del venerabile Ajahn Sucitto
© Ass. Santacittarama, 2011. Tutti i diritti sono riservati.
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Traduzione di Gabriella De Franchis
QUESTA SERA VORREI PARLARE DI MERITI, o puñña, un argomento che spesso non viene compreso in modo chiaro.
Ebbene, nella cultura buddhista Theravada del sud est asiatico, l’acquisizione di meriti, principalmente attraverso atti virtuosi, di generosità e di gentilezza, è un aspetto molto importante. Purtroppo, però, questo può essere interpretato come comprarsi un posto in paradiso:con ciò che si fa adesso ci si assicura una fortunata rinascita futura. Sono sicuro che molte persone considerano i meriti proprio in questo modo, ma è importante riflettere sul vero significato di merito nell’insegnamento del Buddha.
La stessa parola ‘merito’ sembra derivare dal linguaggio dei boy scout, i quali ricevono distintivi e punti perché si sono comportati molto bene. Io non ne ho mai preso uno. La parola Pali è puñña e le parole inglesi che derivano da puñña sono hanno invece i significati della strana parola ‘boon’ (beneficio, vantaggio) o la della parola ‘bounty’ (generosità, dono, abbondanza), che è ancora in uso.
‘Bounty’ dà una sensazione di benessere interiore, di pienezza, una specie di garanzia, di beatitudine, o una sorta di dono,di benedizione. Coltivare puñña, quindi, significa coltivare il benessere interiore o accumulare benessere spirituale.
La forza spirituale, la fermezza e il coraggio si possono coltivare, ma non si tratta di qualità interiori che riguardano l’‘io’, il successo o l’attaccamento. Il risultato naturale della buona pratica è che, col tempo, si sviluppa una certa chiarezza della mente, una certa obiettività, una certa leggerezza nel cuore. E’ proprio questo il risultato della buona pratica. L’ esperienza può essere vista in un altro modo e cioè valutando che questi buoni risultati sono puñña o meriti che derivano dalla buona pratica. L’intera pratica del Dhamma riguarda l’abbandono dell’egoismo. Naturalmente se realizzando un punto di vista egoistico ci poniamo il problema di come acquisire più meriti, per poterci divertire di più e per avere una vita migliore, allora non otteniamo assolutamente alcun merito perché siamo partiti da presupposti sbagliati.
L’ esperienza deve venire da una genuina assenza del sé che, in sostanza, è quello che viene affrontato nella pratica del Dhamma. Ciò che unisce coloro i quali preferiscono meditare e quelli che preferiscono coltivare le buone qualità, è il fatto che in entrambi i casi si coltiva la mancanza di un ‘sé’. Se meditiamo con una prospettiva ‘egocentrica’ non otteniamo meriti; abbiamo invece la sgradita possibilità di entrare in stati mentali molto oppressivi, di diventare ossessivi, nevrotici, fanatici o arroganti. In questo modo non si compie una pratica che arricchisce il cuore, ma si coltiva semplicemente un altro atteggiamento meschino.
E’ importante fare queste riflessioni sul merito perché ci permettono di capire che la pratica, se abilmente stimolata, dovrebbe condurre ad una vita piena, a qualcosa di tangibile che siamo in grado di apprezzare: un cuore aperto, una sensazione che affiora quando ci accorgiamo che non siamo più disturbati da sollecitazioni che solo pochi anni prima ci avrebbero infastidito parecchio. Con la pratica correttamente eseguita si trova una certa stabilità o centralità. Naturalmente non stiamo considerando la pratica del Dhamma come se fosse sola meditazione. Vogliamo praticare l’Ottuplice Sentiero, l’intero corso di meditazione, quindi esprimere qualità interiori ed esperienziali come Retto Pensiero, Retta Parola, Retta Azione e coltivare puñña o benedizioni nella nostra vita quotidiana. Non vogliamo una vita di entropia costante, che ci consuma a poco a poco e che ci lascia solo con uno stipendio, una casa e niente che ci dia veramente benessere o pienezza. Vogliamo progredire nella vita in modo da sentirci internamente migliori, più sicuri e più forti.
Però, il mondo del materialismo non è un luogo di meriti perché non è orientato verso la mancanza di un sé. L’etica materialista ci porta a dare valore al possesso, alla proprietà, ad ottenere di più per noi stessi. Qualsiasi sia il nostro punto di vista personale, quello che viene fuori, sotto svariate forme, è che ciò che importa è avere di più: avere la cosa più recente o la più nuova, la più veloce o la più forte per affermare che quello che abbiamo è più importante di quello che siamo.
