Insegnamenti

Luang Por Sumedho, il mio maestro

del venerabile Ajahn Sucitto

© Ass. Santacittarama, 2015. Tutti i diritti sono riservati.
SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.
Traduzione di Monica Giuliani.

Titolo originale “Luang Por Sumedho, My Teacher”, da “Forest Sangha Newsletter”, N.94.

Tratto da un discorso tenuto da Ajahn Sucitto nel tempio del monastero buddhista di Amaravati il 26 Luglio 2014 alla vigilia dell’ottantesimo compleanno di Luang Por Sumedho.

MI È STATO CHIESTO di offrire alcune riflessioni sul periodo di tempo che ho trascorso con Luang Por Sumedho. Di solito non racconto molto gli aneddoti, in gran parte perché sono consapevole che la memoria riesce a fornire solo alcuni frammenti della verità. Ma riflettere sul mio maestro può dare a tutti un’idea di ciò che ho maggiormente apprezzato in lui. Queste memorie e percezioni rimangono come frammenti che ho messo sul mio altare, l’altare nella mia mente. E così che nasce l’ispirazione, perché le cose che si imparano e si tengono strette al cuore non derivano dai libri, ma dagli altri esseri umani.

Penso sia molto importante ricordare i propri maestri, sia gli insegnanti ordinari sia quelli di Dhamma, come anche i propri genitori, perché tutti vengono assimilati e diventano parte del nostro citta. Questa mente è come un flusso che assorbe le influenze dalle altre persone. Ma è importante che questo processo avvenga in modo corretto. Come direbbe Luang Por stesso: “Luang Por Sumedho è una percezione nella mente”, e: ” Non esiste nessuna reale persona”. Le percezioni delle altre persone sono formazioni transitorie che nascono nella nostra mente. E allo stesso tempo possono essere delle influenze che ci guidano. In questo modo possiamo assimilare intimamente le qualità del nostro maestro e dei compagni di pratica ed inoltre, mentre viviamo le nostre vite, dare agli altri utili riferimenti. Quest’area di manifestazioni umane di Dhamma è una valida risorsa da condividere.

Luang Por Sumedho è stato una costante importante nella mia vita per circa trentotto anni. La sua è una presenza molto significativa. C’è la forte sensazione che egli sia qualcuno che incarna l’integrità in termini di Dhamma-Vinaya. Prima di tutto un aspetto che viene subito in mente a proposito di Luang Por è che è grande. Non solo fisicamente: se entra in una stanza, la sua energia e la sua presenza riempiono la stanza – c’è un sacco di niente, o un’enorme quantità di qualcosa, che non è solo una persona. Questa è solo un supporto. Se vado nella sua kutī a trovarlo e siamo soli, lui mi dirà cose del tipo: “Non ho fatto un granché”, oppure: “Non ho molto da insegnare. Niente di così straordinario”. E in un certo senso anche questo è vero. Ma quella personalità è anche il canale attraverso il quale una grande pāramī può manifestarsi. E noi abbiamo assolutamente bisogno di questa forma umana. Provate a vivere solamente con un libro e vedrete come vi sentirete bene dopo alcuni anni! Provate a sentirvi veramente male, a essere disillusi verso la pratica e ad andare da un libro a chiedergli aiuto. Vedrete cosa farà. Provate a chiedere a un libro di costruire un monastero. Non lo farà.

Un’altra cosa a proposito di Luang Por è che possiede un’enorme valenza. La valenza si riferisce agli atomi e indica con quanti altri atomi si possono legare. L’idrogeno può legarsi solo a un altro atomo di idrogeno. L’ossigeno con due, e Luang Por è come l’uranio – il quale si lega a centoventotto! Molte persone possono avere accesso a lui e trovano qualcosa con cui connettersi. Ha la capacità di rappresentare qualcosa di buono e verace ed accessibile ad una vasta gamma di persone. Ha la capacità di comunicare alle altre persone qualcosa che è universale ed allo stesso tempo non perdere il contatto con la sua ispirazione primaria, Luang Por Chah, la Tradizione della Foresta e il Buddhismo del Theravāda in Thailandia. Ha la capacità di radicarsi e far crescere molti rami senza perdere la connessione con la terra.

Per quanto riguarda la sua capacità di connettersi: riesce a rapportarsi con molte forme di pratica. Stabilì ad esempio una forte connessione con il Maestro Hua, maestro cinese di Chán – e quella fu una delle fondamentali condizioni per la fondazione del monastero di Abhayagiri in California. Poi ci furono il Dalai Lama, e anche monaci zen e tibetani con i quali tenne dei corsi estivi nel Leicester per diciotto anni, e anche i cristiani e i contemplativi di nessuna fede, in particolare come Douglas Harding. E quanti della comunità radunata qui ora, erano studenti squattrinati quando Luang Por Sumedho andò a fare un discorso presso la loro associazione buddhista locale o gruppo di meditazione, e ne furono ispirati? E ora, quindici o vent’anni più tardi, sono Ajahn anche loro!

