del venerabile Ajahn Chah
© Ass. Santacittarama, 2008. Tutti i diritti sono riservati.
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Dal libro “Il sapore della libertà”
Traduzione di Letizia Baglioni
Estratto del libro “Il sapore della libertà”, su gentile concessione dell’Editore Ubaldini.
(Discorso pronunciato ai discepoli occidentali al Bung Wai Forest Monastery, in occasione del ritiro per la stagione dell piogge del 1997)
A VOLTE, QUANDO UN ALBERO DA FRUTTO È IN FIORE, una brezza agita le fronde e fa cadere in terra i boccioli. Alcuni restano sui rami, e diventano piccoli frutti verdi. Il vento soffia ancora, e anche di questi ne cadono alcuni. Tuttavia altri frutti giungeranno quasi a maturazione, e alcuni matureranno completamente, prima di cadere.
Anche per le persone è così. Come fiori e frutti esposti al vento, anche noi ‘cadiamo’ in periodi differenti della vita. Alcuni muoiono nel grembo materno, altri già pochi giorni dopo la nascita. Alcuni vivono per pochi anni e poi muoiono, senza aver raggiunto la maturità. Uomini e donne muoiono nel fiore degli anni. Altri ancora raggiungono un’età matura e muoiono in vecchiaia.
Riflettendo sulle persone, considerate la natura del frutto esposto al vento: entrambi sono molto precari.
Questa natura precaria delle cose si può vedere anche nella vita monastica. Ci sono alcuni che arrivano al monastero con l’intenzione di prendere i voti, ma poi cambiano idea e se ne vanno, a volta con la testa già rasata. Altri diventano novizi e poi decidono di andarsene. Alcuni prendono i voti solo per una stagione delle piogge, poi abbandonano l’abito. Proprio come frutto al vento: è tutto molto precario!
Anche la nostra mente è simile. Un’impressione mentale emerge, scuote la mente, quindi la fa cadere, proprio come un frutto.
Il Buddha comprese la natura precarie delle cose. Egli osservò il fenomeno dei frutti esposti al vento e rifletté sui monaci e sui novizi suoi discepoli. Scoprì che anche loro erano essenzialmente della stessa natura: precari! Come potrebbe essere altrimenti? Tutte le cose vanno così.
Perciò, a chi pratica con la consapevolezza non serve che qualcun altro lo consigli e gli insegni tante cose, per poter vedere e capire. Un buon esempio è proprio il Buddha che, in una sua vita precedente, era il re Chanokomun. Non gli servì molto studio. Gli bastò osservare un albero di mango.
Un giorno, mentre in groppa al suo elefante visitava un parco con il suo seguito di ministri, notò certi alberi di mango carichi di frutti maturi. Non potendosi fermare in quel momento, decise fra sé e sé che sarebbe tornato più tardi a coglierne qualcuno. Ma non sospettava che i suoi ministri, che lo seguivano da presso, avidamente ne facevano incetta, facendoli cadere con dei bastoni, battendo e spezzando i rami, strappando e sparpagliando qua e là il fogliame.
Quella sera, tornando al boschetto di manghi, il re, che già pregustava il sapore delizioso dei frutti, si accorse che erano tutti scomparsi e non ne era rimasto neanche uno! Non solo, ma vide anche che i rami e le foglie erano stati tutti strappati e sparpagliati intorno.
Deluso e contrariato, il re notò poi lì vicino un altro albero di mango con foglie e rami ancora intatti. Si chiese come mai. Capì allora che era perché quel albero non aveva frutti. Se un albero non ha frutti nessuno lo disturba, e così le sue foglie e i suoi rami non subiscono danni. La lezione ricevuta lo tenne occupato a pensare per tutto il tragitto fino al palazzo: “E’ sgradevole, oneroso e difficile essere re. Richiede una preoccupazione costante per tutti i sudditi. Che fare se tentano di assalire, saccheggiare o occupare i territori del suo regno?”. Non riusciva proprio a darsi pace, e anche dormendo era turbato da sogni.
Di nuovo rivide nella mente l’albero di mango senza frutti e con foglie e i rami intatti. “Se fossimo simili a quell’albero di mango – pensò – anche le nostre foglie e i nostri rami, per così dire, non subirebbero danni”.
Ritiratosi nei suoi appartamenti, sedette in meditazione. Alla fine, decise di farsi monaco, ispirato dalla lezione dell’albero di mango. Si paragonò a quell’albero di mango e concluse che se non ci si lasciasse coinvolgere negli affari del mondo si godrebbe di un’autentica indipendenza, liberi da preoccupazioni e problemi. La mente sarebbe serena. E sull’onda di queste riflessioni prese i voti.
