Insegnamenti

Una via d’uscita

del venerabile Ajahn Sumedho

© Ass. Santacittarama, 2004. Tutti i diritti sono riservati.
SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.
Traduzione di Giuliano Giustarini.

Pubblicato in inglese nel ‘Forest Sangha Newsletter’, n. 54.

 

SPERIMENTANDO LA PRATICA DI CITTANUPASSANA, ho scoperto l’utilità di interrogarmi sul mio stato d’animo e di contemplarlo. È molto facile vivere in maniera meccanica: possiamo essere così coinvolti nelle nostre abitudini e reazioni da non riuscire a conoscere davvero i nostri stati d’animo. Una volta una persona mi disse che ero arrabbiato, e io lo negai; in realtà ero arrabbiato e non lo sapevo nemmeno, non riuscivo ad ammetterlo neanche di fronte a me stesso. Ma è solo riconoscendo questi aspetti che possiamo risolverli.


Le energie e le emozioni che proviamo possono essere spaventose, anche per noi stessi. Il mio carattere tende a voler vivere una vita felice, in cui tutti sorridono e si dichiarano felici anche se non lo sono. Dal momento che ci sentiamo minacciati, spaventati, una parte di noi non vuole contemplare, non vuole conoscere le cose così come sono. Non ci permettiamo di confrontarci con ciò che consideriamo cattive abitudini o problemi personali.


Penso che ci sia anche una paura della pazzia, di avere qualcosa di essenzialmente sbagliato. Possiamo pensare di avere qualche rotella fuori posto, poiché quando guardiamo noi stessi non riusciamo proprio a capire perché siamo così. Ricordo che, da giovane, gli uomini della mia generazione non ammettevano mai le proprie paure, preferivano recitare un ruolo, interpretare lo stile macho: “Non ho paura di nulla, io”. Era importante sembrare forti e invincibili. Quando ero in marina (Ajahn Sumedho ha passato quattro anni in marina come medico ausiliare) tutti assumevano questo atteggiamento, mentre io pensavo: “Diciamo tutti di non aver paura, ma io mi sento terrorizzato dalla morte. Devo essere l’unico sulla nave che si sente così. Non voglio che gli altri lo sappiano, non so cosa farebbero se lo scoprissero”. Credo che oggi gli uomini siano più disposti ad ammettere di fronte agli altri e di fronte a se stessi di aver paura, o di provare certi desideri, di sentirsi arrabbiati e via dicendo.


Io non sopportavo di sentirmi confuso, volevo sempre avere la certezza di tutto, volevo sentirmi dire cosa fosse giusto fare, volevo che tutto fosse disposto in modo da rassicurarmi. Provavo resistenza davanti all’incertezza o alla confusione e cercavo sempre di sbarazzarmene. Ma oggi il mio consiglio è che, quando ci si sente insicuri o confusi su qualcosa, si colga l’opportunità di contemplare la sensazione. Guardate dentro e chiedetevi: “Com’è…?”. Ascoltate dentro voi stessi: “In questo preciso istante c’è confusione. Non so cosa fare, non so cosa accadrà. Ho ragione o torto? Dovrei fare o no quella cosa?”. Quindi limitatevi a osservare questo stato d’animo come un oggetto mentale, senza giudicarlo, e vedete cosa succede.


Possiamo deliberatamente far emergere uno stato di dubbio, in modo da arrestare la mente pensante. Possiamo chiederci “Chi sono io?”, o qualsiasi domanda sollevi uno stato di dubbio. Allora è possibile essere consapevole di quello spazio nella mente in cui non c’è pensiero; utilizziamo così lo spazio tra due pensieri. Quindi, se abbiamo una certa inclinazione al dubbio, possiamo usare il dubbio come mezzo abile per sviluppare la capacità di conoscere il ‘non conoscere’. Vediamo l’essenza dello stato d’animo del non sapere, del non conoscere.


Possiamo anche formulare deliberatamente un pensiero e osservare lo spazio tra le parole. Per esempio: “Io sono un essere umano”. Prima di pensarlo, c’è una pausa, poi c’è ‘io’, uno spazio, ‘sono’, un altro spazio, ‘un’, spazio, ‘essere’, spazio, ‘umano’, fine. Nulla. Ci addestriamo dunque a osservare e a prestare attenzione al nulla, a uno spazio, fino al punto in cui la mente pensante non c’è. Ciò aiuta a sviluppare una consapevolezza connessa, una consapevolezza che non abbraccia soltanto le cose o le sensazioni, ma abbraccia anche il nulla, lo sfondo, la vacuità, lo spazio, il silenzio. Dobbiamo svegliarci, renderci conto che la mente non è condizionata a osservare il silenzio, nonostante sia evidente. È qui e ora, non lo costruiamo noi, e possiamo accorgercene all’istante, e risvegliarci al modo in cui esso è.


