Insegnamenti

Il contesto meditativo

del venerabile Ajahn Tiradhammo

 

© Ass. Santacittarama, 2016. Tutti i diritti sono riservati.
SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.
Traduzione di Dhammarato.

Adattato da un discorso fatto al Monastero Bodhinyanarama in Nuova Zelanda nel 2010.

Ajahn Tiradhammo è nato in Canada nel 1949. Ha preso upasampada nel 1973 a Wat Meung ed è rimasto fino al 1982 a Wat Pah Nanachat. Per due anni è stato monaco residente al Monastero di Chithurst e poi, fino al 1987, è stato alla guida del Vihāra Harnham. In seguito, ha aiutato a fondare il Monastero Dhammapāla, in Svizzera, ed è rimasto lì come abate fino al 2005. Poi è stato l’abate di Bodhinyanarama, Nuova Zelanda, per 7 anni.

“ Un autentico segno di stabilità nella pratica è la crescita di una coscienza personale e sociale.”


OGGIGIORNO pare che un numero sempre maggiore di persone s’interessi alla meditazione buddhista. Questo di per sé è un buon segno, ma è anche importante capire che la meditazione è soltanto un aspetto nel più vasto contesto della pratica spirituale buddhista. Nei paesi non buddhisti, molte persone affascinate dalla meditazione passano direttamente alla meditazione intensiva, senza rendersi conto degli effetti a lunga scadenza di un errato approccio alla pratica. Un approccio alla pratica spirituale ‘fuori contesto’ può portare come risultato ad una spiritualità instabile, incorporea o disgregata, in cui solo una piccola parte della persona viene (iper) ‘spiritualizzata’. Magari ci fissiamo troppo sugli esercizi di meditazione come fine in sé, oppure ci concentriamo eccessivamente sulle tecniche di meditazione. Dopo un po’ di tempo la pratica si ‘inaridisce’, perché non è rinvigorita da una comprensione più profonda, da un costante riaggiustamento delle aspirazioni, o da una vera integrazione con il nostro normale comportamento.

Si dovrebbe riconoscere che le pratiche spirituali, e in particolare gli esercizi di concentrazione, possono influire fortemente sulla psiche. Dobbiamo dunque essere vigili, per accorgerci quando sono necessari cambi di direzione lungo il cammino. Fortunatamente, con la crescita dell‘interesse per la meditazione, c’è anche un aumento di esperienza messa a disposizione da coloro i quali meditano da decenni.

Stabilità

Dovrebbe esser chiaro che la pratica spirituale non è un rimedio magico contro i disagi emotivi o i disturbi mentali. In alcuni casi può portare alla disgregazione psicologica, e può persino fungere da catalizzatore di psicosi latenti. Essere saldamente radicati nella pratica spirituale è forse la migliore prevenzione contro i gravi disturbi mentali, tuttavia non è una garanzia assoluta. Una vita mentale ed emotiva ragionevolmente stabile costituisce dunque un fondamento importante, specialmente per intraprendere alcuni esercizi spirituali intensivi. Se dovessero insorgere problematiche gravi può essere d’aiuto l’assistenza di un professionista della psiche. A volte anche solo abbassare un po’ l’intensità della pratica o cambiare l’oggetto di meditazione può portare a un processo più sano.

Purtroppo molti si figurano l’illuminazione come una qualche esperienza straordinariamente estatica di beatitudine rivelatrice di verità. Lo scopo della pratica spirituale, però, non è quello di fare esperienza di stati mentali speciali o insoliti, quanto piuttosto di vedere la realtà così com’è. Gli stati di coscienza mentale alterati che talora si verificano come risultato degli esercizi di meditazione possono anche diventare fonte di afflizione mentale e squilibrio emotivo, qualora si presentino in modo intenso, improvviso o inaspettato. Nella meditazione applichiamo la facoltà dell’osservazione consapevole. Quindi, qualsiasi cosa sorge, sia essa attraente o repellente, estatica o terrificante, noi la vediamo come un ‘fenomeno mentale’ (sabhāva dhamma) passeggero ed effimero.