Da quel momento in poi, dovunque andasse, quando gli domandavano chi fosse il suo maestro rispondeva: “Un albero di mango”. Non ebbe bisogno di ricevere tanti insegnamenti. Un albero di mango fu la causa del suo risveglio all’Opanayiko-Dhamma, l’insegnamento che conduce all’interiorità. E in seguita al suo risveglio diventò un monaco, un uomo che ha poche preoccupazioni, si contenta di poco e gode della solitudine. Avendo rinunciato alle sue pregorative regali, la sua mente era finalmente in pace.
In questa storia il Buddha era un Bodhisattva che si esercitava costantemente nella pratica. Anche noi, come il Buddha nei panni del re Chanokomun, dovremmo guardarci attorno con attenzione, perché tutto in questo mondo è pronto a insegnarci.
Anche con un minimo di saggezza intuitiva saremo in grado di leggere fra le righe i messaggi del mondo. Capiremo che tutto, in questo mondo, è un maestro. Gli alberi e gli arbusti, per esempio possono rivelarci la vera natura della realtà. Se c’è saggezza non c’è bisogno di domandare a nessuno, non c’è bisogno di studiare. Si può imparare dalla natura quanto basta per raggiungere l’illuminazione, come nella storia del re Chanokomun, perché tutto segue il sentiero della Verità. Non si allontana dalla Verità.
Associati alla saggezza troviamo la padronanza di sé e l’autocontrollo, che insieme portano a una comprensione ulteriore dei modi di essere della Natura. In questo modo, arriveremo a conoscere la verità ultima di tutte le cose, che è anicca-dukkha-anatta (impermanenza, sofferenza, impersonalità). Prendete gli alberi, ad esempio. Tutti gli alberi della terra sono uguali, sono uno, se visti attraverso la realtà di anicca-dukkha-anatta. prima nascono, poi crescono e giungono a maturazione, in un continuo processo di trasformazione, e infine muoiono, come è destino di ogni albero.
Allo stesso modo, persone e animali nascono, crescono e cambiano nel corso della loro vita finché a un certo punto muoiono. Le innumerevoli trasformazioni che intervengono nel corso di questa transizione dalla nascita alla morte rivelano la Via del Dhamma. E cioè che tutte le cose sono impermanenti, avendo come loro condizione naturale il decadimento e la dissoluzione.
Se abbiamo consapevolezza e comprensione, se studiamo con saggezza e attenzione, vedremo nel Dhamma la realtà. Perciò vedremo le persone nel loro costante nascere, cambiare e infine scomparire. Ognuno è soggetto al ciclo della nascita e della morte, e per questo ognuno, nell’universo, è come fosse un solo essere. Perciò, vedere una persona chiaramente e distintamente è come vedere tutte quelle che esistono al mondo.
Allo stesso modo, tutto è Dhamma. Non solo le cose che vediamo con gli occhi fisici, ma anche quelle che vediamo con la mente. Un pensiero nasce, si trasforma e svanisce. E’ nama-dhamma, una semplice impressione mentale che nasce e svanisce. Questa è la vera natura della mente. In una parola, questa è la Nobile Verità del Dhamma. Se non si guardano e non si osservano le cose da questo punto di vista, non si vede veramente! Vedere produrrà la saggezza per ascoltare il Dhamma così come è stato proclamato dal Buddha.
Dov’è il Buddha? Il Buddha è nel Dhamma. Dov’è il Dhamma? Il Dhamma è nel Buddha. Proprio qui, adesso! Dov’è il Sangha? Il Sangha è nel Dhamma.
Il Buddha, il Dhamma e il Sangha sono nella nostra mente, ma dobbiamo saperlo vedere. Alcuni la prendono alla leggera: “Ah, il Buddha, il Dhamma e il Sangha sono nella mia mente.” Ma la loro pratica non è appropriata, non è corretta. Perciò non è del tutto esatto dire che il Buddha, il Dhamma e il Sangha vanno cercati nella nostra mente, perché in primo luogo la ‘mente’ deve essere quella mente che conosce il Dhamma.
Riportando tutto alla prospettiva del Dhamma, arriveremo a capire che la Verità esiste davvero nel mondo, e che quindi ci è possibile praticare per realizzarla.
