello che, speriamo, sia la felicità; si tratta piuttosto di trovare un rifugio presente nel bel mezzo di ciò che percepiamo e di cui facciamo esperienza sotto forma di agitazione o sofferenza o confusione. Un rifugio presente dal quale possiamo iniziare a capire questa esperienza di esseri umani.

Così abbiamo questa facoltà della consapevolezza, o di ciò che potremmo chiamare ‘il conoscitore’, ‘colui che conosce’ – ciò che può essere vigile su quello che accade, su quello che sta effettivamente accadendo – e questa abilità di essere vigili è paragonata alla stessa mente risvegliata del Buddha. E’ una facoltà della mente, della natura, non è una cosa personale – il Buddha l’ha indicata come un luogo dal quale possiamo coltivare il sentiero.

E’ così facile, quando ascoltiamo un insegnamento religioso, costruire nella nostra mente un’elaborata cosmologia e poi continuare a cercare sicurezza dentro quella costruzione mentale – cercando di separare ciò che è buono da ciò che non lo è, cercando di fare ‘questo’ per evitare ‘quello’. Questa è ancora proprio la strategia che dobbiamo continuare a capire. Non si tratta di creare un futuro meraviglioso o il paradiso perfetto dove rinascere. Non si tratta affatto di creare nuovi concetti. Concepire l’insegnamento, il sentiero, è una cosa naturale, dobbiamo usare le nostre facoltà concettuali e intellettive, ma dobbiamo vedere le cose come sono, e non credere mai che quella creazione della nostra mente sia vera. La cosa vera, il Dhamma, si manifesta sempre qui e ora ed è senza tempo, non è mai lontano da dove ci troviamo in questo momento.

Vari insegnamenti religiosi sostengono che la Verità, o Dio, è inesprimibile – che non si può descrivere – è indeterminabile. E anche questo viene travisato in molti modi, non è vero? Ci creiamo una struttura ‘sacra’ dove non possiamo mai pronunciare la parola ‘Dio’ senza rispetto per la purezza, però possiamo vivere le nostre vite in modo molto insoddisfacente.

La fede e la convinzione di un sentiero particolare possono farci sviluppare determinate facoltà, ma è davvero questo il sentiero che porta alla liberazione? La libertà, anche se sembra bella, è qualcosa che spesso scopriamo di non volere veramente, onestamente – fa troppa paura. Come disse uno sciamano indiano: “Molte persone non vogliono crescere, non vogliono diventare adulti, perché scoprono che hanno la libertà di creare la propria vita”. Si tratta di quel tipo di libertà!

Così scopriamo che dobbiamo sviluppare abilità e modi di essere, modi che ci aiutino ad essere pienamente presenti per affrontare queste paure, queste tattiche di evasione che sono così radicate nella nostra mente. Che cosa facciamo quando incontriamo qualcuno che non ci piace, quando qualcuno ci dice qualcosa che ci fa veramente male? Il nostro cuore si può aprire nei confronti di queste cose?

Non significa che dobbiamo passare sopra le cose che non ci fanno stare tanto bene; il sentiero concerne il guardare quello che sta facendo il cuore, il sentiero concerne la liberazione di questo cuore dalla reazione condizionata che ci fa chiudere in noi stessi. Quindi, significa sviluppare la forza per rimanere aperti, presenti, sensibili in quei momenti che troviamo difficili, sia che siamo soli o con altri: sentire quello che proviamo, sapere quello che pensiamo, riconoscere come le nostre sensazioni vengono condizionate dai nostri pensieri e come sorge il giudizio. Che cosa succede quando giudichiamo gli altri o giudichiamo il mondo o noi stessi, che tipo di sensazione o di situazione determina?

 

‘Compassione’

Dunque, questa pratica richiede molto tempo perché scopriamo che non possiamo affrontare tutto in una volta, ed è qui che dobbiamo sviluppare un’altra potente qualità che si chiama compassione. Spesso pensiamo che la compassione sia qualcosa che proviamo per gli altri, ma la lezione più grande che impariamo è che la compassione è qualcosa che dobbiamo sviluppare per noi stessi.

Quando sentiamo quel dolore insopportabile, che non possiamo contenere o che non possiamo affrontare, invece di allontanarcene o incolpare gli altri, fare qualcosa nei confronti dell’altro, possiamo semplicemente rimanere seduti e lasciare che il nostro cuore si apra di più, sentire veramente il dolore, di qualsiasi cosa si tratti, e dire, “Va tutto bene”? E’ qui che possiamo notare l’insorgere di quell’attitudine a giudicare; “questo è sbagliato, deve essere sbagliato, fa troppo male.” Io a volte devo dire a me stessa con fermezza “Va assolutamente bene”… sentirsi infelici, disperati, impauriti; va assolutamente bene provare quello che stiamo provando.