Un modo facile per sviluppare meriti è quello di usare il mondo materiale come un luogo in cui si può dare e condividere. Questo modo di usare le risorse materiali per il nostro benessere, per il benessere della persona interiore, dello spirito o del cuore, è molto diretto. Se agiamo in modo veramente generoso e altruista, in armonia con noi stessi e con le giuste intenzioni, nella mente rimane una qualità meravigliosa. La vita non viene vista come qualcosa che riguarda solamente l’ ‘io’ e il ‘mio’, abbiamo una visione delle cose molto più ampia.
In uno dei Sutta buddhisti ricordo di avere letto qualcosa su Anathapindika e Visakha, due dei grandi discepoli laici. Questi, pur donando parecchio di quanto possedevano, erano sempre molto ricchi e si resero conto che una cosa che spesso assilla le persone ricche e che non riescono ad evitare, è che non solo l’accumulo di ricchezze non porta la felicità, ma porta, di fatto, ad uno stato di estrema paura e ansietà, ad essere schiavi di ciò che si possiede. Se il proprio tempo viene usato principalmente per accumulare ricchezze, saremo presi dalla paura di perderle, non saremo in grado di avere fiducia in nessuno e penseremo che ‘forse le persone ci sono così vicine solo per le nostre ricchezze.’ Avere a che fare con tanto denaro, cosa desiderata ardentemente dalle persone e che produce simili reazioni malsane, significa vivere in una condizione che non favorisce l’elevazione spirituale.
Ma Anathapindika e Visakha volevano usare le loro risorse finanziarie perché portassero loro gioia, per sentire di avere fatto delle azioni sublimi. Visakha stessa chiese al Buddha se le concedeva otto benefici, otto favori. La sua risposta fu: ‘Visakha, i Buddha non scendono a patti. I Perfetti sono oltre il mercanteggiare’. E lei disse: ‘Ma queste richieste sono senza macchia, oh Beato, sono richieste pure.’ Allora egli disse: ‘Bene, dì quello che vuoi.’ E Visakha rispose: ‘Vorrei potere offrire alle monache degli indumenti per il bagno, in modo che non debbano andare a fare il bagno al fiume nude,inoltre crema di riso per i monaci e le monache malati e un indumento ai monaci per la stagione delle piogge, così che abbiano qualcosa da indossare quando piove e le loro vesti siano asciutte’. E aggiunse: ‘Vorrei fare questo per avere la grande gioia di ricordare quante persone buone e nobili ho aiutato. Questo calmerà e aprirà la mia mente e servirà come base perché altri fattori d’illuminazione sorgano in me.’ Visakha era molto saggia. Aveva una miriade di figli e nipoti e durante la sua esistenza fu una donna molto importante. A quei tempi, come ora, la quantità di potere finanziario e familiare di cui potevano disporre le donne indiane era davvero tanto. Visakha sapeva veramente come usare al meglio le sue ricchezze.
La maggior parte delle persone, non ha esattamente questa visione della propria vita, non è vero? Non pensiamo alle cose che potrebbero darci gioia, energia e calma, o a porre le basi per la consapevolezza e il raccoglimento interiore, perché, in un certo senso, ci sembrano esperienze lontane. Il Buddha raccomandava anche di considerare qualcos’altro che a noi sembra lontano da venire: la nostra stessa morte. Nelle riflessioni buddhiste la vita, intesa in modo convenzionale, è considerata come un progredire dalla nascita alla morte. Questo è quello che è; e noi usiamo il tempo facendo cose che ci riempiono la vita e che ci rendono felici, ma quello che in realtà facciamo è nascere e poi morire. La ricerca dell’essere umano sta nel trasformare questo breve passaggio transitorio in qualcosa che in qualche modo vada oltre e che diventi per noi la dimensione più importante o la più soddisfacente. Quand’è che potremo elevarci realmente o trovare una via d’uscita dalla mera disperazione della mortalità? Queste virtù trascendentali o paramita, delle quali la generosità è la prima, sono modi per sviluppare i meriti o la bellezza nel cuore. Il momento della morte è il momento in cui la coscienza, vincolata allo stato mentale stesso della persona nel momento della morte, rinasce. Tuttavia, anche da vivi possiamo vedere che il processo di rinascita è in continuo movimento. La nostra condizione attuale è il risultato delle azioni fatte e degli atteggiamenti avuti nei mesi o anni passati. Se viviamo gioiosamente, senza colpe, se siamo in grado di essere contenti di quello che facciamo, allora in questo momento e in questa vita conosciamo felicità e appagamento.
Così puñña si può realizzare anche in questa vita. Non dobbiamo aspettare di morire per vedere se funziona.
