del venerabile Ajahn Chah
© Ass. Santacittarama, 2015. Tutti i diritti sono riservati.
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Traduzione di Roberto Paciocco.
Primo discorso nel libro The Collected Teachings of Ajahn Chah, Vol. I.
IL BUDDHISMO insegna ad abbandonare il male e a praticare il bene. Poi, quandoil male è abbandonato e il bene è impiantato, dobbiamo lasciar andare sia il bene sia il male. Abbiamo già ascoltato abbastanza sugli stati mentali salutari e su quelli non salutari per capire qualcosa in proposito. Perciò vorrei parlare della Via di Mezzo, ossia del sentiero per trascenderli entrambi. Tutti i discorsi di Dhamma e gli insegnamenti del Buddha hanno un obbiettivo: mostrare la via per uscire dalla sofferenza a coloro che non sono ancora riusciti ad abbandonarla. Gli insegnamenti servono a darci la Retta Comprensione. Se non comprendiamo rettamente, non possiamo giungere alla pace.
Tutti i Buddha, quando divennero illuminati e offrirono i loro primi insegnamenti, evidenziarono questi due estremi: l’indulgenza al piacere e l’indulgenza al dolore. Tali due tipi d’infatuazione rappresentano i due poli opposti tra i quali sono costretti a oscillare, senza mai avere pace, coloro che indulgono ai piaceri sensoriali. Si tratta delle vie che ruotano intorno al samsāra (1). L’Illuminato osservò che tutti gli esseri non riescono mai a vedere la Via di Mezzo del Dhamma perché sono bloccati in questi due estremi e, perciò, li evidenziò per mostrare la sofferenza che entrambi implicano. Siccome siamo ancora bloccati poiché soggetti alla volizione, viviamo continuamente sotto il loro dominio. Il Buddha dichiarò che tali due vie non sono quelle del meditante, della pace, ma le vie dell’intossicazione. Queste vie sono l’indulgenza al piacere e l’indulgenza al dolore, o, per dirla con semplicità, la via dell’indolenza e la via della tensione.
Se momento dopo momento investigate dentro di voi, vedrete che la via della tensione è la collera, la via del dolore. Percorrere questa via porta solo difficoltà e disagio. Se avete trasceso l’indulgenza al piacere, ciò significa che avete trasceso la felicità. Felicità e infelicità non sono stati mentali sereni. Il Buddha insegnò a lasciarli andare entrambi. Questa è retta pratica. È la Via di Mezzo. Queste parole, “Via di Mezzo”, non si riferiscono al nostro corpo e al nostro linguaggio, ma alla mente. Quando sorge un’impressione mentale sgradita, essa influisce sulla mente e vi è confusione. Quando la mente è confusa, quando è “scossa”, questa non è la retta via. Quando sorge un’impressione mentale gradita e la mente indulge al piacere, neanche questa è la via.
Non vogliamo soffrire, vogliamo la felicità. Nei fatti, però, la felicità altro non è che una sottile forma di sofferenza. La sofferenza stessa è la forma grossolana. Potete paragonarle a un serpente. La testa del serpente è l’infelicità, la coda del serpente è la felicità. La testa è davvero pericolosa, ha denti velenosi. Se la toccate, il serpente vi morderà immediatamente. Anche se lasciamo perdere la testa e ci aggrappiamo alla coda, esso si volgerà e ci morderà ugualmente, perché sia la testa sia la coda sono parte del serpente.
Allo stesso modo, tanto la felicità quanto l’infelicità, o il piacere e la tristezza, sorgono dallo stesso genitore: la volizione. Così, quando siamo felici la mente non è serena. Davvero non lo è! Quando ad esempio otteniamo quel che ci piace, come la ricchezza, il prestigio, la lode o la felicità, il risultato è che siamo soddisfatti. Nella mente alberga però ancora qualche disagio, perché abbiamo timore di perderlo. Proprio questo timore è una condizione di non serenità. In seguito potremmo veramente perdere quella cosa e, allora, soffrire davvero. Perciò, se non siete consapevoli, la sofferenza è imminente anche se siete felici. È proprio come afferrare la coda del serpente: se non la lasciate andare vi morderà. Che si tratti della coda del serpente o della sua testa, ossia di condizioni piacevoli o spiacevoli, esse sono solo caratteristiche della “Ruota dell’Esistenza”, del cambiamento senza fine.
