del venerabile Ajahn Sucitto
© Ass. Santacittarama, 2016. Tutti i diritti sono riservati.
SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.
Traduzione di Roberto Bertozzi.
Dal “Forest Sangha Newsletter”, N. 37.
In questo discorso, offerto durante un ritiro invernale ad Amaravati, Ajahn Sucitto spiega in che modo possiamo mantenere un atteggiamento di devozione quando i canti sono finiti, celebrando e onorando ogni momento dell’esistenza.
OGNI mattina iniziamo la giornata con una puja. È una celebrazione del Risveglio del Buddha, un atto di lode e apprezzamento. Rimanere con la puja e prolungare il nostro gesto d’offerta anche quando i canti sono conclusi, può essere visto come un eccellente yoga spirituale. Invece, cantare qualche parola per poi alzarsi e andarsene, dimenticandoci della puja non appena il canto finisce, non è un vero esercizio dello spirito. Forse si produce un temporaneo innalzamento dell’energia, ma quando ce ne andiamo lo abbandoniamo. Magari torniamo a osservare i cinque khandha, ad inciampare nei pensieri, nelle percezioni e nelle sensazioni – che ci afferrano stretti più di quanto noi potremmo attaccarci ad essi. Ma se ci fermiamo a riflettere su questo insegnamento, questa formazione nel Dhamma, scopriamo che non è un insegnamento terreno. Comporta l’attivazione e il rafforzamento delle cinque facoltà di sostegno, i cinque indriya, perché diano alla luce lo spirito e la fede. La puja, in questa prospettiva, è una generazione dello spirito, un suo risveglio, il farlo sorgere e attivarlo. Possiamo attivare lo spirito tramite la fede quando ci ricordiamo del Buddha che tocca la terra, portando il Risveglio nel mondo, nella coscienza.
All’interno della nostra formazione spirituale lavoriamo molto sulla concentrazione e sulla calma, ma è sempre necessario impostare un’attitudine corretta – l’elemento della fede – prima di iniziare a concentrarci e calmarci. Senza fede, ci concentriamo sugli attaccamenti e sulle vecchie abitudini interne ai cinque khandha, bloccandoci in specifiche percezioni e formazioni mentali. Non ci concentriamo sulla cosa giusta. Se la qualità della consapevolezza non è stata risvegliata, rimaniamo fermi sulla vecchia esperienza di afferrare o di essere afferrati.
Quando iniziamo una puja senza aver calmato la mente e senza esserci rivolti all’interno, in uno spazio al di là dell’intromissione dei sensi, allora la puja non è completa né perfetta. Se tutto si riduce a quello e ce ne andiamo, senza dedicarci a coltivare la consapevolezza del respiro, senza metterci la dovuta attenzione, allora l’intera esperienza diventa solo qualcosa per cui troviamo un po’ di tempo libero, senza rifletterci. Coltiviamo l’attaccamento a tecniche, rituali, regole e sistemi, non la consapevolezza. E questo è uno dei maggiori impedimenti. Recitare i canti, la consapevolezza del respiro – perfino la meditazione stessa – possono diventare solo l’ennesimo rituale che ripetiamo ciecamente o automaticamente, senza sentirlo in profondità. La meditazione può diventare un’altra abitudine, un modo per non relazionarsi a nulla o per non farne esperienza, una risposta cieca e una via di fuga dal qui ed ora. E allora non stiamo meditando: sonnecchiamo, ci addormentiamo o entriamo in uno stato mentale ottuso. Sebbene possiamo immaginare noi stessi mentre respiriamo, in realtà cadiamo in uno stato percettivo assai più simile al torpore che non alla calma: è facile confonderli. Le cose possono essere quiete, ma non è la quiete di una mente chiara, non è una calma illuminata; c’è torpore nella mente, che non sente e non percepisce un granché – uno stato indolente, morto.
La puja, usata in modo appropriato, ha l’effetto di energizzare la fede, anche se apparentemente è solo una forma esteriore, e potrebbe essere compiuta ogni giorno in modo superficiale e automatico. Pensiamo: “D’accordo, questo è quel che facciamo” … ma quando l’abbiamo fatto ogni giorno per cinque anni o più, possiamo diventare completamente insensibili e rassegnati, piuttosto che donarci ad essa. Forse iniziamo a percepire della resistenza o della negatività che sorgono, ma dobbiamo capire che questo avviene solo perché la puja non è stata fatta in modo appropriato. Non c’è alcuna offerta del proprio spirito: al suo posto c’è solo un’attività reiterata e priva di senso, un sankhara mentale.