Perciò, in termini di stato d’animo, posso contemplare: “In che genere di stato d’animo mi trovo?”. Posso portare la consapevolezza nel corpo e vedere se c’è ansia, se mi sento insoddisfatto, se sto male, se sto bene, se mi sento felice, qualsiasi cosa. Qualunque sia lo stato d’animo, la nostra ‘atmosfera interiore’, posso esserne consapevole in quanto oggetto che sono in grado di osservare. Poi, una volta che ci abituiamo veramente a osservare lo stato mentale, non siamo più costretti a esserne vittime; non resistiamo più né indugiamo più in ciò che stiamo sperimentando.


Sapere in quale stato mentale vi trovate, sapere com’è, conoscerne la qualità, è a tutti gli effetti un Fondamento della Consapevolezza (satipatthana). Di solito, cerchiamo di manipolare, di cambiare gli stati d’animo, o cerchiamo di pensare in modo positivo per sentirci meglio; non sembra esserci nessuna via d’uscita da questa condizione. Ma è la meta religiosa la via d’uscita. C’è una via d’uscita dalla sofferenza, dal condizionato, da ciò che è nato, creato, originato. Per usare le parole del Buddha: “Vi è il non-nato, il non-creato, il non-originato. Se non ci fosse il non-nato, il non-creato, il non-originato, non ci sarebbe via d’uscita da ciò che è nato, creato, originato. Ma dato che vi è il non-nato, il non-creato, il non-originato, c’è una via d’uscita da ciò che è nato, creato, originato” (Udana, VIII, 3).


Questo tipo di via d’uscita è incoraggiato perché ci si possa liberare da quella prigione che è lo stato legato alla morte. Definiamo questo stato ‘legato alla morte’ perché, quando lo si contempla veramente, si riconosce che tutto ciò che riguarda i khandha(aggregati), come ad esempio i pensieri, i ricordi, le sensazioni, il corpo, tutto morirà, cesserà. Quindi, se ci si attacca ai cinquekhandha (che sono tutto ciò che c’è), in realtà ci si attacca alla morte. Malgrado le persone credano di essere attaccate alla vita, in realtà quando si attaccano, affascinate dalla dimensione condizionata, esse si attaccano alla morte. Possono dire di amare la vita, ma ciò che chiamano vita non è piuttosto la parte di un quadro più vasto che non viene ammesso alla piena coscienza? 


C’è sempre questa favola, questa ingenua speranza che la soddisfazione del desiderio sia la risposta alla nostra sofferenza: se incontriamo la persona perfetta saremo per sempre felici, se guadagniamo molti soldi saremo davvero felici; oppure crediamo che, se otteniamo tutto ciò che desideriamo, poi non avremo più altri desideri. Ma riflettiamo un po’: le persone che sembrano possedere tutto, stanno davvero bene? Vale la pena dedicare la propria vita a cercare di soddisfare tutti i desideri? Non ci vuole molto per capire che è una sorta di spreco, perché fin quando c’è attaccamento al desiderio, fin quando c’è questa illusione circa la natura del desiderio, esso perpetuerà sempre se stesso. Si può ottenere una gratificazione temporanea, niente di più. Si può ottenere ciò che si vuole, e lì per lì sentirsi gratificati, ma poi ricomincia, si cerca qualcos’altro, e qualcos’altro, e qualcos’altro. Questo avviene perché il problema di fondo è l’identificazione con il desiderio, l’attaccamento al desiderio.


Ma la nostra vera natura non è questa; non è il desiderio, non è la morte. C’è l’incondizionato, il non-nato, il non-creato, il non-originato: Amaravati, la dimora del senza-morte, che è senza tempo, presente qui e ora. E cosa significa questo, in termini di esperienza? Se pratichiamo per migliorarci o per ottenere qualcosa nel futuro, andremo sempre verso la sofferenza. Nella meditazione, non importa quanto ci si sforzi e si lavori per essere più disciplinati, quante ore al giorno si siede, se si continua a operare secondo questa illusione di fondo, alla fine il risultato sarà la sofferenza. Non si può ottenere l’illuminazione per mezzo dell’ignoranza.


