del venerabile Ajahn Sumedho
© Ass. Santacittarama, 2016. Tutti i diritti sono riservati.
SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.
Traduzione di Roberto Bertozzi.
Titolo originale “Liberating Emotions” dal terzo volume del “The Anthology of Teachings of Ajahn Sumedho” (forestsangha.org/teachings/books)
Possiamo riflettere su com’è il presente: su questo clima di tipo tropicale, ad esempio. All’interno di un’attitudine di accettazione possiamo permetterci di essere ricettivi verso la vita invece di cercare di controllarla, di sfuggirle o resisterle. Una simile ricettività è in contrasto con la resistenza. Noi siamo culturalmente condizionati a resistere alle cose. C’è la paura di essere aperti e ricettivi, come se così facendo permettessimo a qualcosa di prendere il sopravvento su di noi. Sentiamo di aver bisogno di sviluppare un qualche tipo di protezione, per evitare di essere annullati o sfruttati. È un tipo di paranoia mentale. Sentiamo di dover resistere al male, uccidere il male e distruggere le forze malvagie.
L’atteggiamento buddhista, d’altro canto, è basato sulla gentilezza amorevole (mettā), su un’aperta accettazione di tutto, così com’è. E se portiamo la gentilezza amorevole alla sua massima espressione, tutti i fenomeni condizionati verranno accettati per quel che sono. Questo non significa che approviamo qualunque cosa; significa che semplicemente la accettiamo. Tutto deve essere nel modo in cui è nel momento presente. Non potete dire che non volete che il tempo atmosferico sia così, o che non volete che le cose siano in questo modo. Se lo fate, non le state accettando così come sono. State invece creando sofferenza intorno a qualcosa che non vi piace o che non volete.
Potete provare gentilezza amorevole perfino per l’avversione a come stanno le cose, senza criticare voi stessi per il fatto stesso di essere critici. Provare sconforto e avversione per se stessi per il fatto di essere critici o egoisti è un’altra trappola della mente. Anche standovene seduti qui a odiare voi stessi – pensando di essere persone egoiste, polemiche e nient’affatto cordiali – potete avere mettā per la situazione: potete avere gentilezza amorevole per la mente critica. La paziente accettazione è assenza di avversione verso qualunque cosa si manifesti nel presente. Tutto viene accolto, niente escluso: nessuna eccezione, niente è lasciato in sospeso.
L’altro giorno stavo facendo un discorso su come cambiare il proprio atteggiamento da negativo a positivo, ma qualcuno se ne è risentito. Questa persona si irrita davvero se suggerisco che si dovrebbe pensare positivamente, come se stessi parlando del potere del pensiero positivo. Ma come può sapere che io intendevo dire quel che lui ha capito? E cosa dovremmo dire rispetto all’accettazione e alla resistenza? Questa è resistenza. Avere mettā per la resistenza è un atteggiamento mentale, non una posizione da prendere. Non si tratta di attaccarsi all’idea che dovremmo avere gentilezza amorevole verso ogni cosa, perché così penseremmo di non essere mai abbastanza amorevoli. Ci sarà sempre qualcuno o qualcosa, nelle nostre vite, per il quale non saremo mai in grado di generare alcuna sensazione positiva. Un nome viene in mente, e pensi: “Dovrei essere in grado di avere mettā per questa persona; dovrei essere capace di perdonare”. Ma proprio non ce la fai! Non riesci a dire semplicemente: “Che tu sia felice” senza sentirti pieno di rancore e ipocrisia. Il massimo che puoi fare è mormorare “Che tu sia felice” a denti stretti.
Capita talvolta che mettā venga presentata come una specie di “think pink” (vedere tutto rosa): dire semplicemente cose carine augurando il bene a tutti, e ogni cosa è dolce e piacevole. Ma sotto la superficie potrebbe esserci un vulcano di rabbia e rancore.