Il Buddha stabilì che moralità, concentrazione e saggezza rappresentano il sentiero per la pace, la via per l’Illuminazione. In verità, però, queste cose non sono l’essenza del buddhismo. Sono solo il Sentiero. Il Buddha le chiamò magga, che significa “Sentiero”. L’essenza del buddhismo è la pace, quella pace che sorge dal conoscere veramente la natura di tutte le cose. Se investighiamo attentamente, possiamo vedere che la pace non è né la felicità né l’infelicità. Né l’una né l’altra sono la verità.
La mente umana, la mente che il Buddha ci esortò a conoscere e investigare, è una cosa che possiamo conoscere solamente dalla sua attività. Non vi è niente che possa definire la vera “mente originaria”, non vi è niente che possiate utilizzare per conoscerla. Il suo stato naturale è saldo, immobile. Quando sorge la felicità, succede solo che questa mente si smarrisce in un’impressione mentale, vi è movimento. Quando la mente si muove in questo modo, l’aggrapparsi e l’attaccarsi alle cose giunge in essere.
Il Buddha ha già impostato il Sentiero della pratica nella sua interezza, ma noi non lo abbiamo ancora praticato o, se lo abbiamo praticato, lo abbiamo fatto unicamente a parole. La nostra mente e le nostre parole non sono in armonia, indulgiamo solo a vuoti discorsi. Il fondamento del buddhismo non è una cosa opinabile, di cui si possa parlare. Il fondamento del buddhismo è la conoscenza completa della vera realtà. Quando si conosce questa verità, allora non è necessario alcun insegnamento. Se non la si conosce, anche se si ascolta l’insegnamento, non lo si sente davvero. Questa è la ragione per cui il Buddha disse: « l’Illuminato indica solo la via. » Egli non può praticare per voi, perché la Verità è un qualcosa che non si può esprimere a parole o regalare.
Tutti gli insegnamenti sono solo similitudini e paragoni, mezzi per aiutare la mente a vedere la Verità. Se la Verità non l’abbiamo vista, allora siamo costretti a soffrire. Ad esempio, per far riferimento al corpo utilizziamo comunemente il termine sankhāra (2). Chiunque può pronunciarlo, ma nei fatti abbiamo dei problemi semplicemente perché non conosciamo la verità di questi saṅkhāra e, perciò, ci aggrappiamo a essi. Siccome non conosciamo la verità del corpo, soffriamo.
Facciamo un esempio. Supponiamo che un giorno stiate camminando per recarvi al lavoro e, dall’altra parte della strada, un uomo vi insulti, urlando parole ingiuriose. Non appena le sentite, la vostra mente cambia, il suo stato non è più quello solito. Non vi sentite molto bene, siete arrabbiati e feriti. Quell’uomo se ne va in giro insultandovi di notte e di giorno. Ogni volta che sentite questi insulti provate rabbia e, anche quando tornate a casa, siete ancora arrabbiati poiché volete vendicarvi, rivalervi. Pochi giorni dopo, un altro uomo si avvicina alla vostra casa e vi dice: « Ehi! Quella persona che t’insulta è un folle, un matto! Lo è da anni! Insulta tutti in quel modo. Nessuno tiene conto di quel che dice. » Non appena sentite queste cose, vi sentite immediatamente sollevati. La rabbia e il dispiacere che avete covato per tutti quei giorni svaniscono completamente. Perché? Perché ora conoscete la verità. Prima non la conoscevate, pensavate che quell’uomo fosse normale e, così, eravate in collera con lui. Pensare in quel modo vi aveva fatto soffrire. Non appena scoprite la verità, tutto cambia. « Oh, è matto! Questo spiega ogni cosa! »
Quando lo capite, vi sentite bene, perché siete voi stessi a conoscere come stanno le cose. Avendo conosciuto, potete lasciar andare. Se non conoscete la verità, è proprio lì che vi aggrappate. Quando pensavate che l’uomo che vi aveva insultato fosse normale, avreste potuto ucciderlo. Però, quando scoprite la verità, che è matto, vi sentite molto meglio. Così è la conoscenza della verità. Chi vede il Dhamma ha un’esperienza simile. Quando attaccamento, avversione e illusione scompaiono, è in questo stesso modo che scompaiono. Per tutto il tempo che non sappiamo queste cose, pensiamo: « Che cosa posso fare? Provo così tanta avidità e avversione. » Questa non è chiara conoscenza. È esattamente come quando pensiamo che un folle sia una persona sensata. Quando finalmente vediamo che è matto, siamo liberi per sempre dalla preoccupazione. Nessuno poteva mostrarvelo. Solo quando la mente vede da sé può sradicare l’attaccamento, abbandonarlo.