Il modo per illuminarsi consiste nel risvegliarsi al presente, nell’avere fiducia nella capacità di ascoltare, di essere in uno stato di semplice consapevolezza. Può essere difficile, perché siamo programmati dalle passioni, a salire e scendere per la scala dell’avidità, dell’odio e dell’illusione in tutte le sue variazioni. Tuttavia, c’è ciò che è consapevole delle passioni, ciò che si può erigere grazie alla presenza mentale, alla consapevolezza del corpo, delle sensazioni, degli stati mentali e dei fenomeni mentali. La consapevolezza e la riflessione sui cinque khandha ci consentono di trasformare l’atteggiamento che teniamo nei loro confronti, invece che vederli sempre come ‘io e mio’.


Ciò che ci occorre nel rapportarci alle esperienze è una consapevolezza costante. Osserviamo il sorgere di una condizione, come l’inalazione di un respiro: essa inizia, raggiunge un picco, poi comincia l’esalazione, e l’esalazione poi finisce. Similmente, si può essere consapevoli della mutevolezza di uno stato d’animo. Quando si è sufficientemente pazienti e disposti a sostenere l’attenzione, uno stato d’animo è assolutamente impermanente, non è un blocco solido. Se non riconosciamo questa natura degli stati d’animo, saremo sempre costretti a indulgervi o a resistervi, ed essi avranno una grande influenza sul modo in cui sperimenteremo la vita. Ma nel momento in cui mi risveglio e presto attenzione, il mio rapporto con le condizioni cambia. Invece di rimanere ingannato dalla dimensione condizionata, la osservo. C’è lo stato del conoscere, dell’essere consapevoli della mutevolezza dei fenomeni condizionati, e dietro c’è l’incondizionato. Con la consapevolezza intuitiva, vediamo il silenzio, l’incondizionato, come uno sfondo che abbraccia tutto, all’interno del quale le condizioni appaiono in prospettiva. Le condizioni sono così come sono; ma poi finiscono, cessano.


Sul piano personale posso sentirmi spaventato: anche pensare all’illuminazione o a realizzare il senza-morte può essere visto come una sopravvalutazione o come un’illusione. A volte preferiamo pensare a noi stessi in termini negativi perché pensiamo che essere umili e ammettere i propri errori significhi essere sinceri. Ma in realtà dobbiamo lasciare andare quel lusso di considerarci una persona danneggiata o una povera vittima delle circostanze. Possiamo lasciare andare pensieri come “mia madre non mi ha mai amato, ecco perché sono così”, o “non ho mai avuto le opportunità che hai avuto tu”, e così via. Non voglio scherzare su queste cose, ma sottolineare il fatto che se siamo attaccati a questi ruoli, allora sperimenteremo sempre la vita in questo modo. Ma c’è una via di fuga, c’è una libertà dalla sofferenza dell’illusione e dal potere del condizionamento.


Potremmo pensare: “D’accordo, il Buddha ce l’ha fatta, ma è stato più di duemilacinquecento anni fa, ed è solo una diceria. Io non ho conosciuto Gotama il Buddha, magari è tutta un’invenzione, forse non è mai esistito nessun Gotama il Buddha”. Ma se si pratica e si sviluppa la consapevolezza, non ha importanza se il Buddha sia mai esistito, perché l’insegnamento funziona. Non ci serve un rigore storico, è meglio chiederci se funziona, se c’è una via d’uscita dalla sofferenza, se è possibile conoscere quando c’è la sofferenza e quando non c’è.


La dimensione in cui viviamo come esseri umani è essenzialmente una dimensione in cambiamento. Ed è una dimensione karmica: ogni cosa dipende da qualcos’altro. Avere un corpo umano ci connette alla condizione dell’invecchiamento. Se voglio, posso aggiungere sofferenza al processo di invecchiamento di questo corpo. Le persone lo fanno, no? Pagano miliardi per la chirurgia estetica e per modificare ogni cosa, per tenersi in linea, sembrare giovani e così via. Questo perché se ci si identifica con il corpo, allora quando, come è naturale, esso comincia a invecchiare, si soffre.


Il Buddha invecchiò, ma non soffrì. Ebbe malattie, ma non soffrì. Non soffrì quando il suo corpo morì e non soffrì quando fu biasimato per cose che non aveva fatto. Al Buddha accaddero molte cose terribili. Secondo le scritture, dovette affrontare molte condizioni davvero tristi: ebbe monaci e monache difficili, fu attaccato da un elefante impazzito, suo cugino cercò di ucciderlo, eppure il Buddha non soffrì. Era forse impenetrabile, come se non gli importasse niente di niente e non sentisse niente di niente?