L’idealismo è una funzione mentale. È possibile pensare ai più alti ideali sull’amore eterno e all’amore per tutti gli esseri senzienti: l’amore incondizionato è un ideale. A livello dell’intelletto, possiamo creare degli ideali su come dovrebbero essere le cose se fossero al loro meglio, e questa è una funzione della mente. Potremmo poi sentirci ispirati da questi ideali. E se parliamo di amore, perdono e gentilezza amorevole, potrebbero perfino salirci le lacrime agli occhi per la gioia di avere una mente così elevata. E poi, dopo aver diffuso la gentilezza amorevole per tutto l’universo, forse accade qualcosa: qualcuno sbatte la porta e immediatamente ci arrabbiamo. Potremmo diventare confusi, perché la rabbia non fa parte dell’ideale. Nonostante ciò, rabbia e collera sono emozioni che tutti sperimentiamo: così, potremmo arrivare ad assistere a una guerra fra gli ideali e le emozioni.
Una volta venne da me una donna colta e istruita che si trovava in uno stato di forte turbamento emotivo. Prese a piangere e disse: “Mi dispiace, so di essere sciocca, così sciocca e stupida”. Quindi pianse di nuovo e disse: “So che tutto ciò è ridicolo, ma non riesco a venirne fuori”. Il suo intelletto non approvava quello stato, e adottava invece una linea dura: “Non dovresti piangere. Non dovresti fare così, essere lagnosa e rammollita. Stai perdendo il controllo! Stai perdendo la faccia!” Sul piano intellettuale si può essere tremendamente duri e tirannici: “Se io fossi realmente una donna sicura e agissi in modo deciso e sicuro, non starei a lamentarmi e a piangere così, avrei controllo di me stessa. Ma guardatemi! Sono una massa di gelatina davanti a questo monaco. Starà pensando che io sia un’altra di quelle donne ipersensibili ed emotive!” Possiamo essere così crudeli verso noi stessi, così giudicanti: “Non dovrei essere così. Non dovrei provare questo tipo di sentimenti. Se io fossi una persona decente non avrei mai fatto le cose che ho fatto!” I tiranni interiori sono incessantemente duri, crudeli e giudicanti. Questa è la mente intellettiva che pensa nei termini di come dovrebbero essere le cose. Ma gli ideali non provano, non percepiscono nulla. Quando vi attaccate a un ideale, in quel momento non sentite la vita. Potreste essere davvero insensibili verso chi si trova in difficoltà in quel momento, perché siete attaccati agli ideali. Persino l’ideale della sensibilità non è sensibile. Potremmo anche dire che dovremmo essere sensibili gli uni con gli altri – afferrandolo come un ideale –, e tuttavia non essere affatto sensibili ma disconnessi, attaccati all’ideale della sensibilità.
Con la consapevolezza riflessiva, invece, diciamo che la sensibilità è così, è così che viene percepita. Il nostro è un reame soggetto al sensibile. Non è un reame ideale, un’utopia. Questo reame possiede tutto – il meglio, il peggio e tutte le sfumature che stanno nel mezzo – dalle raffinate sottigliezze della bellezza, dell’estetica e dell’amabilità, fino alle condizioni più orrende, grossolane e disgustose. Nei termini della consapevolezza riflessiva, però, non stiamo giudicando affatto, stiamo solamente notando che la vita è così. Non è come dovrebbe essere secondo un ideale, ma è così com’è.
Le abitudini che abbiamo acquisito – le abitudini emotive, il modo in cui reagiamo alla lode e al biasimo, al successo e al fallimento, alla malattia e alla salute, alla prosperità, alla depressione e all’euforia e così via – non sono razionali, non sono nient’affatto ideali. L’intelletto è razionale, le emozioni invece sono così. Potreste singhiozzare sul pavimento, ridotti a una massa informe di gelatina: questo non sarebbe ragionevole o razionale, vero? E la vostra mente razionale potrebbe essere critica e dire: “Non dovresti proprio essere così”. Ci si può giudicare in base agli ideali.
La mia esperienza di vita è che quando raggiunsi i trent’anni fui terrorizzato dallo scoprire che, emotivamente, ero ancora molto immaturo. Pensavo che avere trent’anni significasse essere vecchio. La mia giovinezza era andata, ma emotivamente mi sentivo infantile. Fu una scoperta orribile. Ero maturato fisicamente e intellettualmente potevo inscenare una performance di maturità. Una volta un amico mi chiese: “Perché sei diventato monaco?” Gli dissi che lo avevo fatto perché soffrivo molto.