Quando parliamo di Luang Por Sumedho, dobbiamo menzionare anche le origini dell’Ordine delle Monache. Certamente ciò è avvenuto grazie a donne come Ajahn Sundarā e Ajahn Candasirī, è importante ricordare le loro pāramī– ma dobbiamo aggiungere che non esisterebbe un Ordine delle Monache senza Luang Por Sumedho. Chi altro stabilì la connessione con la Thailandia? Chi altro fornì le basi necessarie? Per l’Ordine delle Monache, personalmente mi occupai molto di ciò che riguardava i dettagli, ma lo schema generale di questo come di molti altri sviluppi concernenti il sangha, è dovuto a Luang Por. Era lui che poi attirava quegli altri che si sarebbero occupati dei dettagli, altri come Ajahn Munindo, Ajahn Vajiro, Ajahn Amaro, Ajahn Jutindharo, Ajahn Attapemo. Noi abbiamo fatto molto, ma senza di lui non ci sarebbe stata nessuna base e sostegno continuativo per i nostri dettagli.

Si potrebbe dire lo stesso di George Sharp e dell’English Sangha Trust. Hanno fatto molto. Ma cosa era successo prima di Ajahn Sumedho? Niente. Il vihāra era vuoto. L’idea era che fosse impossibile per dei bhikkhu vivere in Gran Bretagna. L’ultimo bhikkhu, intorno al 1972, disse: “Non si può fare in questo paese. È impossibile”. Poi un bhikkhu americano arrivò ad Hempstead e riuscì a concretizzare il tutto. Facendo che cosa? Come disse lui: “Non sono venuto ad insegnare il Buddhismo o a portarlo in Occidente. Sono stato invitato a ricevere i quattro beni indispensabili (#) e a continuare a praticare il Dhamma-Vinaya. Solo questo”.

E lasciò che il resto si concretizzasse intorno a questo. Nonostante tutte le situazione diverse che Luang Por si trovò di fronte e sperimentò durante questo periodo, alla fine ritornava sempre al punto fondamentale della pratica relativa al Dhamma-Vinaya , approfondendolo sempre di più. E la bellezza di tutto ciò è che non escludeva nulla. Poteva approfondire gli aspetti mistici della cristianità o di Nāgārjuna e poi li interiorizzava, li assorbiva e li ricollegava alla radice della sua concreta forma di pratica. Non si sarebbe smarrito, non sarebbe uscito dall’orbita. Rimaneva fermamente radicato nella pratica del monaco buddhista, affidandosi al Dhamma-Vinaya.

Mi prendo la libertà di dire alcune parole su di me per darvi un’idea da dove provengo e perché egli ha significato così tanto per me.

Ho iniziato la mia formazione da bhikkhu non con Luang Por Sumedho, e più o meno, per caso. Viaggiavo e andando in giro e facendo questo e quest’altro, il mondo mi era venuto a noia. Mi resi conto che avevo bisogno di fermarmi e provare a dedicarmi a qualcosa che avesse un significato. Così finii in Thailandia, di cui non sapevo praticamente nulla. Avevo letto a riguardo circa un paragrafo da un qualche libro e non mi sembrava male, per quello che mi riguardava il Buddha mi poteva andar bene. Mentre ero in India avevo infatti cercato qualcosa di spirituale, ma semplicemente non riuscivo a connettermi. C’era sempre qualcosa di cui bisognava farsi carico: credere in un guru o aver fede in qualche cosmologia. La mia mente era troppo razionale e cinica per tutto questo. Ma quando fui in Thailandia e vidi i manifesti per alcune lezioni di meditazione, pensai: “Andrò a fare quello. Almeno mi aiuterà a chiarirmi le idee”. Così andai e quasi subito mi resi conto che, visto che potevo osservare la mia mente, allora io non ero la mente. E che avevo bisogno di continuare ad esercitarmi in questo.

In tutto rimasi lì tre anni, gli insegnamenti facevano capo al sistema birmano del satipatthāna. Vivevo in una piccola capanna. In quegli anni non ebbi nessuna conversazione, non prendevamo il tè insieme, non mangiavamo insieme, nessuna pūjā. Avevamo il permesso di andare a pindapāta, ma in silenzio. Quello era l’avvenimento, e poi si ritornava ognuno alla propria capanna. Seguivamo una pratica intensiva di meditazione nella quale si deve prendere nota mentalmente di tutto. Perciò quando si sente un suono, si prende nota “ascolto”, o mentre si alza la mano si annota “alzare”. Si fa tutto molto lentamente, prendendo nota: “intenzione di alzare, sto per alzare, alzando, muovendo, toccando, sentendo l’oggetto, mettendo giù”. C’è una voce nel cervello che registra tutto ciò che accade. Ho fatto questo per tutto il giorno per tre anni. Divenne molto intenso! Non sto dicendo che fosse così per tutti o che sia il modo giusto di farlo, ma quello era il modo in cui praticavo. Una cosa che feci con l’intento di focalizzarmi veramente ed essere davvero consapevole, fu di prendere la ciotola per la questua, riempirla sino all’orlo d’acqua, e poi cercare di sollevarla e camminare senza rovesciarne neanche una goccia. Provateci. Il menisco dell’acqua arriva sopra l’orlo della ciotola, così anche il minimo tremolio la fa rovesciare. Per me quello era meditazione, quell’estrema concentrazione su un punto.