In qualche modo, in quello spazio d’assoluta accettazione, c’è una liberazione e in quel momento possiamo riconoscere quello che ci teneva intrappolati – proprio quell’attitudine a giudicare, che si basa su ‘Voglio, Non voglio.’ E su cosa è basato questo ‘Voglio, Non voglio’? E’ basato sulla falsa comprensione che le sensazioni piacevoli portano alla felicità definitiva. E’ basato sulla falsa comprensione che i sentimenti possono essere permanenti, che possono rimanere gli stessi per sempre – ma non è così. E in quel momento, quando ci concediamo di sentire esattamente quello che stiamo sentendo e quando c’è un momento di sollievo, riconosciamo che queste sensazioni passano perché vengono lasciate andare, perché non le tratteniamo più con la nostra resistenza o con la nostra lotta o con il nostro giudizio. Così passano, vanno via per sempre, non sono rimaste che un solo momento.

Ma quanto, nelle nostre vite, viene creato; quante storie vengono create sulla sensazione di un momento o su un’altra sensazione di un altro momento, cercando di fare la cosa giusta, di sentire di più un certo tipo di cose piuttosto che un altro. Tanta sofferenza, tanta pressione e così non si trova mai la felicità perché le sensazioni non rimangono mai le stesse.

Così, quando apriamo il nostro cuore, quando ci concediamo di sentire la sofferenza che abbiamo cercato di evitare, stranamente ci accorgiamo che stiamo sviluppando la capacità di godere pienamente degli aspetti piacevoli della vita, perché iniziamo ad elaborare una tecnica per non aggrapparci, per non cercare di manipolare e di creare una realtà che pensiamo di volere, che pensiamo sia quella giusta o la migliore. Attraverso il non attaccamento, il permettere alle cose di esistere e alla nostra vita di fluire così come deve fluire, scopriamo un senso di libertà o di sollievo. Scopriamo una maggiore libertà di scelta su come rispondere alle situazioni, piuttosto che reagire, una maggiore chiarezza della mente per riflettere sulle situazioni e sul nostro personale coinvolgimento.

E’ qui che la maturazione del sentiero diventa più efficace. Possiamo scegliere se agire o non agire in base alla nostra comprensione della situazione e, mentre crescono tolleranza e un certo tipo di coraggio e compassione, scopriamo che la nostra disposizione è più quella di non volere colpire o ferire niente, quindi le nostre scelte tenderanno ad essere innocue, ad avere considerazione per gli altri. Si diventa più sensibili rispetto a ciò che è sano, a ciò che vale la pena sviluppare – non solo per noi stessi, ma per tutti colori con i quali abbiamo a che fare nella nostra vita.

E non finisce qui, perché arriva anche una comprensione sempre maggiore della nostra interdipendenza, dell’esperienza comune a tutto il genere umano. Tutto, però, comincia con la volontà di iniziare a guardare in tutti i modi possibili, sotto la superficie della nostra reattività iniziale.

‘L’esperienza comune’

Il Buddha ha descritto dukkha in molti modi che sono esperienze comuni di vita quotidiana – avere quello che non voglio, non avere quello che voglio – come ci fa sentire questo? Prenderci il tempo e avere la volontà di guardare, di investigare. Sono queste le cose dalle quali spesso viene fuori la reattività maggiore.

Possiamo spesso essere molto più nobili e arrenderci alle situazioni molto angoscianti e non pensare, per prima cosa, a noi stessi. Ma per piccoli aspetti, per insignificanti, minuscoli aspetti, quando le cose non vanno come diciamo noi, come dico io, può essere del tutto esasperante! Ricordatevi di riflettere su questo in termini di Dhamma, non c’è bisogno di altri livelli di giudizio, non deve essere giusto o sbagliato, ma solo: “E’ questa la sofferenza?…. C’è dolore qui?” Riconoscetelo, accoglietelo e riflettete, “Come mi pongo in relazione a questo …. come si sopporta questo dolore …. perché fa tanto male?” e dove sentiamo il dolore?

Meglio andare direttamente alla contemplazione del Dhamma piuttosto che pensare alla cosa sotto l’aspetto sociale, o in termini di giusto e sbagliato, di come dovrebbe essere o non essere, e perché avevo le mie ragioni per dire così, ecc. Ci possono essere delle situazioni in cui questo è necessario, ma quando vogliamo lavorare a livello spirituale meglio prendere questo schema delle Quattro Nobili Verità, iniziando col riconoscere dukkha. Riconoscere che ha una causa e che la causa può, effettivamente, essere vista qui e ora nella nostra esperienza personale, non deve essere ripescata dalla memoria, nel tempo.

Pensiamo che la causa possa risiedere nel fatto che qualcuno abbia detto o fatto delle cose che ci hanno colpito, ma qual è la causa effettiva nel momento presente? E scopriamo sempre che è nella nostra relazione con la sensazione che sorge nel momento presente, nel modo in cui lottiamo con l’esperienza del momento.

E’ lì che dobbiamo guardare se vogliamo veramente liberarci da dukkha, perché finché viviamo, ci saranno sempre delle persone che, in un modo o in un altro, ci ‘offenderanno’. Quando siamo nel sentiero non significa necessariamente che tutto diventa più semplice, perché diventiamo più sensibili e le piccole cose possono offenderci veramente molto!