Lo stesso avviene con questo corpo che chiamiamo sankhārā. Benché il Buddha abbia già spiegato che il corpo in quanto tale non è né sostanziale né reale, tuttavia non siamo d’accordo e ci aggrappiamo ostinatamente a esso. Se il corpo potesse parlare, tutti i giorni ci direbbe: « Lo sai, non mi possiedi. » Nei fatti, ce lo dice in continuazione, ma lo fa nel linguaggio del Dhamma e, perciò, non siamo in grado di capirlo. Ad esempio, gli organi sensoriali – l’occhio, l’orecchio, il naso, la lingua e il corpo – cambiano in continuazione, ma non li ho visti nemmeno una volta chiederci il permesso di farlo! Come quando abbiamo un mal di testa o un dolore allo stomaco: il corpo non ci chiede mai prima il permesso, va avanti semplicemente, segue il suo corso naturale. Ciò indica che il corpo non consente a nessuno di possederlo, non ha un proprietario. Il Buddha lo descrisse come un oggetto vuoto di sostanza.
Non comprendiamo il Dhamma e perciò non comprendiamo questi sankhāra. Li confondiamo con noi stessi, come se appartenessero a noi o ad altri. Questo fa sorgere l’attaccamento. Quando l’attaccamento sorge, segue il “divenire”. Appena sorge il divenire, vi è nascita. Appena vi è nascita, ecco allora invecchiamento, malattia, morte … e sorge l’intera massa della sofferenza.
Questo è il paticcasamuppāda (3). Diciamo che l’ignoranza fa sorgere le attività volitive, che esse fanno sorgere la coscienza, e così via. Tutte queste cose sono solo eventi che accadono nella mente. Quando entriamo in contatto con qualcosa che non ci piace, se non abbiamo presenza mentale, ecco l’ignoranza. La sofferenza sorge immediatamente. La mente, però, attraversa questi cambiamenti così rapidamente che non riusciamo a stare al passo con essi. È come cadere da un albero. Prima che ve ne rendiate conto – bum! – siete a terra! In realtà siete caduti attraverso molti rami, grandi e piccoli, ma non siete riusciti a contarli, né potevate ricordarveli dopo che li avevate attraversavati. Solo una caduta, e poi bum!
Così è il paticcasamuppāda. Se lo suddividiamo come si fa nelle Scritture, diciamo che l’ignoranza fa sorgere le attività volitive, le attività volitive fanno sorgere la coscienza, la coscienza fa sorgere la mente e la materia, la mente e la materia fanno sorgere le sei basi dei sensi, le basi dei sensi fanno sorgere il contatto, il contatto fa sorgere la sensazione, la sensazione fa sorgere la volizione, la volizione fa sorgere l’attaccamento, l’attaccamento fa sorgere il divenire, il divenire fa sorgere la nascita, la nascita fa sorgere la vecchiaia, la malattia, la morte e ogni forma di sofferenza. Quando però entrate in contatto con qualcosa che non vi piace, la sofferenza è immediata! Quella sensazione di sofferenza è in realtà il risultato dell’intera catena del paticcasamuppāda. Questa è la ragione per cui il Buddha esortò i suoi discepoli a investigare e conoscere appieno le loro menti.
Le persone nascono nel mondo prive di nomi e, dopo che sono nate, attribuiamo a esse dei nomi. È una convenzione. Attribuiamo alle persone dei nomi per ragioni di utilità, affinché possano chiamarsi a vicenda. Nelle Scritture avviene lo stesso. Separiamo ogni cosa con etichette per rendere proficuo lo studio della realtà. Tutte le cose sono, allo stesso modo, semplicemente sankhāra. La natura originaria è semplicemente quella di cose composte. Il Buddha disse che esse sono impermanenti, insoddisfacenti e non-sé. Sono instabili. Non lo comprendiamo con saldezza, la nostra comprensione non è retta e così abbiamo un’errata visione. Questa errata visione è che i sankhāra sono noi stessi, noi siamo i sankhāra, o che la felicità e l’infelicità sono noi stessi, noi siamo la felicità e l’infelicità. Vedere in questo modo non è piena, chiara comprensione della vera natura delle cose. La verità è che non possiamo costringere tutte queste cose a seguire i nostri desideri, esse seguono la via della natura.
Ecco un semplice paragone. Supponiamo che andiate a sedervi nel mezzo di una superstrada, con automobili e autocarri che vi vengono contro. Non potete arrabbiarvi con le automobili e urlare: « Non passate qui! Non passate qui! » È una superstrada, non potete farlo. Che cosa potete fare, allora? Via dalla strada! La strada è il luogo in cui passano le automobili e se non volete che le automobili siano lì, soffrite.