Gli esercizi di presenza mentale, che si basano saldamente nell’immediatezza dell’esperienza diretta, possono essere affrontati in relativa sicurezza anche senza una supervisione. Gli esercizi di concentrazione, tuttavia, dovrebbero essere intrapresi seriamente solo nel contesto di una relazione con un insegnante. Trascorrendo lunghe ore su un oggetto di meditazione la mente può diventare molto concentrata e sottile, però quest’attenzione focalizzata può anche scivolare via dall’oggetto di meditazione, accentrandosi con preoccupazione su qualsiasi cosa predomini nella mente. Pensieri angoscianti, ricordi o stati d’animo possono apparire amplificati o intensificati, e si può facilmente cadere in loro potere.

Inoltre, giacché la sensazione di calma e pace apparente che può emergere con gli esercizi di concentrazione è un’esperienza condizionata dal tempo e dallo sforzo che mettiamo in quell’esercizio, quella stessa pace può facilmente svanire non appena l’esercizio è terminato. Questo potrebbe lasciarci insoddisfatti, delusi e senza speranza, sensazioni talvolta doppiamente aggravate perché la nostra mente sfrenata è ritornata, e abbiamo pure perso la calma profonda!

La fascinazione che proviamo per gli stati di coscienza alterati può diventare quindi una ricetta d’instabilità emotiva. Siamo sbattuti qua e là dai nostri stati d’animo – esultanti quando siamo ‘su di giri’ e depressi quando siamo giù. Riuscire ad osservare pazientemente lo spettacolo con un certo disinteresse e una certa equanimità – sono solo stati d’animo che cambiano – costituisce un segno di maturità nella pratica.

Il modo migliore per acquisire stabilità è coltivare uno stile di vita retto. Questo rientra formalmente nella categoria della ‘retta condotta’ (sīla). Sebbene di solito venga tradotto con la parola precetti, sīla letteralmente significa ‘abitudine’. Seguire i precetti o le ‘linee guida per un retto vivere’ all’inizio aiuta, ma trasformare le linee guida in abitudini sane richiede di conoscere profondamente se stessi o, come si dice in linguaggio comune, di ‘forgiare il carattere’. Dobbiamo essere in grado di riconoscere umilmente quando deviamo dal cammino, fare gli opportuni aggiustamenti e poi, con pazienza e saggezza, rimetterci in linea con i principi morali virtuosi. In questo processo non solo impariamo a conoscere la natura della nostra variabilità, ma arriviamo anche ad apprezzare i benefici della correttezza, dell’integrità e della libertà dal rimorso. Come ha sintetizzato Ajahn Chah: “Fa quello che dici, dì quello che fai, altrimenti diranno che sei un cattivo saggio.”

Ci si prepara per il lungo viaggio considerando la pratica spirituale come una abitudine virtuosa piuttosto che come una ‘soluzione rapida’, lavorando su basi stabili e ben fondate per tutta la durata del progetto. Se la vita spirituale non è costruita su solido fondamento allora non solo è instabile ma rischia anche di crollare, trasformandosi in disagio mentale. La vita è intrinsecamente spirituale, quindi integrarvi la pratica spirituale consente di nutrirci e risvegliarci in modo fecondo alla pienezza del nostro essere. La crescita di una coscienza personale e sociale (hiri-ottapa), un temperamento uniforme e un’accresciuta compassione per tutti gli esseri sono autentici segni di stabilità nella pratica.

Integrazione

È di somma importanza avere il corretto atteggiamento nei confronti della pratica. Molte persone nuove alla meditazione portano con sé ideali e principi elevati basati sull’io e, anche se spesso questo è il meglio che possiamo fare, l’atteggiamento più utile è considerare tutto ciò come un’opportunità per trasformare quei concetti idealistici in esperienza diretta. Piuttosto che valutare sempre l’esperienza in base a ‘come dovrebbe essere’, possiamo iniziare a relazionarci all’esperienza ‘così com’è’ o per ‘quello che è’. In questo modo i nostri ideali puri e splendenti possono essere temprati dal lavorio della realtà ordinaria. L’esperienza diretta di ‘quello che è’ ci porta inoltre vicini al presente, mentre gli ideali sono sempre nel futuro.