Nel mezzo di tutto ciò fui mandato in un monastero a Chang Mai per fare un periodo ancora più intensivo di sei settimane di pratica. Ad un certo punto, durante questo periodo, i monaci che stavano lì vennero a bussare alla mia porta e dissero: “Oh devi venire, devi venire” . “Ma come? Sto meditando”. “No, devi venire a vedere Sumedho”. ” Cos’è Sumedho?”, “Ajahn Sumedho viene in paese. Devi andare assolutamente a incontrarlo”. “Oh. Sumedho? Chi è?”. Risposero che era un monaco americano che viveva con Ajahn Chah. Avevo visto una pagina ciclostilata che girava a proposito di Ajahn Chah e che parlava di quanto fosse austero il suo monastero, perciò pensai: “Per l’amore del cielo, sono già abbastanza “intenso” e miserabile, e ora devo andare ad incontrare qualcuno che sta facendo questo da dieci anni, e in più è anche “austero”. Non sarà certo molto divertente”. Mi immaginai qualcuno simile ad un sergente della Marina, e allo stesso tempo rigido ed emotivamente rattrappito. Ciò nonostante, pensai di dover andare poiché ero ospite di questi monaci e loro erano stati molto gentili nell’offrirmi un posto dove poter restare.

Mi condussero in una casa dove Ajahn Sumedho stava seduto su una grande sedia con Ajahn Pabhākaro seduto di fianco a lui, per terra. Così entrammo, porgemmo i nostri rispetti, i monaci thailandesi si misero a chiacchierare e poi scomparvero. Ajahn Sumedho disse: “Mi hanno chiesto di venire qua e fare un discorso, ma non si è presentato nessuno”. Così rimasi con Ajahn Sumedho e trascorsi con lui tre ore ininterrottamente.

L’impressione che mi fece fu che fosse accogliente, aperto, solido e gentile. Ora non ricordo di che cosa parlammo, ma quello non era comunque fondamentale. Era la sua presenza: non avevo mai provato nulla di simile prima. Saldo, ben radicato a terra e allo stesso tempo modesto e gentile. Ci portarono del tè ed egli insistette per versarlo e offrirlo prima a me, invece di prenderlo subito per sé. Percepivo un’enorme presenza di qualcosa di molto accogliente, semplice e solido. Ciò avvenne intorno al dicembre del 1976, infatti mi disse anche: “Mi è stato chiesto di fondare un monastero in Gran Bretagna”. “Ah sì?”, “Sì, da qualche parte nel Somerset”. “Beh buona fortuna!”. Non potevo immaginare un monastero buddhista nel Somerset – mi sembrava troppo remoto e tradizionalista … Comunque a quel punto ci salutammo e riprendemmo per le nostre strade.

Io me ne ritornai ad essere “intenso”, ma l’incontro aveva fatto sorgere nella mia mente una domanda: “Cosa c’è in quella persona? Hmmm, ci dev’essere qualcosa in più oltre alla tecnica di meditazione”. Circa un anno e mezzo dopo morì mio padre e sentii che dovevo ritornare in Gran Bretagna per sistemare le mie cose e stare un po’ con mia madre. Il mio maestro di allora era in contatto con Ajahn Paññāvaddho, e c’era un circuito di monaci farang[l’espressione thailandese con cui chiamano gli occidentali] attraverso il quale circolavano notizie. Ciò che si diceva era: “Sumedho è a Londra”. Mi diedero l’indirizzo e il consiglio di andare a trovarlo.

Così venni in Gran Bretagna. Fu straordinariamente difficile perché ero reduce da tre anni di solitudine senza parlare, a parte brevi resoconti al mio maestro. Passai dall’isolamento sensoriale a un paese non-buddhista, cercando inoltre di gestire dettagli legali e familiari, mentre mi confrontavo con la morte di un genitore. Dopo circa sei settimane mi sentii completamente perso. Il mio prendere nota “intensivamente” non fu molto utile a quel livello. Mi ricordo di essere uscito fuori da qualche parte, in piedi sotto la pioggia, cercando di ritrovare un punto fermo perché mi sentivo letteralmente spazzato via. Penso che avrei anche potuto lasciare l’ordine. Ero attaccato ad un filo. Semplicemente non riuscivo a vedere come questa tradizione orientale potesse rapportarsi alla società inglese del ventesimo secolo. Allora bussai alla porta dello Hampstead Vihāra su Haverstock Hill, e si aprì la porta. Era un vihāra abbastanza piccolo e questa imponente figura riempiva in pratica l’intera porta d’entrata. “Oh, salve”. Mi riconobbe e mi invitò ad entrare. E la percezione fu che Ajahn Sumedho fosse la porta. La porta si è aperta e si entra.

La comunità dei bhikkhu comprendeva Ajahn Vīradhammo e Ajahn Ānando, Ajahn Vajiro che al tempo era un anāgārika. Penso ci fossero altri due o tre anāgārika e tre sāmanera. Ajahn Vimalo frequentava come laico, con il suo senso dell’umorismo e spontaneità. Il vihāra era un posto molto vivo umanamente. Si svolgevano cose come mangiare insieme, parlare tra di noi e si andava anche fuori, in giro per la città. Io pensai che fosse meraviglioso, uscendo dagli stretti confini della mia pratica intensiva, e avevo la sensazione che essere un bhikkhu fosse vivibile. Facevamo pindapāta a Hampstead Heath. Prima di allora ero solo una persona che meditava e indossava le vesti. Non ero stato un bhikkhu. Poi pensai: “Questo è qualcosa di nuovo, di fresco, è interessante, ed è vivo. Non è solo qualcosa che fai con la tua attenzione, questo è qualcosa che ti avvolge e ti trasporta. È vissuto e lo puoi condividere. Parteciperò a tutto questo per un po’”.