Per esempio, nama-dhamma, sensazioni, pensieri, fantasie, e via dicendo, sono tutte cose precarie. Una volta nata, la rabbia cresce e si trasforma, e alla fine scompare. Anche la felicità nasce, cresce, si trasforma e scompare. Sono entrambe vuote. Non sono veramente ‘qualcosa’. E’ sempre questo il modo di essere di tutte le cose, tanto sul piano mentale che su quello materiale. Internamente, ci sono il corpo e la mente. Esternamente, ci sono gli alberi, arbusti e ogni sorta di cose che rivelano la legge universale della precarietà.
Che sia un albero, una montagna o un animale, è sempre Dhamma, ogni cosa è Dhamma. E dov’è questo Dhamma? Per dirla in parole povere, quello che non è Dhamma non esiste. Il Dhamma è la natura. E’ ciò che si chiama Sacca-Dhamma, il vero Dhamma. Vedere la natura è vedere il Dhamma, vedere il Dhamma è vedere la natura. Attraverso la natura si conosce il Dhamma.
Perciò, a che serve tanto studio quando la realtà ultima della vita, in ogni suo istante, in ogni suo atto, è semplicemente un ciclo interminabile di nascite e morti? Se siamo mentalmente presenti e chiaramente consapevoli in ogni posizione che assumiamo (seduti, in piedi, camminando o distesi), nascerà spontaneamente la conoscenza; la conoscenza, cioè, della verità del Dhamma che già esiste, proprio qui e proprio adesso.
In questo preciso momento il Buddha, il vero Buddha, vive ancora, perché è il Dhamma stesso, il Sacca-Dhamma. E il Sacca-Dhamma, ciò che consente di diventare un Buddha, esiste ancora. Non si è nascosto da qualche parte! Esso dà origine a due Buddha: uno nel corpo e l’altro nella mente.
“Il Vero Dhamma – disse il Buddha ad Ananda – si realizza solo attraverso la pratica!” Che vede il Dhamma vede il Buddha. Chi vede il Buddha vede il Dhamma. E come può essere? In principio non esisteva un Buddha: fu solo realizzando il Dhamma che Siddhattha Gotama diventò il Buddha. Se spieghiamo le cose in questi termini, allora il Buddha è come noi. Se realizziamo il Dhamma, diventeremo anche noi Buddha. Questa è detto ‘Buddha nella mente’, o Nama-Dhamma.
Dobbiamo essere mentalmente presenti a tutto ciò che facciamo, perché ereditiamo i frutti delle nostre azioni buone o cattive. Se facciamo il bene, raccoglieremo il bene. Se facciamo il male, raccoglieremo il male. Basta esaminare la vita quotidiana per accorgersi che è così. Siddhattha Gotama si risvegliò alla comprensione di questa verità, e a ciò deve l’apparizione di un Buddha in questo mondo. Allo stesso modo, se ognuno di noi, chiunque sia, pratica per realizzare la Verità, si trasformerà in un Buddha.
Perciò, il Buddha esiste ancora. C’è chi si rallegra molto per questo, perché, dicono, se il Buddha esiste ancora è possibile praticare il Dhamma. La questione è esattamente in questi termini.
Il Dhamma realizzato dal Buddha è il Dhamma che esiste da sempre nel mondo. Si può paragonare all’acqua che si trova nel sottosuolo. Se si vuole scavare un pozzo, bisogna andare tanto in profondità da raggiungerla. L’acqua è già là. Non viene creata, ma semplicemente scoperta. Allo stesso modo, il Buddha non ha inventato il Dhamma, non lo ha imposto. Si è limitato a scoprire quello che c’era già. Attraverso la contemplazione, havisto il Dhamma. Ecco perché si dice che il Buddha era illuminato, perché l’illuminazione è conoscere il Dhamma. Il Dhamma è la verità di questo mondo. Poiché l’ha vista, Siddhattha Gotama è detto ‘il Buddha’. E il Dhamma è ciò che permette gli altri di diventare un Buddha, ‘il conoscitore’, il conoscitore del Dhamma.
Se gli essere viventi seguono una buona condotta e sono fedeli al Buddha-Dhamma-Sangha, non mancheranno mai di virtù e di bontà. Con la comprensione, vedremo che in realtà non siamo lontani dal Buddha, ma ci troviamo a faccia a faccia con lui. Nel momento in cui comprenderemo il Dhamma, in quel preciso momento vedremo il Buddha.