“Tu soffrivi?”
“Certo”, dissi, “Soffrivo tutto il tempo”.
“Non sembrava mai che tu stessi soffrendo”, disse; “Sembravi sempre così felice”.
“Davvero? Non pensavo di sembrare felice, visto che non lo ero!”.
Quest’apparenza di persona felice era probabilmente il mio personaggio, il modo in cui mi presentavo. Fu sorpreso di sapere che avevo sofferto; eppure io pensavo che tutti potessero vederlo: pensavo che fosse evidente tanto quanto il naso che mi ritrovo in faccia.
Forse potevo recitare una parte al momento opportuno. Però, nel silenzio della mia stanza, non era così. Non ero maturo né tranquillo, non ero un uomo che aveva trovato la sua stabilità e il suo equilibrio nella vita: ero spaventato, mi sentivo insicuro e deluso, reagivo infantilmente agli eventi. Cosa fate, allora, in una simile situazione? Come potete cambiare? Il tiranno interiore diceva: “Cresci?!” E io ci provai, provai ad agire come se fossi cresciuto. Non andavo in giro ad avere scatti d’ira in faccia alle persone, ma talvolta quegli scatti sorgevano dentro di me. Potevo sorridere, fumare una sigaretta e bere un cocktail, mentre all’interno potevo essere tutto fuorché calmo e rilassato.
Per me la meditazione fu come la luce in fondo al tunnel, l’unica speranza che avessi di crescere, di maturare per davvero e fino in fondo, portando fino all’Illuminazione e alla completa Liberazione. Per quale ragione avrei dovuto accontentarmi di maturare in una società così infantile? La società rimane infantile in ogni modo (per lo meno quella in cui io avevo vissuto). Le persone erano vane, e in quei giorni nessuno sembrava realmente interessato allo sviluppo spirituale. Se provavi a parlare di queste cose, ti guardavano come se avessi detto qualcosa di inappropriato, o come se fossi un idiota. Le persone che conoscevo erano interessate esclusivamente alle apparenze, alla moda, ai movimenti politici, a rendere il mondo un posto migliore, e così via. Ma nessuno sembrava avere la benché minima inclinazione alla crescita spirituale.
Vivendo e formandomi durante questi 33 anni come monaco, ho avuto l’opportunità di scavare fino alla radice di questo problema. Questa via di consapevolezza intuitiva e vacuità può risolvere le nostre abitudini emotive. C’è un modo per liberarci da queste reazioni abitudinarie, ed è l’unico modo da me scoperto che funzioni. Parlarne e rifletterci su continuamente non fa che spingerci a girarci intorno. Quello di cui abbiamo bisogno è una via d’uscita dal mondo condizionato. La consapevolezza apre le porte per “Ciò che non muore”, apre la mente e il cuore alla realtà immortale, al Dhamma, dove le abitudini emotive possono essere liberate dalla mente. Diversamente, come ama dire Ajahn Sucitto, “È come ridisporre le sedie a sdraio sul Titanic”. Cercare di cambiare le condizioni è come riorganizzare i mobili. Vi siete stancati del divano su quel lato della stanza, allora lo mettete in quest’altro. È il massimo che potete fare. Se invece iniziate a vedere la via d’uscita da tutta questa storia, vedete che la consapevolezza è il Sentiero per Ciò che non muore.