Avevo deciso di stare in Gran Bretagna forse per sei settimane. Ma poi chiesi di rimanere per il vassa. Lo Hampstead Vihāra, nonostante fosse un rifugio, era affollato. Ajahn Vīradhammo e Ānando che allora erano molto giovani, soffrivano dall’essere bloccati a Londra. Per fortuna andammo nell’Oxfordshire per il Ritiro delle Piogge, poiché una devota famiglia Birmana, i Saw, ci offrirono ospitalità nella loro casa di campagna che attorno aveva molto terreno. Occupammo diverse stanze e capanne che avevano costruito in modo da poter fare dei ritiri.

Durante quel vassa il nostro gruppo era formato da Ajahn Vīradhammo, me stesso, il Venerabile Araññabho, tre sāmanera e alcuni anāgārika. E le persone avevano alti e bassi, perché quando la gente decide di abbracciare la vita santa è un capovolgimento radicale, e tutte le cose che di solito danno stabilità, come le relazioni o la possibilità di andare da qualche parte, o altre abitudini che ci fanno sentire a nostro agio, vengono portate via. Le persone iniziano ad avere degli sbalzi d’umore. Alzarsi presto la mattina, stare seduti fermi per lungo tempo, seguire la stessa routine ed essere insieme alle stesse persone giorno dopo giorno, fa accadere che le difficoltà possano iniziare ad emergere. Le persone diventano di cattivo umore, crollano e litigano tra di loro.

Nessuno di noi aveva ancora sviluppato la corretta etichetta monastica che hanno i monaci thailandesi. Eravamo diretti e poco delicati. C’era anāgārikaJordan, che più tardi divenne monaco, che era molto esuberante, e anāgārika Shaun, che sarebbe divenuto Ajahn Jayasāro. Tutti avevamo ricevuto ancora poca formazione. Io penso che Ajahn Vīradhammo (il monaco più anziano dopo Ajahn Sumedho) avesse solo tre o quattro vassa, per cui non c’era la sensazione di avere un sostrato di persone esperte, più anziane, che tenessero insieme il tutto. Luang Por stesso all’epoca aveva dodici vassa. Ed eccolo lì ad iniziare questa avventura in un paese nel quale non aveva mai vissuto prima e dove nessuno aveva veramente idea di che cosa facessero dei monaci buddhisti, per di più con un gruppo di praticanti nuovi arrivati. E tutto si poggiava su di lui in una situazione molto incerta. Non avevamo neanche un monastero; eravamo solamente degli ospiti a casa di qualcun altro. Tutti i giorni avevamo le pūjā del mattino e della sera e dei compiti quotidiani. Penso che Luang Por tenne due discorsi al giorno durante tutta la durata del vassa. Ogni mattina un discorso, ogni sera un discorso, ed erano sempre con lo stesso tono calmante. Una cosa che ho notato a proposito di Luang Por è che sceglie un tema particolare e lo ripresenta ancora e ancora e ancora. Quando dico che parla di un’unica cosa, non è un modo per screditarlo. Quella è fermezza e continuità: ripetere lo stesso messaggio, perché si sa che non si riesce ad afferrarlo in un’unica volta. Si comprendono le parole, ma la sua proposta era di riportarti allo stesso punto di nuovo e di nuovo, ancora e ancora, in modo da comprendere veramente il messaggio. Durante quel vassa il tema era: tutti i fenomeni composti sono impermanenti, nascono e cessano. Il lasciare andare, quello era il tema. Perciò mentre c’era tutta questa roba che ribolliva dentro le persone: “Anche questo è un fenomeno impermanente, che sorge e cessa”. Durante tutti gli alti e bassi: “È un altro fenomeno impermanente, che sorge e cessa”. Lui non vacillava. Un giorno gli dissi: “Ma non ti viene mai a noia tutto questo Buddhismo, non ti stufa?”. Mi guardò e mi rispose: “No, anche questo è un altro fenomeno impermanente!”.

La bellezza di quel periodo era che eravamo solo una mezza dozzina. Potevamo stringerci tutti nella sua kutī e bere il tè insieme, andavamo a pindapāta insieme, sempre gomito a gomito l’un con l’altro. Lui era quello con cui tutti potevamo confrontarci e da cui poter ricevere qualcosa. Lui assorbiva e continuava ad assorbire, restava saldo e rideva, rimaneva stabile. Io sortivo con cose del genere: “Perché non possiamo bere il latte la sera mentre invece possiamo mangiare il formaggio? Questo è ridicolo!”. La sua risposta fu: “È un mondo strano!”. Non difendeva, non giustificava, stava semplicemente ridendo del fatto che il “mondo è strano”. Tu ti stavi aggrovigliando e infuriando, e lui diceva qualcosa e all’improvviso vedevi cosa ti stava succedendo. Va bene: un altro fenomeno impermanente – lascialo andare. Io raccolsi l’insegnamento e feci del mio meglio per seguirlo.