Cos’è allora questa fede che sorge? E in che modo possiamo farlo succedere? Dobbiamo trasformare deliberatamente la puja nella nostra offerta al Triplice Gioiello – il Buddha, il Dhamma e il Sangha – e rimanere mentalmente attenti, attivando ed esercitando le facoltà spirituali. Questo si fa concentrandosi in primo luogo sulle qualità del Buddha, ricordando la sua Illuminazione e il suo insegnamento sull’Ottuplice Sentiero, riconoscendo in lui colui che si è pienamente risvegliato, e realizzando noi stessi le Quattro Nobili Verità. Anche in questo stesso momento vediamo sorgere nel mondo ogni sorta di dolore e piacere, noia e dubbio, desiderio e così via – tutte le forze positive e negative della mente. Quindi c’è il Dhamma, la Verità ultima – una qualità onnipresente, totale, unificante e assoluta: è all’interno di tutte le condizioni, siano esse dolorose o piacevoli, sottili o grossolane, fisiche o mentali. È qualcosa che dobbiamo realizzare in prima persona. Non dobbiamo trovarlo o trasformarci in esso: dobbiamo solo aprirci. Include ogni cosa e ci invita: ci accoglie, non è distante. Ha una qualità amorevole, espansiva: “Ti prego, vieni” – e niente affatto un’attitudine del tipo: “Non provare ad avvicinarti, calpestandomi tutto con la tua sudicia mente!”. Questo “ehipassiko, opanayiko” è qualcosa che possiamo sperimentare tutti quando la fede è sorta. Siamo invitati a protenderci verso il Dhamma. Questo è tutto ciò che si può dire, perché le parole sono insoddisfacenti e mutevoli. Ma se riusciamo ad aprirci al qui ed ora, se riusciamo a portare nel cuore queste riflessioni, ci dischiudiamo a un maggior movimento dello spirito. E allora c’è la fede nel Sangha. È la possibilità per la limitata e personale esperienza kammica che chiamiamo “il nostro sé”, di connettersi, associarsi ed essere recuperata in ciò che è ultimo e supremo. Questo è uno dei numerosi miracoli – e sono tutti miracoli nel Triplice Gioiello– che possono verificarsi quando si sperimenta uno stato di unità o completezza, un compimento.
La maggior parte delle religioni riconosce e fa riferimento a questo spirito del Divino, il Sublime, il Brahman, l’Atman o Dio Onnipotente, ma poi ogni volta ci si chiede: “Come ci arriviamo?” Il Sangha è una qualità della fede e dell’energia, una riflessione consapevole che caliamo nel momento presente, il riconoscere che anche l’aspirazione ad essere con il Dhamma È Dhamma. Lo è di già. Osserviamo ciò che ci ha portato tutti ad essere qui: cos’è che in effetti ci spinge a ritrovarci per la puja del mattino, o ad andare oltre nella Vita Santa? Che cos’è? Potremmo pensare: “Io voglio farlo”, “Sentivo che era opportuno farlo”, oppure: “Se non l’avessi fatto, sarei stato biasimato o mi sarei sentito a disagio con me stesso”, oppure ancora: “Nel momento mi è sembrata una buona idea”. Tutti questi pensieri e attitudini possono farsi avanti, ma questo è solo uno schermo del pensiero, spesso macchiato dall’autocommiserazione.
Cos’è dunque che ci spinge al Risveglio? Si tratta, in effetti, di un aspetto del Risveglio stesso. È anche un aspetto essenziale del Dhamma: è come il Dhamma che cerca se stesso, che si celebra. Quando prendiamo parte a una puja non stiamo cercando di stabilire la calma – perché è una celebrazione, un apprezzamento e una gioia per il mondo. In questo modo possiamo osservare le nostre abilità di vedere e sentire come un aspetto del Dhamma. Possiamo notare la nostra fisicità, le sensazioni nel corpo, o la qualità pensante della mente: che cosa sono? Chi lo fa? Da dove vengono? Ci facciamo catturare da una visione basata sul sé, nel provare piacere per questo e dispiacere per quello, chiedendoci che fare, cercando di sfuggire a questo o a quello. Invece, possiamo notare che c’è la sensazione, c’è la coscienza… e allora, che cos’è? Cos’è ciò che è in grado di vedere o di notare che sta osservando, o che può essere cosciente dei pensieri, delle emozioni e delle sensazioni, e guardale mentre cambiano? Durante la puja non cerchiamo di meditare seguendo sistemi predeterminati. È un gran rimescolamento, un dispiegarsi. È una celebrazione e un dilagare tutt’attorno, per radicare e far sorgere fede, energia e consapevolezza. Perché non andare in nessun luogo, perché ritirarsi nell’indolenza della mente? In questa celebrazione e riconoscimento delle meraviglie del Triplice Gioiello, il nostro spirito può emergere all’ascolto, alla vista, alle sensazioni nel corpo, sensazioni di fresco o calore, o il respiro. Invece, con una visione personalistica, la nostra forma fisica rimane solo un sacco di percezioni che zoppica. Anche la mente può semplicemente rigurgitare frasi, emozioni e sensazioni abituali – come un vecchio e stanco pappagallo che blatera sulla vostra spalla: “Polly vuole un cracker!” Ma noi possiamo ringiovanire questo zoppicante e fradicio uccello della mente: possiamo pulirlo, farlo risplendere, far sì che canti e danzi. Possiamo volare mentalmente, notando: qui c’è un pensiero, qui c’è una sensazione – e tutto è in cambiamento, momento dopo momento. Tutto è una danza, immediata del momento presente. E allora perché scappare da questa puja dello spirito, perché non unirci ad essa? La percezione cambia se ascoltiamo interiormente con l’orecchio il silenzio (e possiamo sentire differenti toni nella percezione del silenzio), o se invece ascoltiamo esteriormente il silenzio e i suoni. Quando questi aggregati non sono oggetto di attaccamento, sono basi per il risveglio dello spirito.
