del venerabile Ajahn Sucitto
© Ass. Santacittarama,2002. Tutti i diritti sono riservati.
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Traduzione di Silvana Ziviani.
SE LA SPIRITUALITA’ RIMANE NEL CAMPO DELLE IDEE, non può suscitare quel sentimento che ci porta più in alto. Affinché l’insegnamento ottenga un risultato,- deve essere sperimentato, provato, deve essere reso reale, completamente parte della vita; avrà successo quando ci si accosta ad esso con fede e sicurezza. Per questo il Dhamma del Buddha ci chiede di entrare in contatto con l’originaria qualità di bontà che è in noi, di accostarci all’insegnamento attraverso questa immediata qualità personale, che forse spesso abbiamo trascurato. Prima di lasciarci coinvolgere dalla nozione di uno scopo da raggiungere, dovremmo riconoscere e aver fiducia nella bontà del nostro cuore, che ci farà da guida. E più ci avviciniamo con cuore buono, più esso ci farà migliorare. Senza questa qualità di elevazione, la pratica buddhista non sarebbe una pratica spirituale, sarebbe puramente una questione meccanica. Entriamo in contatto con la bontà del cuore, lasciamo che sia questa qualità a guidarci, e non il complesso sistema della propria personalità; questa non viene annullata, ma semplicemente messa da parte. E’ un processo estatico: la parola ‘estasi’ letteralmente significa “stare fuori da”, uscire dal campo della personalità. E’ però un’estasi misurata, gentile, non un’esperienza folle o frenetica. E’ come imparare a nuotare: prima si tasta l’acqua, la corrente, la profondità, si impara a lasciarsi andare, poi si comincia a sollevare i piedi dal fondo, e gradualmente ci si rende conto che è l’acqua stessa a sollevarci e a tenerci a galla.
Le scritture buddhiste spesso parlano delle debolezze e delle negatività in cui l’essere umano rimane impigliato, ma danno un grande risalto anche agli stati di beatitudine, gioia, diletto, felicità, calma, chiarezza e serenità, fino al punto in cui le parole sono inadeguate ad esprimere l’abbondanza di stati beati in cui può trovarsi l’essere umano. E questo arriva fino al massimo della beatitudine, rendendo impossibile ogni espressione linguistica. Se consideriamo così il cammino spirituale, saremo esaltati dalla fede e da un senso di impazienza. Ma c’è anche da vedere come esiste una via equilibrata per mettersi in contatto con questa bontà del cuore, per incoraggiarla e alimentarla fino a che sarà abbastanza grande da portarci sempre più in alto.
A questo scopo il Buddha ha insegnato un modo di procedere, chiamato l’Insegnamento Graduale, attraverso il quale istruiva e incoraggiava la gente. Comincia da una posizione che tutti possono capire, e li guida verso una razionale auto-indagine: “Pensate che questo sia bene, o è meglio quest’altro?”, “Se faceste così… non sarebbe meglio?” e così via, guidandoli in avanti, ma partendo ogni volta da un punto che hanno già chiaro in mente.
Quindi per prima cosa il suo insegnamento riguarda ciò che una persona conosce come cosa buona e che fa progredire: la generosità – espressione di buon kamma. La generosità si manifesta in termini di cose materiali o in termini di cuore. La generosità è qualcosa che fa sentire bene, è espansiva, grandiosa e nobilitante, ed è un bene per sé e per gli altri. E’ un sentimento buono che non si basa sul prendere, né da una situazione né da un rapporto. Va nella stessa direzione del Dhamma, cioè verso la purezza, il lasciar andare.
Con questo tipo di insegnamento una persona comincia a sintonizzarsi con un modo di vivere empatico, che capisce l’esperienza dell’altro: ciò che si fa di bene agli altri è un bene fatto anche a sé – e questa è la base della bontà del cuore. Dopo aver messo in risalto la generosità, il Buddha passa a parlare della virtù: agli ascoltatori viene chiesto di considerare ciò che non vorrebbero che capitasse a loro. E allora perché dovremmo farlo ad un’altra creatura? Di nuovo si punta sull’empatia. Ci viene poi chiesto di prendere nota della legge di causa ed effetto. Cosa accade quando beviamo alcoolici? Come ci si sente dopo qualche ora? Che tipo di azioni siamo portati a fare in questa situazione? Che tipo di rapporto stabiliamo? Con le mie possibilità materiali e di tempo, posso fare qualcos’altro? Cos’è che mi fa sentire bene a lungo andare? La persona è incoraggiata a riflettere e in tal modo a sviluppare la sua propria saggezza.