L’intelletto può facilmente giudicare le emozioni. Possiamo condannare noi stessi per averle, provare angoscia e disperazione perché sembra che vomitiamo sempre la stessa roba, ancora e ancora. Mettā allora è rivolta all’intelletto, al tiranno interiore, all’auto-critica. Mettā è la volontà di accettare il modo in cui le cose sono, senza condizioni. Non è come fare un patto: “Ti accetterò se tu cambi. Ti sposerò se tu prometti di cambiare i tuoi atteggiamenti e se farai quel che voglio”. Questo è il modo che hanno alcune persone di relazionarsi fra di loro: “Posso amarti solo quando ti comporti nel modo giusto. Se ti comporti in modo appropriato, allora io ti amerò. Ma se ti comporti male e non mi rispetti, io non ti amerò più”. Questo è amore condizionato, non è vero? L’amore incondizionato, che è mettā, non pone alcuna condizione. “Non importa quanto sia difficile, io ti amo. Non importa quanto orribile puoi diventare, io ti amo lo stesso. Non c’è nulla che possa distruggere il mio amore per te. Puoi essere il più maniacale, orribile, vergognoso essere umano sulla faccia della terra – puoi diventare un demone – ma nulla può diminuire o inquinare questo amore incondizionato”.
Amore incondizionato non significa necessariamente che qualcosa ci piace o che l’approviamo. La parola “amore” è spesso usata per indicare che “tu mi piaci e io ti approvo”, ma l’amore incondizionato e mettā non hanno a che fare con il piacere o meno. Provate mettā per quel che vi piace così come per quel che non vi piace. Potete avere mettā per i demoni. Potete amare i vostri nemici alla maniera cristiana. Questo non significa che i vostri nemici vi piacciano. Se qualcuno vuole uccidervi, certamente non inizierà a piacervi. “Che vi piaccia” è una cosa ben diversa, vero? Vi piace quando le persone fanno qualcosa che voi approvate, quando è una cosa buona e a voi piace il bene.
L’amore incondizionato non è una questione di piacere, ma di non odiare, non condannare, di accettare, essere pazienti e non critici verso quel che c’è così come esso è – sia esso la rabbia, il tiranno interiore, le emozioni immature o gli sciocchi e ridicoli pensieri che avete. L’amore incondizionato o mettā non pone condizioni: è così com’è. E tutte le condizioni sono impermanenti.
Applicate tutto ciò alla vostra pratica. Quando cose negative sorgono nella coscienza, praticate dicendovi: “Lo accetto”. Abbracciatelo davvero e osservate quel che accade. Con “il suono del silenzio” potete interrompere il pensiero, in modo da non pensare ma sentire, raggiungere la nuda sensazione. Attenetevi soltanto a questo con totale accettazione, acritica e paziente, e osservate quel che accade. Provate in voi stessi questa pratica. Starete liberando queste emozioni immature e irrisolte. Starete risolvendo le emozioni invece di manipolarle, riordinarle o sopprimerle. C’è dunque una via d’uscita: c’è una via per la libertà e la liberazione, anche dentro i limiti del kamma umano.
Talvolta sentiamo che la vita è una vera sfida: abbiamo il nostro tallone d’Achille, un punto debole. Quando veniamo colpiti in quel punto cadiamo a pezzi, collassiamo a terra. È importante allora sapere dove si trovano i nostri punti deboli, non allo scopo di criticarli, ma per essere più preparati. Ora mi sento di avere le capacità per entrare, per così dire, nella tana del leone, come Daniele. Prima ero una persona codarda e non avrei mai nemmeno osato avvicinarmi alla tana del leone: se la tana stava qua, io me ne sarei andato laggiù. Ora voglio entrare, perché ho imparato a relazionarmi con le situazioni astiose, minacciose e spaventose. Ma incoraggio voi a lavorare con le piccole cose della vita quotidiana, con le situazioni più facili. Non c’è bisogno di aspettare grandi eventi, quando ci sono veri leoni in giro. Nessuno di noi, con ogni probabilità, dovrà mai davvero entrare nella tana di un leone, o essere crocefisso, o altro di così drammatico; più probabilmente diventeremo vecchi, incurvati, e perderemo il controllo sulle nostre facoltà: la vista ci abbandona, l’udito ci abbandona, e così via. Alcune persone muoiono in circostanze grandiose o ispiranti, la maggior parte però semplicemente prende e se ne va. Ma tutto va bene, no? Se è così che è, allora questo è ilDhamma.