Tutti i giorni facevamo la questua del cibo, e a volte era dura perché avevo i sandali e d’inverno c’era la neve alta. Mi ricordo di aver camminato per circa cinque chilometri per fare il giro dell’elemosina (anche se ovviamente non c’era nessuno ad offrirci qualcosa) in mezzo metro di neve con i piedi congelati. Ma in qualche modo ero sostenuto dalla disciplina e dalla sua continuità e fermezza. “Fallo e basta. Non deve esserci una ragione, fallo e basta”. Era molto deciso nell’andare oltre la mente che vuole trovare giustificazioni e che vuole sempre modificare le cose. L’insegnamento era semplice, ma avere la presenza e l’abilità di assorbire la quantità di conflitto e di scempiaggine che vivevamo, senza vacillare – quello era un’altra storia.

Durante il 1978 ci venne offerta la foresta a Hammer Woods, però vi erano alcuni cavilli legali da sistemare. Io andai con Luang Por Chah e Ajahn Sumedho a vedere questa foresta. Ma non c’era nessun posto dove vivere. La proprietà nel Somerset venne acquistata da altri mentre la comunità buddhista tergiversava domandasi se ne valesse o meno la pena, così quando Chithurst House divenne disponibile, George Sharp pensò: “Questa vado e la prendo. Non ne parliamo neanche. Prendiamola e basta”. Venne criticato per questo, ma fu lui che ci trovò un posto dove vivere. Così l’anno seguente impacchettammo le nostre cose e andammo a Chithurst House e definimmo gli aspetti legali relativi a Hammer Woods. All’improvviso avevamo questo posto che era magnifico, spazioso – e un disastro, un rudere totale. Per tutto il tempo che rimasi li, a parte durante le pūjā del mattino e della sera e durante le veglie per i Wan Phra, lavoravamo. E Ajahn Sumedho teneva discorsi tutti i giorni. Mentre sgobbavamo e ripulivamo dalla sporcizia, manteneva alto lo stendardo del Dhamma.

Il tema per il vassa per il primo anno che trascorremmo li fu: “Cos’è che sanno i Bhudda che gli esseri non illuminati non sanno? Tutto ciò che sorge, cessa e non è sé”. Ripeteva questo tutti i giorni e tu pensavi: “Ma non ha detto questo anche ieri? E allora?”. Ma poi scoprivi che non avevi veramente interiorizzato il fatto che tutto ciò che sorge, cessa e non è sé, perché durante la giornata avevi preso un accadimento in modo così personale che ti eri bloccato su di esso e non l’avevi lasciato andare. Perciò con questo modo di insegnare, vivere quell’insegnamento divenne la pratica. Questa è la differenza tra un maestro e un libro. Con un libro volti semplicemente le pagine verso una nuova idea. Ma un maestro ti dà delle indicazioni che agiscono da ancoraggi al Dhamma, mentre la tempesta della vita imperversa su di te. Tu continui a mettere a confronto lo stesso insegnamento di fronte al fluire della vita man mano che essa scorre, e contempli ciò a cui sei aggrappato, come per esempio la sensazione che hai di ciò che dovresti o non dovresti essere. Capite vero?

Le prime quattro monache vivevano in una stanza della casa; quattro individui che cercavano di realizzare che tutto ciò che sorge non è sé! Tutti noi altri eravamo ammassati in piccole stanze con la pioggia che cadeva attraverso il tetto. Poi arrivò Ajahn Amaro, il quale cadde dal piano di sopra al pavimento della cantina e si ruppe un braccio. Anche tutto quello era non sé. In principio non andavamo a fare pindapāta. Luang Por non voleva che lo facessimo perché era preoccupato che una nostra presenza troppo pubblica avrebbe creato scompiglio nella mentalità conservatrice della gente del West Sussex. Alcuni vicini avevano già fatto commenti negativi. Perciò tenemmo un incontro nella sala comunale del paese dove egli cercò di presentare il sangha, portandosi dietro i membri inglesi del sangha in modo da essere sicuro di non offendere la sensibilità delle persone del West Sussex.

Lavoravamo dalle otto del mattino fino alle cinque di sera, e poi facevamo la pūjā serale. Durante i Wan Phra meditavamo sino alle quattro, ci svegliavamo alle sei e ritornavamo a lavorare! Ed io allo steso tempo stavo anche imparando il pātimokkha. C’era un sacco di energia tutt’intorno. Sembrava che Luang Por generasse fiducia ed entusiasmo. A quel tempo accettava qualsiasi invito ad insegnare che gli venisse rivolto: le associazioni femminili, quelle buddhiste, il Circolo dell’Aquila Bianca, la Società Teosofica … qualsiasi cosa. Stabiliva contatti e presentava l’immagine del bhikkhu come qualcuno che corrispondesse esattamente a lui. Non cercava di inculcare a nessuno il Buddhismo, ma era solo se stesso e parlava in modo diretto e con umorismo. Partecipò ad un programma televisivo chiamato Gli dei della guerra dove svariate guide religiose venivano intervistate in merito al loro punto di vista sulla guerra. Perciò Ajahn Sumedho disse: “Noi non facciamo quel tipo di cosa”. Qualcuno chiese: “E a proposito di quel monaco vietnamita che si è dato fuoco versandosi addosso della benzina?”. E Ajahn Sumedho rispose: “Quella è una cosa personale, una sua scelta. Per fortuna non ci si aspetta che io faccia lo stesso”. Riportava sempre gli aspetti dottrinali e ideologici a una qualità umana. E io penso che quello fu ciò che la gente colse veramente: una persona che non ripeteva solamente la linea ufficiale ma che parlava come un essere umano, sempre con un sorriso e una battuta alla fine.