Poi il Buddha ci porta ancora più avanti con un insegnamento già più difficile per gli esseri umani: cercare nella stimolazione sensoriale il benessere è una cosa su cui non si può fare affidamento. Addirittura certe volte non è neanche raccomandabile né sano: può essere molto degradante, farci cadere in basso. Eppure ci vuole una certa pratica di introspezione per rendersi conto che i benefici di una stimolazione sensoriale sono inferiori a quelli della generosità e della virtù.
L’insegnamento poi prosegue sulla rinuncia, cosa molto difficile da intraprendere per gli esseri umani, a qualsiasi livello, a causa del sistema in cui viviamo e dei condizionamenti che abbiamo. Il sistema sensoriale si basa su avere, trattenere e accumulare. Dobbiamo realizzare che la più alta forma di benessere viene dal dare, non dallo sfruttare tutto a proprio vantaggio. Questa realizzazione è una dei primi effetti della bontà, in cui il nostro benessere si associa all’etica e all’empatia, invece che all’impatto provocato dalle impressioni esterne sul nostro sistema nervoso. E’ così che la rinuncia comincia a prendere senso.
Il Buddha ha insegnato in questo modo, cioè presentando alla gente una via sistematica di sentire le cose esteriori, riconoscendo dove si trova in se stessi il più alto grado di bontà e integrità. Poi, quando la loro mente fu nobilitata e pronta, egli insegnò le Quattro Nobili verità: l’insegnamento che porta alla fine della frustrazione, dell’alienazione, del bisogno. La quarta Verità, l’Ottuplice Sentiero, ci dà un modello di pratica spirituale che può riguardare tutti gli aspetti della nostra vita: sia la vita emotiva che psicologica, le relazioni, il modo di pensare e agire, il modo in cui lavora la mente.
Oltre al familiare Ottuplice Sentiero, talvolta il Buddha ha parlato di Decuplice Sentiero. I due fattori che si aggiungono all’Ottuplice Sentiero sono Retta Conoscenza (non la conoscenza intellettuale ma una comprensione pienamente spirituale) e Retta Liberazione – ci si sente perfettamente liberati, sollevati dalla sofferenza. Si può fare un paragone con un abile musicista; quando impara a suonare il corno, sa come trovare i tasti, come soffiare dentro di esso e produrre il suono. Ma poi la nota esce dallo strumento; è estatica, lascia completamente lo strumento. L’Ottuplice Sentiero è l’accordatura e l’esecuzione. Poi quello che sorge dall’Ottuplice Sentiero è la Retta Conoscenza e la Retta Liberazione. La stessa cosa accade con l’ottavo fattore del Sentiero, la concentrazione (samadhi), ha il potere di raccogliere insieme e dare forza agli altri fattori del Sentiero verso la conoscenza e la liberazione.
Quando si ha il Sentiero come guida bisogna seguirlo completamente. Pratico veramente la Retta Visione? Pratico il Retto Pensiero? Pratico la Retta Parola? Retta Azione? Retto Sostentamento? Pratico il Retto Sforzo? La Retta Consapevolezza? Il Retto Raccoglimento della mente? Il Buddha ha fortemente incoraggiato questa sistematica indagine su se stessi. La mia visione delle cose mi dà depressione, non mi aiuta ad elevarmi, mi dà la sensazione che la vita sia senza scopo o frustrante? Oppure la mia visione delle cose mi fa vedere che è possibile progredire, che vi è anche un buon kamma e buoni risultati nel tempo? Quest’ultima è Retta Visione. Invece di aspettarsi di aver tutto ora, chiedersi se quello che faccio ora è buono o cattivo. Che risultati avrà il mio comportamento ora e nel futuro? Se vedete che avete fatto del male, potete cominciare a correggere la situazione? Riconoscere dove si è sbagliato, cercare di capirlo e poi iniziare a fare il bene, questo è considerato un modo giusto di procedere nel Buddhismo. Reinstaura la bontà del cuore.