Il Buddha si è risvegliato all’interno dei cinque khandha; per esempio, all’interno della percezione, notando in che modo cambia e si muove. Notare i pensieri e le pulsioni è un segno di risveglio: osserviamo l’energia sorgere, sia essa lenta o agitata, o dove si sta muovendo. Quando non ci aggrappiamo agli aggregati, essi diventano una base per la realizzazione della natura momentanea e danzante dell’esperienza. Quando ci accorgiamo che la mente si è bloccata, possiamo sempre rivolgerci ai cinque khandha e alle sei sfere dei sensi o della coscienza. L’occhio, la coscienza visiva e l’oggetto della vista; l’orecchio, la coscienza uditiva e l’oggetto dell’udito – questi sono tutti disponibili. C’è un mucchio di possibilità che possiamo prendere in considerazione, piuttosto che farci stendere al tappeto dall’inerzia o da abitudini ed emozioni ossessive. Possiamo “uscircene” e andare alla pelle, alle ossa, alla schiena, alla testa, agli occhi – possiamo anche rivolgerci al fatto stesso che c’è la coscienza, che si muove ed è in perenne cambiamento. Tutto ciò può essere visto come un miracolo – celebrato e osservato chiaramente nelle sue qualità mutevoli ed evanescenti. Quindi, quando ci incastriamo in percezioni stantìe, possiamo lavorare con esse riportandoci a una sensazione. La sensazione è piacevole o spiacevole? Generalmente, quando siamo incastrati, è spiacevole, monotona, noiosa e spenta. Oppure possiamo andare verso la forma: che cos’è in realtà la sensazione di una mano appoggiata alla gamba? Quale parte si percepisce: il palmo, le nocche, le unghie o il pollice? In questo modo ritorniamo alla forma in sé. Che cos’è davvero questa forma apparentemente materiale che viene sperimentata tramite le sensazioni che sorgono al suo interno? Dove sorgono, e cosa fanno? E cosa sono le percezioni che vi si creano attorno?
Questi sono esercizi di consapevolezza e applicazione. Ci sono numerose opportunità per investigare la quasi illimitata moltitudine che siamo. Sono tutti viali che portano all’Incondizionato: perché tutte queste cose sono in cambiamento, e nessuna di esse è un sé; quando ci si aggrappa, sono tutte insoddisfacenti. Queste tre caratteristiche ci guidano sempre. Se sperimentiamo insoddisfazione, è perché ci stiamo aggrappando a qualcosa. E col cambiamento c’è una vibrazione nella sensazione, il movimento del pensiero, il flusso e la corrente delle emozioni e così via. Cos’è che nota il loro cambiamento, e che può stare con ciò – con l’occhio che vede, l’orecchio che sente – con un cuore paziente e con la fede dello spirito? Questo è il Buddha, questo è il Dhamma, questo è il Sangha – una qualità eterna e senza tempo, al di fuori delle circostanze eppure, allo stesso tempo, coinvolta in esse. Così, per il benessere del mondo, possiamo praticare queste vie dello spirito nel corpo e nella mente, all’interno dei cinque khandha e delle sei sfere sensoriali. Quando questo mondo di cui ci sembra di essere il centro, questo mondo di coscienza, forme e cambiamento, è riesaminato con lo spirito – quando lo spirito ci si muove attraverso – allora è una delizia, un luogo di verità, amore e sconfinatezza.
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