Talvolta veniamo criticati perché aggiriamo le nostre emozioni, perché siamo dei bypasser spirituali. Questo è un termine che ho sentito riferito a me stesso. Dicono: “Stai aggirando la tua vita emotiva!” In alternativa, ci sono persone che amano davvero molto parlare dei loro sentimenti. Ammetto che questo può avere un suo valore, soprattutto se si tratta di persone che hanno sempre tenuto tutto per sé. Ma parlare all’infinito dei propri sentimenti significa essere ancora catturati dalla trappola di una prospettiva personale del sé. E quelli che vogliono sempre parlare delle loro emozioni possono risultare veramente fastidiosi!
Il modo di rapportarsi alle emozioni e ai sentimenti, dunque, non è di raggirarli – né giudicarli o tentare di cambiarli – ma accettarli direttamente e pienamente, conoscendoli per quel che sono. All’inizio è davvero difficile farlo: ci sono un sacco di resistenze automatiche alle emozioni. Incominciate col notare che cos’è e com’è la resistenza – questa tendenza a mettere da parte e rifiutare l’esperienza emotiva: il senso di malessere, di imbarazzo, o essere a disagio e desiderare di scappare quando le persone iniziano a comportarsi in modo emotivo. In questa pratica di consapevolezza intuitiva, però, possiamo provare mettā per il nostro imbarazzo e per ogni altra cosa. Diversamente, potremmo iniziare a dirci che dovremmo entrare maggiormente in contatto con le nostre emozioni. Abbiamo queste idee: “Non sono in contatto con le mie emozioni, quindi dovrei rimediare”. Potreste attaccarvi a questa idea di essere qualcuno che non è in contatto con le sue emozioni e che dovreste invece diventare qualcuno che lo è. Quindi vi sforzate al di là delle vostre capacità per provare, per sentire ogni cosa ed essere emotivi – e la cosa può diventare assai innaturale. Vi attaccate all’idea, cercate di forzare le cose, cercate di fare in modo che accadano secondo il vostro volere o come voi ritenete che debbano essere, invece di avere mettā e lasciare che le cose accadano, che fluiscano.
Come buddhisti prendiamo rifugio nel Buddha, nel Dhamma e nel Sangha. Prendere rifugio nel Dhamma significa prendere rifugio nella consapevolezza intuitiva. Possiamo lasciare che sia il Dhamma a guidarci. Possiamo fidarci e riposare nel silenzio e nell’attenzione: se vediamo una qualche resistenza, possiamo generare mettā nei suoi confronti. Pensare: “Sto cercando di accettarlo, ma ho questa terribile abitudine alla resistenza”, vi riporta indietro a un atteggiamento del tipo: “Sono una persona con questa abitudine, e non dovrei averla. Dovrei essere in grado di accettare i miei sentimenti ed entrare in contatto con essi, ma talvolta proprio non ci riesco. Per me non funziona!” E allora ci ritroviamo nella stessa identica trappola, perché una condizione non può conoscerne un’altra. Solo l’incondizionato conosce il condizionato. Il condizionato non può conoscere l’incondizionato. Quando afferriamo le condizioni, non possiamo realizzare l’incondizionato, la realtà ultima. Quando siamo nel reame del condizionato, ci muoviamo da una condizione a un’altra, e in nessun modo una condizione può conoscere l’altra; semplicemente le associamo l’una all’altra. Nella consapevolezza intuitiva, invece, possiamo conoscere il condizionato come tale; possiamo conoscere il mondo come mondo, la rabbia come rabbia, il desiderio come desiderio, la sofferenza come sofferenza. Possiamo conoscere semplicemente e direttamente le cose così come sono senza critica, senza condannare nulla. Si lascia che le cose fluiscano e si muovano in accordo al Dhamma, in accordo alla realtà così com’è. Se dovessimo parlarne nei termini degli esseri illuminati, potremmo dire che un illuminato è solo un flusso di luce. Non sono bypasser spirituali che si siedono sotto agli alberi e dicono: “Non voglio sapere niente”. C’è un’immediatezza, questa consapevolezza intuitiva che non ha a che fare col piano intellettuale. Possiamo vedere e conoscere le cose in modo estremamente diretto, estremamente chiaro – non teoricamente, non in un mondo limitato dalle definizioni dei dizionari di pali o dei trattati buddhisti – ma per davvero. Questo è un rifugio. Non si tratta di qualcun altro che conosce; siamo noi, che diamo fiducia e conosciamo. Non è un fatto teorico dipendente dalle interpretazioni degli insegnamenti scritti. Gli insegnamenti del Buddha possono essere usati a favore della consapevolezza, invece che per collezionare un mucchio di idee sul buddhismo.