Poi viene il Retto Pensiero. Il Buddha lo descrive come ciò che egli fece prima dell’illuminazione: guardare dentro la propria mente e considerare: quali pensieri portano tracce di crudeltà, quali non sono toccati dalla crudeltà? Quale modo di pensare e agire riguarda la gentilezza amorevole, quale riguarda invece il rancore e la cattiva volontà? Quale stato è teso all’afferrare e al trattenere, quale concerne invece il lasciar andare e la rinuncia? Quindi decise di identificare chiaramente i pensieri dannosi, sentirne la spiacevolezza e deliberatamente metterli da parte. Poi occuparsi del loro opposto. Non è una cosa difficile da fare e nello stesso tempo, mettendola in pratica, si ha un esempio di ciò che caratterizza il Sentiero: stabilire la bontà attraverso il discernimento.
Che cosa sostiene la Retta Parola? Oppure, considerando questo fattore nei termini di “Sentiero e Frutto”, sto andando nella giusta direzione? Sto lavorando per sviluppare la Retta Parola? Se date un’occhiata alla lista di soggetti di cui il Buddha riteneva non fosse interessante occuparsene, vi accorgerete che molti di questi sono proprio le cose di cui la gente ama parlare, perché fungono da morbido e tiepido cuscinetto di discontinuità tra il qui e ora della mente. Parlare di calcio, del tempo, di com’è la vita su Giove, parlare di eroi o celebrità, ecc., queste sono le cose di cui la gente ama parlare perché nascondono o formano una piacevole imbottitura tra loro e le incertezze della vita, le ferite del cuore e della mente. E calmano l’ansietà che nasce quando incontriamo gli altri, poiché siamo sempre incerti quale è il terreno comune su cui andare sicuri. Il sistema della personalità può essere disperatamente fragile e ha bisogno di cercare sicurezze, di essere accettato e di avere la sensazione di stare sulla giusta strada, ecc. E’ instancabilmente avido di queste cose. E spesso è la società stessa che continua ad alimentare questo atteggiamento lanciando esche allettanti al sistema dell’ego. Possiamo andare al di là di questo?
Sono uno che capisce veramente il bisogno di un Retto Sforzo? Uno che riconosce che forse non ha realizzato i fattori del Retto Sforzo, ma che è interessato e disposto a realizzarli? E’ questo lo sforzo che si richiede per portare alla luce ciò che è bene, per mantenerlo e rafforzarlo, per abbandonare ciò che è male, e proteggersi da azioni dannose: è vigore, interconnessione e impegno.
Usate l’Ottuplice Sentiero per ricordare, lasciatelo scorrere nella mente, e contemplate: ci sono naturalmente milioni di cose che uno può fare nell’arco di un giorno, ma avere queste riflessioni è molto terapeutico. Non vuol dire lasciar correre la mente, anzi fornisce un freno e ci rammenta di esercitare la bontà del cuore. Possiamo dimenticarlo quando siamo assorbiti nel fare le cose o nell’essere qualcuno; quando non facciamo che preoccuparci inutilmente di noi stessi, sentendoci preda di sensi di colpa, dell’orgoglio o dell’arroganza, oppure quando alimentiamo infatuazioni o pensieri negativi verso gli altri.
Il Sentiero va visto come un insieme, ogni elemento sostiene l’altro: per cui la propria visione o il proprio sforzo aiutano e sostengono il samadhi; la pratica della consapevolezza sostiene il modo di parlare. I fattori del Sentiero devono stare tutti sullo stesso livello, e non andare ognuno per i fatti propri. Ecco perché l’immagine del Sentiero è una Ruota. I fattori che sono nominati per primi sono necessari a sostenere quelli che vengono dopo. Consideriamo la consapevolezza, che è un processo di pura attenzione; oppure samadhi – raccoglimento, una mente calma e tranquilla: come possono il nostro pensiero e la parola sostenere queste qualità?
