Insegnamenti

Kwan Yin e il nobile elefante

del venerabile Ajahn Sucitto

© Ass. Santacittarama, 2003. Tutti i diritti sono riservati.
SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.
Traduzione di Chandravimala Candiani.


Nell’inverno 1986-87 Ajahn Sucitto è stato in Thailandia, in pellegrinaggio (tudong) insieme al Venerabile Gavesako. La maggior parte del viaggio si è svolta in Isan, le province del nord est della Tailandia, ma il seguente brano è una riflessione su un’altra parte del viaggio,a Siraja e Ko Sichang . . .

SIRAJA NON È UNA CITTÀ PARTICOLARMENTE BELLA. Fa parte dell’agglomerato urbano a est di Bangkok che si snoda lungo la costa attraverso Samut Pakhan e giù verso Chonburi, che si è propagata al seguito dell’espansione del petrolio e del traffico marittimo attorno al Golfo di Thailandia. Io e Ajahn Gavesako eravamo diretti lì come tappa del nostro viaggio di tudong, per raggiungere un’isola chiamata Ko Sichang, l’isola del Nobile Elefante. Eravamo vicini al Natale, che, essendo in Thailandia una delle massime festività, è un periodo molto rumoroso, per lo meno nelle città più soggette all’influsso dell’occidente. Di comune accordo, avevamo programmato di fermarci a Siraja una notte o due in un piccolo monastero che Ajahn Gavesako conosceva, e di raggiungere poi l’isola per trascorrere alcuni giorni di vita estremamente semplice, lontani dal trambusto.

Sembrava una buona idea: anche prima dell’inizio dei festeggiamenti, la vita in città era rumorosa in confronto alle foreste dell’Isan. Il piccolo monastero in cui ci trovavamo, occupava pochi acri proprio a ridosso di un pendio alla periferia della città; non era situato proprio nel centro della città, ma nemmeno ne era completamente fuori. C’era molto rumore che proveniva dalle strade e dalla musica natalizia suonata a tutto volume; così, dopo le iniziali cordialità con i monaci residenti, per quanto mi riguardava, ero impaziente di andarmene. Ma naturalmente bisognava aspettare finché qualcuno non avesse intuito questa mia aspirazione e si fosse offerto di comprare un biglietto, il che poteva prendere alcuni giorni.

Dunque, una sera scendemmo al mare e camminammo verso un’isoletta connessa con la terraferma da un pontile. Su quest’isola c’era uno di quei templi del Buddhismo cinese, di cui ce ne sono molti in Thailandia, dedicati al lato più ritualistico del Buddhismo. Qui, per ottenere buona fortuna, si possono fare offerte ai reliquiari di questi templi, al Buddha, o a uno dei bodhisattva, in particolare al bodhisattva della compassione, Colui che ascolta i suoni del mondo, o Kwan Yin, com’è conosciuta in Cina. Devo confessare che questa supplica all’intervento divino non si è mai accordata con le mie idee sul Buddhismo, così la mia mente si distoglieva dalle immagini dipinte e dai reliquiari decorati, per rivolgersi al mare immerso nell’oro del tramonto. L’orizzonte sereno suggeriva spazi divini e mi scopersi sempre più impaziente di raggiungere un posto dove potessi dedicarmi interamente alla meditazione.

Il pomeriggio successivo, invisibili ruote si erano messe in moto e c’era stato possibile prendere un battello per l’isola di Ko Sichang. Sbarcammo in un piccolo porto e camminando lungo la costa dell’isola, raggiungemmo un luogo più remoto. Qui trovammo un fantastico vecchio tempio in rovina, costruito durante il regno del re Mongkut. Non assomigliava al tempio cinese. La sua stessa decadenza gli dava una certa aria di santità. Attraverso il tetto, cresceva un albero della bodhi e all’interno, i muri sbrecciati erano spogli, salvo qualche fotografia di bhikkhu in pellegrinaggio (tudong), come il Venerabile Ajahn Mun. Era molto incoraggiante stare alla presenza di queste immagini di austerità e di dedizione alla pratica del Dhamma. Sicuramente, eravamo nel posto giusto.

Scendemmo verso le coste rocciose, alle spiagge e all’acqua spumeggiante. Decidemmo di fare buon uso della situazione, separandoci e praticando da soli per la maggior parte del tempo. Avevo già programmato di digiunare per i cinque giorni della nostra permanenza, perché ho notato che col digiuno aumenta la limpidezza della mente e si raffina l’attenzione. Le energie fisiche si acquietano, si appianano e c’è meno bisogno di sonno.