Ajahn Sumedho accettava praticamente chiunque per la formazione monastica. E vi furono alcune personalità molto forti. Ci spingeva anche ad andare fuori. Penso che fossero passati solo due anni e mezzo da quando ero ritornato in Gran Bretagna, appena dopo il mio quinto vassa, quando mi disse: “Vai a tenere un ritiro di dieci giorni nel Northumberland”. Così andai, ed in seguito la gente locale volle dar inizio a un vihāra. Mi disse : “Bene, vai tu ad iniziarlo”. Io avevo solo cinque vassa! Andai con Ajahn Chandapālo, che all’epoca era un anāgārika, e con il Venerabile Thanavāro: solo noi tre a lavorare in questo postaccio gelido su, nel Northumberland, che ora è diventato un bellissimo monastero, Aruna Ratanagiri. Non c’era nessun manuale da seguire, non c’era neppure un: “Questo è quello che devi fare”, non c’erano linee guida. C’era solo la pratica: fare le pūjā del mattino e della sera, restare semplici, fare il lavoro, restare una comunità. Era tutto.

Poi iniziammo con Amaravati, e anche quello fu un gigantesco salto nel buio. Lui condusse un gruppo di noi lì e le monache vi camminarono da Chithurst. Era stato stabilito che fosse il loro centro. Voleva avere un centro per i ritiri, eventi per famiglie e un luogo dove la gente laica potesse venire e praticare, perché a Chithurst non vi erano i permessi ed era troppo piccolo. Così andammo là e trovammo un posto che era come tutti gli altri posti che avevamo trovato – un rudere gelido – e iniziammo a lavorarci sopra. Qui è dove sembrò che acquisisse ulteriore fiducia nella sua visione della pratica. Il suo tema era: “Le porte di “Ciò che non muore” sono aperte”. Tutt’ora recita questa frase quando inizia un discorso di Dhamma: aprite, portate tutto dentro, noi ce ne faremo carico. Noi semplicemente seguivamo e facevamo tutto ciò che potevamo per sostenere l’energia e la perseveranza che aveva, sia nell’insegnamento sia nella sua stessa pratica.

Una giornata normale per Ajahn Sumedho era la seguente: sveglia alle due del mattino, fare esercizio fisico per circa un’ora sul vogatore, fare la doccia, prendere una tazza di caffè, meditare. Per cui per l’ora della pūjā del mattino, era incandescente. Ci diceva: “Ci si prepara veramente per la pūjādel mattino”. Questo è il suo momento preferito della giornata. Organizzava la sua giornata intorno alla pūjā del mattino come se stesse andando a incontrare il Buddha. Era presente, sovente offriva riflessioni che sgorgavano dalla coscienza, rifletteva a voce alta sul Dhamma man mano che le cose gli venivano in mente. Noi lasciavamo che questo ci inondasse, e qualsiasi pezzetto riuscissimo ad afferrare ci apriva. Era un canale aperto, e lui lo lasciava fluire. Quello era probabilmente l’evento più importante della giornata. E l’esempio che noi ne ricavavamo era: preparati per la pūjā del mattino: incontrerai il Buddha, incontrerai il Dhamma. Non era quindi un: “Eccoci di nuovo, un altro giorno…”, ma una crescita nel Dhamma, impostare le cose per una giornata di pratica.

Luang Por offriva poi altre riflessioni durante la colazione, e noi stavamo lì seduti con i nostri vari stati mentali. A volte devo confessarlo, guardavo il mio tè e pensavo: “Vorrei che stesse zitto così potrei bere il mio tè”. Ma lui continuava. E alla fine pensavo: “Lascia andare, non ha importanza”, e restavo con quella sensazione. Lui avrebbe continuato per tutta la giornata, infatti incontrava gente dopo il pasto e proseguiva fino alla pūjā della sera. Poi sarebbe ritornato alla sua kutī verso le nove o le dieci e si sarebbe ritirato.

Aveva un’attitudine a rendersi disponibile, preparando il suo corpo e la sua mente ad affrontare le cose per la comunità residente e per chiunque si facesse vivo. Ciò richiedeva un’enorme generosità e pazienza, perché ogni tanto arrivava della gente fuori di testa, che gli faceva delle domande pazzesche. Lui restava seduto ed ascoltava. Marito e moglie stavano litigando, lui stava lì e ascoltava – la versione di lei e quella di lui. Dava consigli. Io pensavo: “Perché avere a che fare con questa gente? Digli di sbrigarsela da soli”. Ma poi ci diceva: “Sto solo gettando alcuni semi. In una vita futura magari avranno il ricordo di aver incontrato un monaco buddhista che li ha accolti. Per me è abbastanza”. Era pronto a “gettare semi” a chiunque, in modo che potessero avere la sensazione di aver incontrato un monaco buddhista che era pronto ad ascoltarli senza essere moralista ma offrendo loro aiuto. Era disposto a fare quello per chiunque si presentasse.