Il sostegno basilare è dato però dalla ‘bontà del cuore’, che si sviluppa con la pratica della Retta Visione e del Retto Pensiero. E’ qualcosa che cominciamo a riconoscere e a condividere con gli altri. Quando veniamo in un monastero come questo, possiamo riconoscere questa bontà del cuore reciproca. Invece di guardarci con occhi critici, dovremmo cominciare a vedere: “Questo è uno dal cuore buono, questo è mio fratello (o sorella) con questa particolare caratteristica”. Provate a parlare con loro in questa maniera, cercate di vedere in loro tale caratteristica, invece di “Oh, ecco quel lumacone sempre in ritardo”, oppure, “Quell’incompetente…”. Guardate alla bontà del cuore. Se la vedete in voi, la vedrete anche negli altri e la mente si acquieta in qualcosa che fa sentire contenti, a proprio agio, invece di essere dispersivi e brontoloni, cosa che non vi porterà alla consapevolezza o al samadhi.
Fate tutto ciò che onora e sviluppa la bontà del cuore e siatene voi stessi all’altezza. Potete cominciare col vedere più chiaramente e più da vicino la differenza tra buono e cattivo, salutare e non salutare e non più da un punto di vista astratto e giudicante. Sentite la differenza. Ciò che vi fa sentire bene è salutare; ciò che vi fa sentire amarezza, rimpianti, depressione, agitazione è nocivo. Indipendentemente da ciò che gli altri mi fanno o da quello che sta accadendo, mi sento bene o male quando provo risentimento? La prossima volta che questo capita, osservate il vostro stato d’animo e lasciate poi andare.
Il Buddha disse che aveva notato dei sentimenti di crudeltà nella mente; non ha detto: “Non so che voglia dire la crudeltà”. Conoscendo la cattiva volontà, la malignità e l’avversione, sapendo che non ne proviamo gioia, possiamo più facilmente metterle da parte. Essere in grado di continuare a portare avanti tutto ciò è Retto Sforzo. Il Retto Sforzo non è confinato a un’ora alla settimana, ma va portato avanti in continuazione, per quanto semplice e banale possa sembrare, mantenendolo semplice e nella giusta direzione.
Non potete prendere scorciatoie, non potete dire: “Non voglio tener conto della Retta Visione, Retto Pensiero, Retto Sostentamento, mi basta il samadhi”. Presto la vita diventa una povera cosa se considerate che il Sentiero è formato da un solo fattore. Se la pensate così, allora gran parte della vostra giornata non avrà alcuna rilevanza. Andrà a finire che ricaverete solo un breve spazio di tempo alla fine della settimana per un piccolo sforzo spirituale, perché vi siete separati dalla spiritualità e avete smesso di essere responsabili del vostro stesso modo di pensare, parlare e agire. Il pensiero, la parola e l’azione, anche se a livelli minimi, se portati avanti nel modo giusto, se tenuti consapevolmente nella mente, portano ai più alti stati di samadhi, di Conoscenza e Liberazione.
Certe volte, praticando la meditazione, perdiamo di vista questo. Forse non proviamo la voglia di parlare, agire, chiacchierare, ecc. Separiamo i fattori primari dai susseguenti elementi del Sentiero. Diventiamo sprezzanti: ‘non disturbatemi’. Quando accade questo, allora la vita quotidiana è solo uno spreco di tempo, noiosa, irritante, perché non sappiamo usarla come base per la pratica.
Ho notato in me stesso gli effetti di essere disponibile e con la bontà del cuore, nelle mie azioni. Vado alle riunioni, faccio programmi, tratto un’infinità di cose a livello concettuale – cose che uno non potrebbe dire appartengano al qui e ora – ma se faccio tutto questo con la Retta Visione e col cuore buono, una volta finita quell’attività, è proprio finita del tutto dentro di me, non mi appartiene più. Ed è sempre presente il buon cuore, che mi permette di essere prontamente in contatto con la chiarezza, la pace e la felicità della mente. Quando la mente è felice e calma è facile concentrarsi. Ma se faccio le stesse cose con un atteggiamento brontolone – ‘E’ tutta una perdita di tempo’ – allora non finisco quando il lavoro o la riunione sono finiti. La mente continua a lamentarsi di tutta quella perdita di tempo, per almeno altre sei ore. Oppure piagnucola: ‘Come posso arrivare all’illuminazione facendo queste cose!’ Come se il mondo fosse predisposto in funzione del mio benessere! Se si considera la situazione penosa di molti esseri umani, senza contare le altre creature del pianeta, noi, qui, viviamo in un ambiente molto confortevole, e soprattutto qui al monastero.