Senza dubbio, se le persone altruiste e generose sanno dove guardare nei loro cuori, riescono a provare una grande felicità attraverso questa sensazione di purezza e di appagamento. Conseguire disciplina o virtù, è uno dei grandi vantaggi per un Samana. Si dice che un monaco che si attiene alla disciplina è un monaco che fa una buona pratica. Questo non significa solo che ricorda tutte le regole, ma che, attraverso il suo addestramento personale, la sua mente è diventata molto dolce e malleabile: non è più minacciosa, inferocita, violenta, autoritaria e aggressiva; è una mente addestrata. E si dice che una mente simile abbia il profumo della virtù o silagandho. Una mente non litigiosa, non turbolenta, non aggressiva ha in sé una bellezza praticamente tangibile; quindi, questo è un altro tipo di puñña o merito che si può sviluppare.
La generosità e la moralità sono due delle dieci paramita. Un’altra è la rinuncia. Il risultato della rinuncia o nekhamma è incantevole. E’ qualcosa che sviluppa realmente grandi meriti, ma non nel senso che se operiamo bene poi alla nostra morte avremo dei bei voti sulla pagella. Il grande beneficio, o il grande dono della rinuncia, è nella sensazione di essere contenti con poco, con le cose semplici. Il dono di una mente felice o in buono stato, di una mente che ha imparato ad essere contenta con poco, è percettibile, tangibile, è qualcosa che possiamo realizzare nella nostra vita.
Le altre paramita sono: la pazienza, la comprensione, la forza, la determinazione, la gentilezza amorevole, l’equanimità o la serenità e l’onestà, e nessuna di queste è completamente assente nelle nostre vite di tutti i giorni. Vivere facendo in modo di essere un po’ più pazienti, più onesti con noi stessi e con gli altri, o in modo da mettere da parte le esperienze che non sono veramente necessarie, non è una cosa che ci trova necessariamente contrari, è solo che spesso non le diamo particolare importanza. Quelle cose che non mettiamo da parte, non sono necessariamente dannose, però riempiono uno spazio e invece di stare a riempire il tempo e lo spazio, potremmo usare questo tempo per guardare la nostra mente, per esercitarci a progredire in qualche modo.
Queste possibilità non sono remote. In effetti, il mondo sembra sia qualcosa che, solo per restare sani di mente e di spirito, ci chiede di avere paramita, qualità trascendentali. Se non abbiamo pazienza o equanimità, allora il mondo è un luogo di disperazione, non è vero? Se non siamo in grado di riconoscere, accettare e abbracciare, come cose uguali, l’oscurità e la tristezza, le promesse e la speranza, con animo sereno e fermo, allora la nostra mente sarà sempre dilaniata dalla speranza e dall’afflizione.
Nei paesi buddhisti, la paramita dana, o merito attraverso la generosità, è forse la più semplice e la più diretta – si tratta semplicemente di usare le cose materiali. Però, è anche quella che presenta più problemi.
Lo stesso Buddha ha detto che, quando il dono è fatto a persone meritevoli e specialmente quando il dono viene fatto al Buddha, si ha un più grande beneficio. Suppongo che, nel leggere questo, possiate avere qualche sospetto pensando che quello che intendeva dire è: ‘La forma più elevata di dono è offrire le cose a me.’ Tuttavia vediamo che ogni volta che le persone donavano delle cose al Buddha, egli tendeva a distribuirle al Sangha piuttosto che tenerle per sé. Il semplice fare delle offerte al Buddha significa che in cuor nostro abbiamo la sensazione di avere usato le cose di cui disponiamo nel miglior modo possibile; le abbiamo date ad un essere molto saggio e compassionevole che non le userà in modo egoistico o avido o che abuserà della nostra fiducia.
Nello stesso discorso il Buddha ha detto anche che osservare il respiro – un’inspirazione che viene e una espirazione che va, è meglio che fare delle offerte ad un Buddha. E qui, come spesso accade negli insegnamenti del Buddha, c’è un capovolgimento. Abbiamo questa serie di esseri meritevoli che vanno dal semplice monaco o dalla semplice monaca all’essere realizzato, al completamente santo, a tutto il Sangha e poi al Buddha, ma egli dice che essere capace di guardare una inspirazione e una espirazione è un tipo di merito più elevato.
Allora vediamo, quanti di voi, praticando la meditazione, sono soddisfatti di un’inspirazione e un’espirazione? Vi fa stare bene il fatto di riuscire ad osservare un’inspirazione e un’espirazione?