L’ideale più pernicioso è, ovviamente, l’ottenimento del risveglio. Il ‘giusto atteggiamento’ per la pratica spirituale è la rinuncia, la resa, l’abbandono e il lasciare andare. Qualsiasi atteggiamento di conquista o di guadagno è altro carburante per l’ego e, quindi, soggetto a fallimento. Invece di inseguire una qualche immagine di risveglio, ci risvegliamo alla sofferenza dell’aggrapparci all’io.

Un ideale meno nobile è praticare per ‘stare bene’. Benché perfettamente comprensibile, voler stare bene non è soltanto irrealistico ma anche pericoloso, giacché inevitabilmente comporta una gran quantità di repressione, evitamento o negazione; pertanto seguire questa strategia è in realtà soltanto una forma spiritualizzata d’indulgenza dei sensi che conduce a un vicolo cieco spirituale. L’ironia è che per sentirsi bene nel senso più elevato dobbiamo affrontare con consapevolezza la sofferenza, in modo da sradicarne le radici.

Un atteggiamento insidioso verso il quale è molto importante stare in guardia è quello di dissociazione. Concepire la pratica spirituale semplicemente come una forma di rapida evasione dalla sofferenza, piuttosto che come un mezzo per risvegliarsi alla verità della sofferenza, ha come conseguenza un atteggiamento dissociante. Così con la meditazione si può provare a ‘estraniarsi, a ‘cancellare’ i pensieri inquietanti, o in qualche modo a trascendere, trasporre, soppiantare i pensieri dolorosi dell’io con qualche realtà più elevata – la Verità Ultima, il Vero Sé, il Risveglio, ecc. Anche se tutto ciò sembra molto nobile, se non si è prudenti può facilmente diventare un mezzo per dissociarsi dal proprio sé, invece di risvegliarci ad esso; un modo per ottundere la disfunzione dolorosa nascondendola sotto concetti spirituali elevati.

Il vero scopo della pratica spirituale è quello di creare un ambiente interiore favorevole per mollare la presa della propria identità e rivelare la sua essenziale natura condizionata. Questo richiede la capacità di entrare prudentemente in connessione con essa, non di dissociarsene. Tante volte la pratica spirituale è vista come qualcosa di completamente opposto alla vita normale di tutti i giorni, e questo causa una sensazione di disgregazione del sé. Cerchiamo di essere ‘spirituali’ per affrontare i nostri problemi, ma nel farlo creiamo un ‘sé spirituale’ che è in conflitto con il vecchio sé.

‘Spirituale’ significa ‘integro’ e non definisce un qualche reame superiore e sublime sospeso al di là delle nuvole. Questa integrità deve quindi includere ogni aspetto del nostro essere, ogni parte del nostro io, e in particolare quelle parti che normalmente definiamo come meno ‘spirituali’. È l’oscurità che deve essere ‘illuminata’.

Un aspetto particolare di questo tentativo di ‘spiritualizzazione’ è un atteggiamento di ‘scollegamento’ dalle cose mondane. Questo può tradursi in una desensibilizzazione dalle impressione dei sensi, uno screditamento della normale comunicazione umana (e il ritiro in un ‘silenzio ostile’), la trascuratezza verso il proprio aspetto o la pulizia personale, un’enfasi esagerata della solitudine, e la creazione di un’immagine di sé ultraspirituale. Anche se questo può fare colpo su qualcuno, di solito denota una perdita di sintonia o uno scollegamento dalla realtà, piuttosto che una più elevata consapevolezza della vita.

Uno dei più grossi errori quando si inizia una pratica spirituale è cercare di liberarsi di alcuni aspetti di noi stessi. Una domanda comune è: “Come posso liberarmi della rabbia?”. Tutto quello di cui diventiamo consapevoli è parte di noi, e qualsiasi tentativo di liberarcene può portare a uno sdoppiamento o a una disgregazione di quella parte dall’insieme. La pratica spirituale consiste nell’imparare davvero come essere veramente integri o integralmente veri, imparando a integrare tutti gli aspetti del sé e del non-sé, cosa che può essere conseguita soltanto ad un livello di consapevolezza più ‘elevato’, più inclusivo.