Con i sankhāra è la stessa cosa. Diciamo che ci disturbano, come quando sediamo in meditazione e sentiamo un rumore. Pensiamo: « Oh, quel rumore mi sta disturbando. » Se pensiamo che il rumore ci stia disturbando, la conseguenza è che soffriamo. Se investighiamo un po’ più a fondo, vediamo che siamo noi ad andare a disturbare il rumore! Il rumore è semplicemente rumore. Se comprendiamo questo, non c’è niente di più nel rumore, lo lasciamo essere. Vediamo che il rumore è una cosa e noi un’altra. Uno che pensa che il rumore venga a disturbarlo è uno che non vede se stesso. Davvero non vede se stesso! Non appena vedete voi stessi, allora siete a vostro agio. Un suono è solo un suono, perché dovreste mai andare ad afferrarlo? Capite che in realtà eravate voi a uscire da voi stessi per andare a disturbare il rumore.
Questa è reale conoscenza della verità. Vedete entrambi i lati e, così, ottenete la pace. Se vedete un lato solo, vi è sofferenza. Non appena vedete entrambi i lati, allora seguite la Via di Mezzo. Questa è la retta pratica della mente. È questo che intendiamo quando parliamo di raddrizzare la nostra comprensione. Allo stesso modo, la natura di tutti i sankhāra è impermanenza e morte, ma noi vogliamo afferrarli, ce li portiamo dietro dappertutto e li bramiamo. Vogliamo che siano veri. Vogliamo trovare la verità nelle cose che non sono vere. Ogni volta che qualcuno pensa in questo modo e si attacca ai sankhāra identificandosi con essi, soffre.
La pratica del Dhamma non dipende dall’essere monaco, novizio o laico, dipende dal raddrizzare la vostra comprensione. Se la nostra comprensione è corretta, giungiamo alla pace. Che siate stati ordinati monaci o meno è lo stesso, tutti hanno la possibilità di praticare il Dhamma, di contemplarlo. Contempliamo tutti la stessa cosa. Se ottenete la pace, è la stessa pace; è lo stesso Sentiero, i metodi sono gli stessi. Per questo motivo il Buddha non fece differenza tra laici e monaci, insegnò a tutti a praticare affinché conoscessero la verità dei sankhāra. Quando conosciamo questa verità, lasciamo andare. Se conosciamo la verità, non ci sarà più divenire o nascita. E com’è che non c’è più nascita? Non vi è più possibilità che la nascita abbia luogo perché conosciamo appieno la verità dei sankhāra. Se noi conosciamo appieno la verità, allora vi è la pace. Avere o non avere, è lo stesso. Guadagno e perdita sono una sola cosa. Questo ci insegnò a conoscere il Buddha. Questa è la pace, una pace senza felicità e senza infelicità, senza contentezza e senza dolore.
Dobbiamo comprendere che non vi è ragione per nascere. Nascere in che modo? Nascere alla contentezza: quando otteniamo qualcosa che ci piace, siamo contenti. Se non c’è attaccamento a quella contentezza, non c’è nascita. Se vi è attaccamento, questo si chiama “nascita”. Così, se otteniamo qualcosa, non nasciamo alla contentezza. Se perdiamo qualcosa, non nasciamo al dolore. Questo è il senza-nascita e il senza-morte. Nascita e morte sono entrambe radicate nell’attaccamento e nella predilezione dei sankhāra. Per questo il Buddha disse: « Per me non vi è più divenire, la vita santa è compiuta, questa è la mia ultima nascita. » Ecco! Egli conobbe il non nascere e il non morire. Il Buddha esortò continuamente i suoi discepoli a conoscere proprio questo. Questa è retta pratica. Se non la conseguite, non conseguite la Via di Mezzo e allora non trascenderete la sofferenza.
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(1) samsāra. Flusso del Divenire o dell’Esistenza; un vagare perpetuo, il continuo processo del nascere, invecchiare e morire.
(2) sankhāra. Formazione, fenomeno condizionato.
(3) paticcasamuppāda. Coproduzione condizionata, genesi interdipendente. Una tabella che descrive il modo in cui i cinque aggregati (khandha) e le sei basi sensoriali (āyatana) interagiscono dopo il contatto (phassa) con l’ignoranza (avijjā) e con la brama (tanhā) per condurre alla tensione e alla sofferenza (dukkha).