Era bel tempo. In Thailandia, dicembre è un periodo molto gradevole, caldo ma non afoso o umido, inoltre, trattandosi di un’isola, soffiavano piacevoli brezze. Insomma era un’atmosfera idilliaca. La notte era tiepida e mite e io sedevo sotto lo smisurato firmamento, meditando, con la luna come unica compagna. Il tempo fluì via, poi si arrestò . . . Perciò, dopo qualche giorno ero in piena beatitudine.

Poi, credo che fu dopo tre giorni interi, che mi imbattei in un bel palazzo antico di legno, per metà bruciato, situato in un campo di alberi di frangipane: una visione stupefacente. Era vicino alle rovine del tempio, ed esplorandolo meglio, scoprii una caverna scavata nel terreno. Si poteva scendere dentro questa grande fenditura della terra, che poi si apriva, rivelando lunghe gallerie dove si poteva praticare la meditazione camminata, e nicchie nella roccia in cui sedere e meditare. Ed ancora si poteva scendere più in profondità fino a non vedere o sentire niente; così da poter essere completamente avvolti nel grembo della terra. Il sogno di un eremita!

Pensai: “Ma è stupefacente, è veramente meraviglioso!” Ed era un giorno di luna piena. Immediatamente, la mia mente costruì la serata in cui avrei affrontato Mara: ero vicino al tempio in rovina, potevo quindi sedere con Ajahn Mun, o potevo scendere a praticare nella caverna, o praticare la meditazione camminata fuori, sotto gli alberi di frangipane, al soffio delle fresche brezze serali, sotto lo splendore della luna piena. “Ecco qui, – pensai – questa sarà la notte in cui entrerò veramente in samadhi.”

Mi sentivo leggerissimo, al settimo cielo per l’aspettativa, quando notai alcune persone che venivano avanti, cosa abbastanza strana. Erano tutte vestite di bianco, riconobbi uno degli anagarika del monastero in cui eravamo stati a Siraja, insieme ad alcune donne laiche, pure vestite di bianco. Mi resi immediatamente conto che dovevano essere venuti a trovare noi, ma non volevo essere seccato con conversazioni garbate, soprattutto perché non conoscevo la lingua. Comunque, mi avevano visto, non potevo ignorarlo, decisi dunque di fare del mio meglio, di raggiungerli, di essere cortese, sperando che non sarebbe andata per le lunghe. Ci sedemmo sotto un grande albero della bodhi fuori dal tempio in rovina; avevano portato una borsa termica con della Coca-Cola; ne accettai una e la sorseggiai. Incominciarono a far domande e a parlare, ma io non riuscivo a capire granché di quello che dicevano. Sorridevo e dicevo che non capivo e pensavo che prima o poi sarebbe comparso Ajahn Gavesako. Così, lui poteva parlare con loro e io potevo andarmene, sedermi in qualche posto ed entrare in samadhi.

Ma da qualche parte, sullo sfondo della mente, una voce ansiosa ripeteva: “Perché sono venuti? Mi chiedo cosa significhi.”

Finalmente, arrivò Ajahn Gavesako. Per un po’ sedetti insieme a lui, che sembrava molto a suo agio nell’ascoltarli e chiacchierare con loro; così pensai: “Bé, io me ne vado.” Stavo proprio per scivolar via, quando egli si volse verso di me e disse: “Ehi, Tan Sucitto, prepara la tua sacca, torniamo indietro.”

La mia mente si fermò: “Cosa? Indietro?” E lui: “Ritorniamo a Siraja.” E io: “A che scopo? Perché torniamo indietro?” La mia serata di samadhi svanì di colpo. “Ci hanno invitato!?” dissi guardandolo interrogativamente, e lui annuì. “Non so perché, ma non ha importanza; ci hanno invitato e dobbiamo andare. Non sarebbe cortese rifiutare.”

A quel punto, qualcosa in me si fermò. Mi girai e me ne andai dove avevo lasciato la borsa con la ciotola per la questua e preparandola, continuavo a pensare: “Cosa vogliono? Cosa dovremo fare? Suppongo che dobbiamo tornare per fare qualche canto, o qualche rituale. Perché non possiamo restare qui? Eravamo arrivati per restare un po’ di giorni. Saremmo comunque tornati tra un paio di giorni. Eravamo venuti per praticare qualche giorno e adesso ci tocca tornare in città. A che scopo? Cosa vogliono?” Ma avevo abbastanza esperienza da riconoscere questo come una resistenza della mente e a non darle seguito. Dunque, preparai la mia sacca. Lasciammo quel paradiso per dirigerci ad una strada dove avevano lasciato una motoretta taxi, che ci dette un passaggio fino al piccolo porto. Aspettammo lì. Fissavo accigliato il mare, arrivò il battello e ci pigiammo tutti dentro. Il battello indugiò per qualche minuto, poi si girò e ci trasportò via dal Nobile Elefante, di nuovo verso il fetido porto di Siraja.