La grande difficoltà per l’essere umano è il fattore essenziale della rinuncia. Tuttavia, man mano che sviluppiamo la bontà del cuore, ci accorgiamo che possiamo lasciar andare. Più ci si sente bene con se stessi, meno bisogni si hanno e allo stesso tempo non ci sono problemi a prendere, ad accettare le cose. Possiamo così rinunciare alle cose non per puritanesimo o disprezzo, ma perché è diminuito il bisogno di aggrapparsi e di rassicurarsi con esse.
Ci sono vari tipi di bisogno. Uno è quello che ti fa avere un sacco di cose; un altro è voler essere qualcuno; e un altro essere privato delle cose. Questi movimenti della mente sono conosciuti come kama, bhava e vibhava. La rinuncia, che è il filo nella trama del Dhamma, può ridurre questi fattori. E allora la rinuncia diventa espressione di appagamento.
Le prime cose di cui non sentiamo impellente il bisogno sono gli oggetti dei sensi: vestiti raffinati, divertimenti e l’attività sessuale. Quando entrai al monastero non mi fu difficile abbandonare i divertimenti e le relazioni; ad ogni modo ne avevo avuto abbastanza di tutto ciò, almeno per il momento! Ma nel monastero uno deve lasciare disponibile anche il proprio tempo per la routine quotidiana e questa è una prova. Si deve rinunciare al proprio spazio e condividerlo con gli altri, rinunciando al bisogno di essere qualcosa di speciale, di avere la propria privacy e di essere lasciato in pace – anche queste sono pratiche difficili, una sfida quasi. Ma ciò che spesso la gente non sa fare è lasciar perdere le proprie opinioni e punti di vista. Questo è l’ultimo avamposto della propria personalità e ci si può aggrappare molto energicamente ad esso! Se siete vissuti con monaci e monache per un po’, vi sarete resi conto che la forza di carattere che permette loro di rinunciare alle cose dei sensi, si riversa nel rimanere attaccati alle opinioni che ci si forma sulle cose!
Le persone sentono un grande senso di stabilità rimanendo aggrappati alle proprie opinioni. Nella mia pratica personale, non ho trovato difficile rinunciare alle cose, ed essere anche molto austero, ma contemporaneamente sviluppavo un atteggiamento critico verso chiunque. Non ero riuscito a lasciar andare la presunzione, quel modo di rassicurare me stesso giudicando gli altri.
Quindi, invece di lasciarsi trascinare in discussioni su chi è nel giusto e chi sbaglia, quale è il giusto modo di meditare, ecc., è bene accantonare ogni principio di riferimento e considerare: “Come ci si sente quando si è attaccati al proprio punto di vista? Come ci si sente quando guardo un altro dalla stretta feritoia della mia visuale personale? E che cosa ottengo? Ho scoperto che avere giudizi ed opinioni sugli altri mi porta ad avere opinioni su me stesso. In effetti l’opinione che si ha degli altri è molto più tollerante di quella che si ha con se stessi. Se si danno giudizi sugli altri, so per esperienza che si danno anche su se stessi.
La mente critica è una mente giudicante: non c’è felicità, gioia, non c’è amore, non c’è fiducia. O sto cercando di appagare quel fattore mentale che puntella il mio punto di vista, vivendo all’altezza dell’opinione che ho di me, oppure cerco di avere una migliore opinione di me stesso. La meditazione allora non è una esperienza di apertura; è solo un modo di diventare o sostenere ciò che la mia mente giudicante vuole che io sia. E’ una ben povera esperienza, allora!