In quest’ultimo fine settimana una signora mi ha detto: “Oh, è molto difficile essere completamente consapevoli del respiro. Sono davvero pochi quelli che lo possono fare.” Io le ho detto: “No, chiunque lo può fare. Inspira.” Lei ha inspirato e io ho aggiunto: “Sei consapevole di questo? Ora espira.” Ha espirato. “Ne sei consapevole? Ci sei riuscita! Sei stata completamente consapevole del respiro. Ecco fatto! Non c’è alcun problema!” Naturalmente la maggior parte delle persone vuole essere in grado di farlo per ore e ore prima di trovarne giovamento. Di fatto non si tratta d’altro che di una semplice inspirazione, di un’espirazione e poi di una esecuzione ripetitiva dello stesso processo. Ecco dov’è che le nostre menti non funzionano; non sono in grado di rimanere in quell’istante, ed è lì la difficoltà.
Effettivamente è molto facile osservare una inspirazione e una espirazione, ma riuscire ad essere semplicemente questo significa, in qualche modo, sviluppare tutte le paramita in un solo momento, dato che il nostro istinto basato su un sé ci porta a volerne ricavare qualcosa. Pensiamo: ‘Se riesco a fare bene questa meditazione, se riesco veramente ad allontanare tutto, se riesco a fare un’ora di buona pratica, tutto questo mi darà lo slancio per raggiungere una condizione più elevata e più calma.’ E pensiamo: ‘Più a lungo lo faccio, più mi elevo. Un ritiro di dieci giorni mi porterà tanto in alto da farmi raggiungere davvero qualcosa!’ Questo è un modo di vedere egoico, non è vero? E’ la forma raffinata di un punto di vista sul sé, però è ancora credere in una persona storica che permane nel tempo, un certo essere o una certa cosa che deve essere mantenuto nel tempo.
Se osserviamo meglio, ci rendiamo conto che niente dura nel tempo eccetto il kamma, la rinascita, il processo di causa-effetto: questo causa quello. Le cellule di questo corpo si dividono costantemente e ogni secondo vengono via dei pezzetti. Se avessi una vista acuta, forse lo potrei vedere mentre succede. Anche adesso mentre parlo, pezzetti del mio cervello si stanno spegnendo; fortunatamente ce ne sono a iosa quindi non arriverò alle 7.30 in uno stato di completa idiozia! Questo intero sistema, quello che sembra essere un ‘io’ permanente e costante, assomiglia di più ad una fontana dalla quale sgorgano cose nuove e nella quale affondano le vecchie, una cascata costante. Ecco cos’è la nostra vita. Non è così? Posso dire che sono un corpo solido, rimasto seduto qui dalle 6.30 alle 7.30, ma in realtà che cosa è che sta seduto qui dalle 6.30 alle 7.30? Chi? Un corpo in costante cambiamento, stati mentali e qualità emotive che cambiano costantemente, stati di energia che mutano frequentemente, comprensione e incomprensione, interesse e senso di noia e così via. Tutto è in costante cambiamento; ma imparare la lezione, comprenderla e attenersi ad essa, è un po’ difficile. C’è ancora una parte di noi che pensa: ‘Si, è vero, ma ci voglio ricavare qualcosa.’
E’ vero che possiamo fare delle cose che saranno causa di una rinascita fortunata, di conseguenze piacevoli. Per dirla in modo molto semplice, oggi io sono in grado di parlare con voi a causa di una serie di esperienze, una di queste è che ho mangiato abbastanza regolarmente negli ultimi trentanove anni: questa è stata una causa per questa sera ed è un suo effetto. Voi dovete questo incontro a fagioli, pane, burro, riso e così via. Questo discorso è la rinascita del riso, dei fagioli e di alcune patate; questo è il prodotto di quella energia e i pensieri che ci attraversano la mente sono in parte la conseguenza del fatto di avere mangiato. Naturalmente se non l’avessimo fatto, ora non saremmo vivi.
Quindi, sicuramente possiamo fare cose che influenzano il kamma, l’andamento della nostra vita e il modo in cui si svolge, senza che il nostro senso di identificazione con il kamma o il nostro senso di liberazione da esso ne vengano realmente influenzati. Per quanto riguarda quello che possiamo fare avendo un punto di vista basato su un sé, è solo essere in grado di influenzare il ritmo del nostro kamma. Questo corpo, per quanto possa nutrirlo, morirà. E’ così che vanno le cose. Proverà il dolore, si ammalerà, si stancherà e avrà fame. Non importa quante volte mangio, gli viene sempre fame. Quindi, non possiamo veramente influenzare la natura basilare del kamma. Se non si realizza alcun merito, allora questa sensazione di ‘Io sono’ viene mantenuta per tutto il tempo con: ‘Io sono felice’, ‘Io sono triste’, ‘Io sto facendo progressi’, ‘Io sto andando indietro’ e così via. Il tipo di merito più alto è quello che ci libera dal kamma, dal processo di identificazione con questa formazione kammica. Ecco dove la meditazione diventa di primaria importanza e fonte di grande merito.