Nonostante tutto ciò, cercava comunque di tornare in Thailandia una volta l’anno a porgere i suoi rispetti a Somdet Buddhajahn e al Saṅgharājā, ed ovviamente andare a Wat Pah Pong quando Luang Por Chah era ancora vivo. Anche dopo la morte di Luang Por Chah andava lo stesso tutti gli anni per rimanere in contatto, portando alla luce qualsiasi argomento che necessitasse di essere discusso e prestando ascolto alle varie possibili domande che potessero sorgere nella comunità. Lo faceva per la propria pratica, ma anche per mantenere quella connessione fra il sangha orientale e quello occidentale: per dimostrare che non ci eravamo separati e che volevamo mantenere il nostro senso di appartenenza in modo che le cose si potessero sviluppare in modo corretto. Tutt’oggi continua a fare questo ed è importante. Come con un albero: quello che si vede è il tronco e i rami e le foglie che crescono verso l’alto. L’albero diventa sempre più grande, ma ogni volta che cresce verso l’alto devono crescere anche le radici sempre più profonde, altrimenti non durerà a lungo. Questo tipo di pratica non è mistica: è un lavoro. Ci vogliono pazienza, generosità ed energia. Ci vuole anche equanimità e non esiste una strada spianata verso l’equanimità. Sviluppare l’equanimità non vuol dire che tutto sarà meraviglioso. Equanimità vuol dire avere a che fare con le difficoltà, le delusioni, gli elogi e i rimproveri, il successo e il fallimento, e accettarli tutti.

Mi ricordo l’anno in cui gli Ajahn Ānando, Kittisāro e Pabhākaro lasciarono l’ordine. Erano tutte persone che Luang Por aveva nutrito e con le quali aveva forti legami di amicizia. Per cui c’era una sensazione di voler mantenere un qualcosa unito mentre invece la gente al suo interno si stava sgretolando. Ciò è sempre parte della vita del sangha – non solo la morte fisica, ma anche la disillusione e i conflitti; anche i monaci più anziani possono divenire disillusi, non solo i giovani, e finire per litigare con la comunità. Se siete il capo della comunità non avete scelta: gestire le defezioni e le critiche è vostra responsabilità. Se mai diverrete una guida soffrirete, perché non potrete controllare le cose. Sentirete un senso di responsabilità verso tutti, ma vi renderete conto che non saranno come voi li vorreste, o in grado di fare ciò che voi vorreste che facessero. Alcuni se ne andranno, altri resteranno. Sicuramente ce ne saranno di buoni che saranno d’ispirazione agli altri. Ma ne vedrete anche altri che diventeranno disillusi e avranno da ridire su di voi.

La vita nel sangha è turbolenta, ma noi riusciamo a contenerla grazie a esempi molto importanti come quello di Luang Por. Potremmo diventare ideologici a proposito del bene e del male nella meditazione, ma lui offriva semplicità e l’impegno verso l’apertura e la presenza. Amava la vita santa, ma era anche molto soffice di cuore. Veniva profondamente colpito dalla gente che restava disillusa da ciò che riteneva essere così bello e di valore, e che per lui funzionava. Ma lo superò ed alla fine disse: “Mi rendo conto che le persone stanno semplicemente vivendo il proprio kamma. Alcuni vivranno la vita monastica per la durata di una vita, altri solo per un anno. Faranno ciò che potranno. E bisogna lasciare che sia così. Bisogna che a volte si fallisca e si cada a pezzi”. Questa è l’equanimità. Prendete Amaravati, per esempio. Quando iniziammo ad Amaravati la gente naturalmente si lamentava e criticava perché non era quello che doveva essere, ed egli diceva: “Beh, noi ci proviamo. E se tutto fallisce, che importa? È stato un buon esperimento. È stato un tentativo interessante. Se non ci proviamo neanche, come possiamo lamentarci? Noi ci proviamo, e per certe persone funziona, per altre non funziona. Noi lo facciamo lo stesso. E se tutto crolla, d’accordo, non importa. Il Dhamma continua ad esistere”. Aveva sempre questo atteggiamento.

Mi ricordo quando Ajahn Ānando stava organizzando un tudong nei South Downs e invitava noi altri ad andare. Io dissi: ” Non so se debba venire o meno, perché dobbiamo essere responsabili e prenderci cura di Amaravati e assicurarci che tutto funzioni”. Rispose Ajahn Sumedho: “Ascolta, se vuoi andare al tudong, vai pure. Metteremo semplicemente un cartello sulla porta che dice “Assente per tudong – Entrate e accomodatevi se vi fa piacere””. Poi aggiunse: “Voglio essere in grado di gestire il monastero in questo modo. Possiamo dire: le cose stanno così. È quello che è. Non è un granché tranquillo, non è ben organizzato. Non avete la garanzia di ricevere insegnamenti straordinari tutti i giorni. È così. È una porta aperta. Se volete aprirla e volete praticare, qui c’è la possibilità. Ma non portatevi dietro le vostre aspettative”. Perciò praticava con equanimità indipendentemente dal fatto che la gente fosse contenta o delusa da ciò che trovava. Non che non provasse nulla, ma era in grado di mantenere la consapevolezza di quelle sensazioni: “Ciò che sorge, cessa” e “Essere Ciò che conosce”, che è un altro dei suoi grandi mantra: “Essere la conoscenza, risiedere nella consapevolezza, il mondo è così com’è”.