Quando sperimentiamo il processo di invecchiamento, il dolore della malattia, il disagio, quando le cose vanno male e siamo biasimati per cose che non abbiamo fatto, o quando c’è la morte di qualcuno che amiamo, c’è un sentimento naturale, ma dobbiamo proprio aggiungere sofferenza a questo sentimento? Vediamo che è così com’è, è l’eredità del karma nel presente, sentiamo com’è. Ma la sofferenza che aggiungiamo è causata dall’attaccamento a queste condizioni. Quando non c’è attaccamento, proviamo comunque il dolore, il disagio, i sentimenti naturali che emergono di fronte alle difficoltà, l’eredità karmica della nostra vita, ma non aggiungiamo rabbia, risentimento, resistenza, biasimo, autocommiserazione, paura, desiderio.


Possiamo farci questa domanda: “Perché c’è tanto stress in una società che si sforza di creare una tecnologia per rendere la vita più facile?”. In realtà abbiamo reso la vita molto più stressante. Ci sono le lavatrici, i forni a micronde, le lavastoviglie, affinché la casalinga non sia costretta a stare sempre in cucina e abbia più tempo. Tempo per cosa? Per viaggiare, per preoccuparsi e per stressarsi, coinvolta in tutte quelle cose per cui prima, quando la vita era molto più semplice, non c’era tempo! Abbiamo tutti questi espedienti per risparmiare tempo sul lavoro, ma poi riempiamo il tempo con attività che creano stress e problemi psicologici.
Il mio suggerimento è di semplificare le cose non per riempire il tempo con attività, ma per avere più tempo libero per sviluppare la meditazione nella vita quotidiana. È bene vedere la meditazione come qualcosa da apprezzare e rispettare veramente, piuttosto che come qualcosa da fare come routine la mattina prima di andare al lavoro. Se si considera la meditazione solo come qualcosa da fare quando se ne ha tempo, è fuori di dubbio che dopo un po’ non si avrà più tempo per farla. Tutto il resto sembra molto più urgente della meditazione, perché la meditazione sembra solo starsene lì seduti senza fare niente. In famiglia possono pensare: “Se ne sta lì seduto, non fa nulla. A che serve? Dovrebbe fare qualcosa”.


Questo è il tipo di società in cui viviamo. Ma se si è veramente interessati a sviluppare la meditazione, allora occorre darle una collocazione importante, coltivare un modo di vivere che offra davvero opportunità di riflessione silenziosa. Bisogna coltivaresamatha e vipassana, e quindi integrarle nella vita quotidiana. Allora è possibile imparare molto sul modo in cui le cose sono. 


Con cittanupassana si può essere consapevoli dei propri sentimenti verso le altre persone. Se si prova rabbia nei confronti del marito, si può quanto meno osservarlo: “In questo momento c’è rabbia, ed è fatta così…”, invece che rimanere catturati nella critica o nel cercare di non ammetterlo. Ammetterlo non significa che sia permanente o diverso da così com’è. Osservare che è così com’è aiuta a rilassare la tensione, perché non se ne è prigionieri. Considerate il modo in cui, se si è infatuati di qualcuno, non si vuole pensare che ci sia nulla che non va in quella persona. Anche se sbaglia, non ha importanza, ci si può passare sopra. Ma se stiamo biasimando qualcuno, ci è difficile ricordare qualsiasi cosa di buono questa persona abbia fatto, mentre riusciamo a ricordare accuratamente tutto ciò che abbia fatto di sbagliato!


Nella pratica della consapevolezza, siamo disposti a sviluppare nella nostra mente la pazienza per il lato sgradevole della vita. Siamo disposti a lasciare che i cattivi pensieri, i risentimenti, ogni genere di emozioni negative, siano coscienti e siamo disposti a lasciare che siano così come sono. Confidiamo nel nostro Rifugio e semplicemente lasciamo che gli stati mentali siano così come sono, senza aggiungerci sensi di colpa o resistenza. La sensazione rimane la stessa: se c’è un pensiero cattivo sentiamo che è cattivo, ma la nostra relazione con esso è una relazione di gentilezza, di pazienza. Ciò, allora, permette alla condizione di cessare. Si dissolve. Finisce. Perciò, se riconosciamo e comprendiamo i nostri stati d’animo e i loro effetti, non aggiungiamo più sofferenza a questi stati e non creiamo sofferenza nei rapporti con gli altri esseri umani.