Se si pratica veramente, si ascolta il Buddha-Dhamma ovunque, seduti ai piedi di un albero, stando distesi, in qualunque posizione. Non è qualcosa a cui pensare e basta. Il Dhamma scaturisce dalla mente pura. Ricordare queste parole non è sufficiente, perché tutto dipende dal vedere il Dhamma in sé, nient’altro. Perciò dobbiamo essere determinati a praticare per riuscire a vederlo, e allora la nostra pratica sarà veramente completa. Dovunque sediamo, stiamo un piedi, camminiamo o ci distendiamo, ascolteremo il Dhamma del Buddha.
Per poter praticare il suo insegnamento, il Buddha ci ha consigliato di vivere in un luogo tranquillo dove imparare a controllare e raccogliere i sensi: vista, udito, odorato, gusto, tatto e mente. Questo è il fondamento della nostra pratica, perché e questa la sede, e solo questa, dove ha origine tutto. Perciò controlliamo e raccogliamo i sei sensi per conoscere le condizioni che vi si vengono a creare. Tutto il bene e tutto il male nascono con i sei sensi, che sono le facoltà che presiedono al corpo. L’occhio presiede alla vista, l’orecchio all’udito, il naso all’odorato, la lingua al gusto, il corpo alla percezione tattile del caldo, del freddo, del duro e del morbido, la mente all’insorgere delle impressioni mentali. Noi non dobbiamo fare altro che costruire la nostra pratica a partire da questo.
Questa pratica è semplice perché tutto quel che serve è già stato codificato dal Buddha. E’ come se il Buddha avesse piantato un orto e ci invitasse a servirci dei suoi frutti; quanto a noi, non c’è bisogno di piantarne un altro.
In materia di moralità, di meditazione o di saggezza, non c’è bisogno di inventare, sentenziare o speculare; non dobbiamo fare altro che seguire quello che già c’è nell’insegnamento del Buddha.
Perciò, noi siamo esseri molto meritevoli e fortunati, per l’occasione che abbiamo avuto di conoscere gli insegnamenti del Buddha. L’orto esiste già, il frutto è già maturo. Tutto è già completo e perfetto. Serve solo che qualcuno raccolga il frutto, qualcuno che abbia fede abbastanza per praticare!
Dovremmo riflettere sul grande valore del nostro merito e della nostra fortuna. Basta guardarci attorno per vedere quante altre creature hanno una cattiva sorte; pensiamo ad esempio ai cani, ai maiali, ai serpenti o ad altre creature che non hanno l’opportunità di studiare il Dhamma, nessuna opportunità di praticarlo. Sono esseri a cui è toccata una cattiva sorte, che ricevono il frutto della loro karma. Quando non si ha l’opportunità di studiare, di conoscere e praticare il Dhamma, non si ha nemmeno l’opportunità di affrancarsi dalla sofferenza.
Come esseri umani, non ci dovremmo permettere di diventare vittime della cattiva sorte, di farci defraudare dei metodi e della disciplina corretti. Non diventate vittime della cattiva sorte! Un individuo, cioè, che non ha speranza di raggiungere il Sentiero della libertà del Nibbana, che non ha speranza di esercitare la virtù. Non pensate di essere già senza speranza! Se pensiamo così ci attireremo una cattiva sorte come le altre creature.
Siamo esseri che sono entrati nella sfera di influenza del Buddha. perciò noi esseri umani abbiamo già meriti e risorse sufficienti. Se correggiamo e sviluppiamo la nostra comprensione, le nostre opinioni e la nostra coscienza nel presente, questo ci porterà a comportarci e a praticare in modo da vedere e conoscere il Dhamma in questa nostra vita attuale come esseri umani.
Noi dunque siamo diversi dalle altre creature, siamo esseri destinati a risvegliarsi al Dhamma. Il Buddha ha insegnato che in questo preciso momento il Dhamma è qui, di fronte a noi. Il Buddha è seduto di fronte a noi, proprio qui e ora! Quale altro tempo o luogo vorreste aspettare?
Se non pensiamo nel modo giusto, se non pratichiamo nel modo giusto, retrocederemo alla condizione animale o a quella di creature infernali, di spettri affamati o di demoni. E in che modo? Osservate la vostra mente. Quando nasce la rabbia, che succede? Eccola, è proprio là! Quando nasce l’avidità, che succede? Guardatela, è di fronte a voi!
Nel momento in cui non riconosce e non comprende questi stati mentali, la mente non è più quella di un essere umano. Tutte le condizioni sono soggette al divenire. Il divenire dà origine alla nascita, all’esistenza in quanto determinata dalle condizioni presenti. Perciò noi diveniamo ed esistiamo in ragione del condizionamento esercitato dalla nostra mente.