Mentre Amaravati si stava ancora sviluppando, succedeva che in diverse sere dei teppisti arrivarono in macchina, sgommavano nel cortile e facevano rumore. A volte distruggevano le cassette delle donazioni o delle lettere, o urlavano e ululavano, suonavano la campana e via discorrendo. Noi dicevamo: “Come possono fare questo?” e Luang Por Sumedho rispondeva: “Il mondo è così. Questo è il modo in cui va il mondo”. Provammo di tutto. Istituimmo una ronda notturna e a turno perlustravamo l’area del monastero per eventualmente intercettare i vandali. Un monaco ebbe la brillante idea di creare “la brigata della patata”. Ci veniva data una patata e se vedevamo una macchina posteggiata infilavamo la patata nel tubo di scappamento, in modo che quando il guidatore cercava di andare via in macchina il motore si riempiva dei gas di scarico e il mezzo si sarebbe fermato. Tutti eravamo “armati” di patate durante queste ronde.

Una volta i teppisti buttarono a terra la statua di bronzo del Buddha eretta nel cortile. Avvenne il giorno prima del Vesak. Uscimmo la mattina seguente e trovammo il Buddharūpa disteso con la faccia rivolta in terra e una grande scalfittura nella spalla. Guardai la statua e ne fui molto turbato: “Come fa la gente a fare cose del genere?” e lui rispose: “Il mondo è così. Volere che le cose siano diverse significa soffrire”. Aveva la capacità di cogliere quei punti che sarebbero stati in grado di farti inalberare contro qualcosa. Faceva scoppiare la bolla.

Stavo recentemente chiedendo ad alcune persone cosa ricordassero di lui, e un monaco mi ha detto di come una volta fosse coinvolto in un progetto di costruzione … e ad un certo punto arrivò Ajahn Sumedho che lo prese per un braccio e lo strinse, e gli fece un gran sorriso: “Salve”. Tutto lì. Tu stai per entrare nella tua piccola bolla, e ad un tratto, “Salve, eccoci qua”, e senti all’improvviso che il panorama mentale cambia.

In quei primi giorni era facile stargli vicino regolarmente, e io ebbi il privilegio di servirlo. Mi piace servire. Perciò andavo e gli massaggiavo i piedi tutti i giorni: prendevo dell’acqua calda, gli lavavo i piedi, glieli massaggiavo e facevo pressioni nel suo piede gonfio. Non parlavamo molto, ma era bello sentire che stavo facendo quello che potevo per il mio maestro in questo semplice modo umano. Questo è un altro ricordo che tengo sul mio altare.

Quando si vive con Luang Por Sumedho o in monasteri che hanno conosciuto la sua presenza, si dà per scontato che ci sia il Buddhismo e che le strutture siano qui a nostra disposizione. Può darsi che non si rifletta su come sia stato possibile arrivare fino a qui. Come pensate che sia arrivato qua questo tempio? Lui tirava le fila dell’energia, dell’intelligenza e del sostegno per far sì che accadesse. Come pensate che sia stato possibile arrivare da tutti questi diversi paesi del mondo e ottenere il permesso di restare qua? Come pensate che sia possibile che voi andiate in Thailandia, o in un altro dei venti monasteri occidentali sparsi per il mondo, ed essere accettati immediatamente? Andate in America e dicono: “I monaci di Ajahn Sumedho, loro sono quelli di cui ci si può fidare. Sono molto solidi”; come pensate che sia avvenuto questo? Cosa indica tutto questo?

Siamo qui tutti riuniti per questo essere, per questa presenza del non-sé, ricorrendo al suo compleanno come occasione per ricordare. Chi è che sa chi è questa persona? È una formazione impermanente. Ma io penso che sia anche un’enorme pāramī che ha creato questa occasione. Dove saremmo senza questa? Io non so dove sarei. Ma sono abbastanza sicuro che non sarebbe un posto altrettanto bello. E considerate la vostra vita, tutti voi che siete venuti qua, direi che siete stati parte di qualcosa di incomparabile nel Buddhismo occidentale. Quante altre istituzioni monastiche buddhiste ci sono in Occidente? Da dove pensate sia venuto tutto questo?

Ecco questo è quanto ricordo – questa incredibile crescita che è accaduta a tutti noi; qualcosa di cui siamo parte e che possiamo portare nelle nostre menti e nei nostri cuori. Io spero che tutti voi abbiate un vostro aneddoto, un’occasione nella quale abbiate ascoltato qualcosa che ci ha detto o abbiate notato qualcosa che ha fatto, e abbiate pensato: “Ah! …”, magari c’è stata un’unica cosa, ma è una cosa importante. Prendete semplicemente quella cosa, o quelle due, tre o quattro cose e domandatevi: “Dove sarei senza di esse?”.

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# I beni di prima necessità indispensabili per poter condurre materialmente la vita monastica: vesti, cibo, alloggio e medicine. (Indietro)