Facemmo ritorno al tempio in città senza sapere perché. Mi recai nel mio kuti, disfai la mia sacca e mi sedetti, in attesa che accadesse qualcosa. Sedetti e aspettai: niente accadde. Eccetto i rumori della città che si dilatavano nel crepuscolo che si mutava in notte. Rumori del traffico, rumori del mondo e io non potevo che ascoltarli mentre la notte diventava giorno. Era Natale e i thailandesi, siano essi cristiani o buddisti, amano la musica a tutto volume. Così si sentivano molti canti di Natale in inglese. Nel mio kuti rotolavano di continuo le note della musica natalizia, come “Bianco Natale” o “Rudolph la renna dal naso rosso”. Sedetti durante la notte e sedetti di mattina: ascoltando, aspettando e ascoltando ancora ed ancora i canti natalizi, ricordando la luna piena, il tempio in rovina, Ajahn Mun, il samadhi.

E in questo ascoltare, qualcosa in me afferrò il punto. Qualcosa in me smise di resistere e diventò tutt’uno con il modo in cui le cose sono. Il canto natalizio, alla fine, ascoltato più volte, acquista ragionevolezza, con il contenuto di una sua morale! E quando qualcosa in me si abbandonò e ascoltò i suoni del mondo, mi sembra che ci fosse un silenzio vibrante dietro tutto quello. E il silenzio dietro il suono del mondo sembrava abbracciare e ascoltare ogni cosa. Profondo o insignificante o futile, nessun suono può guastare il silenzio di una mente in ascolto; e in quell’accettazione c’era una compassione senza tempo.

Nessuno venne a cercarci, né a portarci da qualche parte. Non volevano che facessi un discorso, un canto, che benedicessi o dicessi qualcosa, o che andassi da qualche parte. Forse temevano che ci sentissimo soli. Forse pensavano che non avessimo abbastanza da mangiare; credo che fecero tutto per compassione. E alla fine provai gratitudine. Quale che sia la Legge o il Bodhisattva compassionevole che stabilisce questi eventi, ho molto di cui ringraziare. Sono sempre riusciti a cogliermi in fallo; e così mi hanno sempre distolto dai miei attaccamenti e dalle opinioni sulla pratica, per dispormi all’ascolto delle cose così come sono. I loro emissari sono ovunque. Non riposano mai.

E forse ho anche imparato qualcosa sul Nobile Elefante, il simbolo della pratica del Dhamma. Il Buddha stesso è paragonato all’elefante: è il simbolo dell’inarrestabile aspirazione al Nibbana che continua a confermarsi attraverso qualsiasi esperienza. E’ su tale aspirazione che un monaco tudong fonda la sua pratica, si dispone a essere tenace, flessibile e a sottoporsi alla prova di luoghi selvaggi e solitari. In effetti, per me è sempre stato un grande piacere andare in luoghi appartati, in cui essere solo e indipendente. Tuttavia, ho anche notato che quando interpreto troppo alla lettera l’aspirazione, un mahout (un conduttore di elefanti) si arrampica sulla schiena del Nobile Elefante. Questo mahout dice sempre cose del tipo: “Questa notte riuscirò a conseguire un jhana. Questo è il posto giusto per la pratica, se potessi stare per sempre qui, allora sì che mi trasformerei.” E chiede sempre alla pratica di realizzare una qualche fantasia; come un mahout che vuole che il suo elefante danzi e si impenni e faccia dei giochi. E’ sempre stato un peso questo mahout e se è lui alla guida dell’elefante, non mi sento un granché soddisfatto, neanche nelle circostanze più piacevoli. Così, il mio atteggiamento si invischia nel tentativo di mettere alla prova, o di ottenere, o di aggrapparmi a qualcosa, una lotta ego-centrica, che non conduce alla fine alla calma, al distacco o alla liberazione.

Certo, vivendo come bhikkhu, ci sono occasioni per condurre una vita austera e solitaria, ma essenzialmente questa forma di vita implica sempre una relazione con la società. E’ una vita di dipendenza, di interazione. E, se il Buddha ha istituito la vita monastica per arrivare alla liberazione, dobbiamo allora avere fiducia nelle occasioni di altruismo che essa offre. Talvolta, è un percorso accidentato, ma ho imparato ad apprezzare le prove della vita di Sangha e l’enigmatica compassione della Via Così Com’E’: esse creano sempre situazioni difficili dove devo lasciar andare.

Quando la mattina di Natale, lasciai il mio kuti, Ajahn Gavesako stava leggendo un giornale. “C’è scritto qui che vengono al mondo quattro bambini al secondo!” “Conviene abituarsi alla pratica di gruppo” commentai.

Talvolta, abbiamo bisogno di austerità, talvolta abbiamo bisogno di isolamento, e talvolta ci vuole “Bianco Natale” per risvegliarci da noi stessi.