Inoltre, poiché il nostro cuore si apre di più, consentiamo di più alle cose di essere presenti, permettendoci di farne l’esperienza e, a volte, in quello spazio, stranamente le cose possono venire fuori in un modo più drammatico, anche violento. Ancora una volta, è qui che abbiamo bisogno di sviluppare la nostra capacità di visione profonda, di concentrazione, per essere contenitori quando arriva, per trattenerlo, per rimanerci ed esserne interessati, in quanto fenomeni, qualcosa di cui fare esperienza e dalla quale apprendere – perché, se non avessimo niente da imparare, sarebbe veramente molto stupido!

Prendetela come un’opportunità – il fatto che le esperienze indesiderate sono opportunità per la liberazione è la cosa più difficile da ricordare. Di solito, le esperienze che desideriamo avere non vengono prese come opportunità, ci perdiamo in esse, ne traiamo godimento; ecco perché la felicità non conduce al risveglio. Può essere di grande aiuto e incoraggiante, ma se non sappiamo come svegliarci allora, spesso, è quello che ci fa male che ci aiuta, che ci sprona a svegliarci. Abbiamo, però, anche bisogno di tenere conto di ciò che è piacevole; abbiamo bisogno di sentirci incoraggiati, di sapere come possiamo prenderci il tempo per riposare, per nutrirci.

 

‘Apprezzamento e gentilezza’

Uno dei sentimenti difficili che si possono presentare nella vita, è la sensazione di non essere apprezzati… (non sono sicura di come sia per gli uomini, ma per le donne ha un significato particolare) “Nessuno apprezza quello che faccio.” Può venire fuori in modi diversi, a volte portandosi dietro sensazioni dolorose d’alienazione o incompletezza, e dobbiamo trovare i modi per accoglierle. Non possiamo aspettarci che le persone ci apprezzino, che ci vogliano bene, che ci amino o che ci dicano cose belle, ma possiamo cominciare noi ad essere gentili con noi stessi. A prescindere dal fatto che è piacevole, perché abbiamo bisogno che gli altri ci apprezzino? Di solito si basa di nuovo su un senso d’insicurezza o sulla sensazione di non andare bene per come sono fatta, di non essere capace di apprezzare me stessa per quello che sono – forse cercando di esaudire le aspettative che qualcun altro ha nei nostri confronti, (che spesso siamo noi a creare e che poi proiettiamo sugli altri!)

In effetti, come succede per molte cose che pensiamo di avere bisogno da altri, possiamo cominciare a guardarci dentro e chiederci, “Perché ho bisogno che questo venga dall’esterno? E’ presente in me? Posso trovarlo in me stessa?” Se cominciamo a guardare, di solito, lo troviamo. Se sentiamo di avere bisogno d’apprezzamento, di amore o di attenzione, scopriamo che dentro di noi c’è uno spazio in cui possiamo permettere a quel sentimento di sorgere in noi stessi.

Concederci di amare noi stessi, di essere gentili e attenti nei nostri confronti, sembra un po’ troppo benevolo ed è molto difficile da fare. Finiamo per renderci conto di essere stati il nostro critico peggiore. Questa capacità d’essere gentili verso noi stessi genera un rilassamento profondo – essere totalmente tolleranti e aperti e amorevoli e comprensivi nei confronti di noi stessi, non in senso egoistico, ma come essere cosciente che fa questa esperienza, proprio ora, qualsiasi essa sia, concedendoci completamente.

Per iniziare ad apprezzare la vita in sé – la stessa consapevolezza, l’essere – c’è bisogno di questo livello di rilassamento in cui ogni momento può essere vissuto come qualcosa di completamente nuovo, non come qualcosa interpretato attraverso il filtro delle strategie dell’io condizionato. Questo livello di rilassamento può permetterci di ricevere pienamente qualsiasi cosa si presenta, sia piacevole che spiacevole – perché sappiamo di esserne capaci, sappiamo di avere il potere di amare, l’apertura del cuore per accoglierlo, per sopportarne le conseguenze.

Quando c’è la capacità di amare noi stessi, c’è la capacità di amare gli altri, comunque si presentino o qualsiasi sia l’esperienza che ne facciamo nel nostro cuore. Così è effettivamente possibile amare qualcuno che neanche ci piace, o amare qualcuno con il quale non siamo d’accordo, o qualcuno che dobbiamo licenziare o dal quale dobbiamo divorziare, o cose del genere!

E’ possibile avere quel tipo di apertura del cuore. Non significa che è tutto rose e fiori e che bisogna essere dolci e pensare positivo per tutti e tutto. E’ la capacità di rimanere presenti, rimanere nella realtà, rimanere aperti e rispondere piuttosto che reagire – rispondere da una posizione di compassione, di amore e di saggezza.

La saggezza è pienamente operativa in un cuore aperto. La saggezza non è una strategia o una tattica, è una cosa alquanto spontanea, una cosa alquanto intuitiva e non appartiene solo a noi.

 

Evam