Fino a che uno giustifica e pensa che la propria opinione sugli altri sia giusta – anche se lo è (come opinione) – cercate di sentire come è il vostro stato mentale, la presunzione che lo accompagna. Poi quando lo applicate a voi stessi, notate come “Io sono…” porta a “Non lo sarò mai…” e a “Io sono sempre…”. E’ una vera trappola. In effetti è una contemplazione basata sul pregiudizio e sulla valutazione che uno dà di sé, per cui, invece di aiutarci a raccoglierci sulla bontà del cuore e sui fattori del sentiero, in effetti ci concentra solo sull’idea che abbiamo di noi stessi. E’ questo un atteggiamento che porta ad un processo di frammentazione.
Abbandonare un’opinione è come abbandonare qualsiasi altra cosa; si inizia sapendo che c’è, e considerando come ci si sente con essa. Da una parte si continua a rimanere in contatto con la bontà del cuore, con la gentilezza e la generosità; dall’altra ci si rende conto dei giudizi, della critica e della formazione di opinioni. Considerate ciò che è meglio. Prendetevi il tempo per farlo, invece di sopprimere l’opinione oppure giustificarla o pensare che sia irrilevante per la propria pratica. Sembra che le opinioni riguardino gli altri, ma in effetti creano l’ambiente in cui dovrà vivere il cuore.
La rinuncia inoltre stabilizza e calma la mente. Chiedetevi: la mia mente è stabile e piena di fiducia in sé? Oppure è agitata, va di qua e di là, nervosa e poi depressa? Come si raggiunge la stabilità del cuore e della mente? Forse bisognerebbe lasciar perdere un sacco di ‘se’, ‘e’, ‘forse’, ‘soltanto’, ‘dovrebbe’, ‘potrebbe’, ecc.? Solo quando vi è indipendenza e fiducia in se stessi, avremo la calma.
Non vi sembra eccessivamente dannoso avere una mente che si posa su tutto ciò che la circonda, che specula e si diverte, eppure dobbiamo chiederci il perché è così agitata. Se tenete corda alla mente che si agita sempre, quando poi vi sedete, quella continua ad agitarsi. Continuerà a ribattere sulle stesse cose, a vagabondare, a ricordare, a preoccuparsi, infaticabile, agitata, fantasticando, irritandosi forse anche un po’ con sé, poi cercando di fare qualcos’altro, di meditare… no, così non va e allora di nuovo a fantasticare, a irritarsi, a farsi un’idea di se stessi… La mente, la cui energia non è stata protetta in modo efficace e che non è raccolta è come una mosca nel riquadro di una finestra. Continua a ronzare ma non esce, né può stare dove è ora. Non è affatto in contatto con la bontà del cuore.
Quindi per un vero benessere, dobbiamo abbandonare le speculazioni, le scelte, i voli mentali. Se possiamo accantonare le cose con un cuore buono, poi possiamo dimorare in questo buon cuore. La capacità di pensare della mente può allora essere diretta e usata per stare in contatto con l’oggetto della meditazione.
Alcune volte possiamo provare una vera incapacità a meditare. Tuttavia non è bene dare peso a questo pensiero. La meditazione comporta per prima cosa allontanare l’attività mentale da ciò che non è utile alla concentrazione; e questo darà l’apertura e l’energia necessarie a focalizzare e a sostenere la mente sull’oggetto di meditazione. Allora vediamo che cos’è il Retto Pensiero. “Ogni buona azione, o ogni buon pensiero che ho nella mente vanno nella direzione del giusto Sentiero”. Questo è un pensiero corretto: ci porta verso una gioia motivata e poi ad una senso di agio e appagamento. “Il gesto di pelare la carota con un cuore attento mi aiuterà a meditare”. “Il fatto di aver perdonato qualcuno o di essere stato magnanimo, mi darà calma e agio”. E’ questa bontà del cuore che ci dà la forza, la perseveranza e la fiducia di aderire al Sentiero man mano che si snoda davanti a noi.
Questo discorso costituisce il primo capitolo da un libro di insegnamenti di Ajahn Sucitto, intitolato “Kalyana”, attualmente in traduzione dall’inglese.