Il paradosso è che quando cerchiamo di liberarci di qualcosa, in effetti, la consolidiamo, l’afferriamo e la potenziamo. L’atteggiamento di rifiuto conferma che c’è una ‘cosa’ che dobbiamo affrontare e, per poterla respingere, bisogna prima afferrarla. Così, in pratica, negare significa affermare, respingere diventa aggrapparsi – tutte attività fondamentalmente inefficaci che rafforzano l’ego. La via della pratica spirituale buddhista consiste nell’investigare consapevolmente ed aprirsi a queste influenze inquietanti per scoprire ciò che realmente sono – processi effimeri, inconsistenti, condizionati. In effetti cominciamo a capire veramente gli insegnamenti del Buddha solo quando ci spostiamo dalla consapevolezza orientata sull’oggetto alla consapevolezza orientata sul processo.

Un altro elemento al quale bisogna fare attenzione è l’eccessiva fiducia nei nostri punti di forza. Ovviamente ne ricaviamo un certo giovamento, come anche dai nostri successi, e abbiamo il desiderio innato di ignorare ed evitare le nostre debolezze. Col passare del tempo, però, un’eccessiva dipendenza dai propri punti di forza porta ad uno squilibrio delle qualità spirituali. Ho visto persone con un grande talento in un settore regredire perché deboli in altri. Ci sono persone piene di energia ma che mancano di tranquillità; alcuni magari hanno il dono della concentrazione, ma non sono abili nell’investigare i fenomeni; quindi è importante riconoscere il valore di un equilibrio nelle qualità spirituali e impegnarci a bilanciare i nostri talenti e le nostre debolezze.

Spiritualità incarnata

Forse, come conseguenza dei precedenti condizionamenti, molti di noi pensano che il corpo e le sue passioni siano l’opposto della spiritualità e dovrebbero essere soppressi, ignorati o evitati, dando origine ad una ‘spiritualità senza corpo’. Questa tendenza è aggravata dal fatto che molti di noi hanno una tale avversione per il dolore fisico e sono così ossessionati dall’attività mentale da provare un’inclinazione latente verso l’incorporeità. Questo è supportato dal fatto che crediamo che ‘è tutto nella mente’, quindi ci possiamo dimenticare del corpo.

Tuttavia, che la vita umana sia dipendente da un corpo terreno è un dato di fatto, e bisogna conviverci con saggezza piuttosto che pensare di poterlo semplicemente ignorare. In realtà il corpo è una delle porte che conducono al Risveglio; è attraverso il corpo che si può avere una profonda realizzazione dell’impermanenza, dell’insoddisfazione e del’impersonalità . Il Buddha lo riconobbe quando indicò nella consapevolezza del corpo il primo degli esercizi sullo sviluppo della presenza mentale. La pratica spirituale che non è ben radicata nel corpo non è ancorata a questo mondo, diventa tutta mentale, e rischia di scivolare verso l’immaginazione, la mistificazione e la fantasticheria, senza strumenti per una verifica integrata con la realtà.

Alcuni di questi sbandamenti spirituali possono verificarsi anche dopo anni di pratica, poiché la mancanza di stabilità, d’integrazione e di presenza nel corpo iniziano ad avere effetto dopo anni di trascuratezza, elusione o negazione. Alcuni possono avere anni di pratica meditativa, profonde esperienze meditative e persino una qualche specie di ‘illuminazione’, e tuttavia sono seriamente ciechi nei confronti dell’oscurità che ancora pervade ampie zone della loro psiche. A volte, quindi, fare notare queste tendenze può essere d’aiuto.

Delega spirituale

Nella fase iniziale della pratica uno dei sintomi più comuni è la ‘Delega Spirituale’. Un modo in cui si presenta è quando, se la nostra pratica non procede ‘secondo i piani’, allora la colpa è ovviamente del maestro, dell’insegnamento, o della tradizione, piuttosto che di qualcosa che ha a che fare con ‘me’; così molliamo tutto e cerchiamo altrove, dappertutto tranne che in noi stessi, ‘Sbagliare, io? Noooo’. Così, possiamo attribuire la colpa per la nostra mancanza di successo all’assenza di ‘influenze favorevoli’. E anche se ci sarebbe qualcosa da dire sul ‘giro di acquisti’ per trovare un qualche modello che si adatti al nostro temperamento, di fatto il lavoro inizia e finisce con noi. È meglio prendersi la responsabilità della nostra pratica piuttosto che attribuire colpe a forze esterne, o rinunciare al nostro potere in favore di maestri.