Quando liberiamo la mente dalle emozioni, cosa rimane? Saremo solo zombi, esseri privi di vita? Forse le nostre emozioni ci danno un po’ di fascino e colore, con i nostri caratteri unici e le nostre personalità? Se non ne abbiamo, siamo forse destinati a diventare tutti uguali, come soldatini giocattolo tutti con la stessa uniforme e la stessa espressione assente sul volto? Oppure, magari, scopriremo come vivere in un modo che sia conforme a retta parola, retta azione, retti mezzi di sostentamento e così via? Ma la liberazione di tutte le nostre emozioni non ci porterà a restarcene soltanto seduti sotto un albero, in una specie di samādhi permanente, con gli occhi chiusi e insensibili a ogni suono; una situazione in cui la NATO potrebbe iniziare a bombardare, o venti elefanti potrebbero danzare sul tetto del tempio di Amaravati – e noi non sentiremmo nulla.
In passato, come persona mondana, avevo sviluppato un modo di vivere grazie al quale potevo proteggere me stesso. Il mondo era, ed è, estremamente competitivo – lo è almeno la società dalla quale io provengo – e bisogna imparare le regole del gioco per sopravvivere. In ciò c’è il ruolo di chi semplicemente si chiude e diventa notevolmente insensibile. I monaci, d’altro canto, diventano sempre più sensibili. In un certo senso, questo può essere spaventoso. Sebbene in passato potevate essere piuttosto tosti, e pensavate di voi stessi: “Niente può infastidirmi!”, di punto in bianco scoprite di non essere affatto tosti e duri. Come interpretate questa sensibilità? Se lo fate su un piano personale, può diventare molto terrificante, perché iniziate a pensare di essere fragili e delicati piuttosto che forti e irremovibili. Qualcosa che prima non vi infastidiva minimamente, improvvisamente vi manda in frantumi. Questo avviene perché l’illusione fondamentale è ancora lì: vivete una vita di apertura, ma la interpretate in modo personale. Non avete un rifugio; vi siete solo abituati alle maniere più raffinate che vengono incoraggiate nella vita monastica.
Il senso di rifugio è davvero importante: è dove la fede viene riposta nel Dhamma invece che, ad esempio, in una situazione affinata con persone buone, morali e piacevoli. Il rifugio è nella consapevolezza intuitiva, che è decisamente indipendente dalle buone maniere, dalla moralità e dall’essere tutti carini, gentili e piacevoli. Questo significa che posso andare ovunque, perfino nella tana del leone o sul campo di battaglia, perché il mio rifugio è irremovibile, privo di morte, e non affinato o speciale.
Mentre imparate a riconoscere sempre di più la consapevolezza intuitiva, riponete in essa la vostra fiducia. Mettetela alla prova e continuate a lavorarci nella vostra vita quotidiana. Potete creare consapevolezza attorno a numerose situazioni irritanti e frustranti legate alla famiglia o al lavoro o a qualunque altra cosa. Potreste dover vivere con persone antipatiche, volgari o egoiste, ma sarete in grado di sfruttare questa situazione per il Dhamma. Applicare tutto ciò allo scorrere della vostra vita è una sorta di sfida. Ma non appena svilupperete intuizione al suo interno, inizierete a fidarvi. La vedrete all’opera, e questo non farà che aumentare la vostra fiducia e sicurezza, al punto che dopo un po’ percepirete un senso di stabilità e chiarezza mentale. La mente è chiara e salda, invece che salire e scendere sull’onda delle emozioni o delle condizioni fisiche nelle quali potrete ritrovarvi.
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