Un esempio più sottile è quando si pongono tutte le proprie speranze in qualche pratica o tecnica particolare. Le tecniche possono essere d’aiuto in alcune occasioni e per certi scopi ma sono sempre fenomeni condizionati, qualcosa che ‘faccio io’ e che finirà per essere al servizio dell’‘io che fa’. Una volta che questo accade, la tecnica diventa un rituale meccanico, egocentrico che ci convince della nostra spiritualità. Diventando esperti in qualche esercizio spirituale come fine in sé, non si raggiunge il fine della pratica spirituale.

Forse la manifestazione più pericolosa e dannosa di delega spirituale è la ‘Commedia del Carisma’. Quando qualcuno ha il dono dell’insegnamento, oppure è bravo nel tenere ritiri o nel manifestare grande compassione, si ritiene ingenuamente che debba trattarsi di un essere pienamente realizzato, mentre di fatto sta soltanto manifestando un talento particolare, un’abilità affinata nel tempo o una tecnica speciale. A causa della nostra tendenza a rifuggire dalle responsabilità, siamo portati a lasciare che gli altri se le prendano al posto nostro, e cadiamo facilmente nel tranello del carisma. È soltanto quando viviamo con loro ventiquattr’ore su ventiquattro che la ‘commedia’ viene finalmente smascherata. Questo di solito comporta molta disillusione, delusione e, forse anche una grande angoscia. Così attribuiamo le nostre frustrazioni al maestro piuttosto che riconoscere umilmente che, molto più probabilmente, eravamo noi che, attraverso false proiezioni, stavamo dando via il nostro potere spirituale. Un primo segno di questa tendenza è l’eccessivo entusiasmo o devozione nei confronti di un maestro, che può però rapidamente deteriorarsi, trasformandosi in rifiuto e critica. Se siamo invece capaci di apprezzare semplicemente le sue capacità particolari, o quello che ci può insegnare, possiamo ancora provare un senso di gratitudine, anche quando sulla facciata compaiono delle crepe.

Un altro fenomeno comune nei circoli buddhisti è quello che io definisco ‘Mescolare le Carte dell’Anattā’. Si può vedere o in quelli che sono (troppo) eruditi negli insegnamenti buddhisti o in quelli che hanno una pratica buona, ma non completa. Conoscono il principio di Anattā come non-sé ma non lo hanno pienamente integrato, pertanto mettono spesso in mostra alcuni tratti molto forti e spiccati della propria personalità, quali opinioni e punti di vista rigidi, ‘mescolandoli’ però con concetti alti: ‘Tutto è vacuo ’, ‘Non c’è alcun sé’, e così via. Gli altri vedono chiaramente l’ostentazione egoica, ma l’autore ne rimane inconsapevole! E tutto in nome di profondi insegnamenti spirituali… ‘Sì, c’è il non-sé’, ma allora che dire di quell’io così spiccato che sta esprimendo il concetto? Questa sorta di mescolanza tra verità ultime e verità relative quando ci fa comodo, che è la stessa cosa di cui ha bisogno l’ego, non solo produce una gran confusione e disonestà spirituale ma può far sì che ci s’illuda di un falso senso di realizzazione mentre l’io che si attacca viene ancora abbondantemente nutrito.

Bypass Spirituale

Un fenomeno molto significativo, che sta diventando sempre più comune, ed è stato esposto da John Welwood e da altri, è il fenomeno del ‘Bypass Spirituale’. Questo succede quando dei problemi psicologici irrisolti vengono ‘bypassati’ attraverso l’uso di pratiche spirituali. Questi ‘problemi dell’io’ che non sono veramente risolti finiscono inevitabilmente per venire a galla, spesso dopo anni di pratica spirituale avanzata, e a volte sono persino potenziati da questa pratica.

Il Buddha ci dice che lo scopo corretto della pratica spirituale è quello di comprendere le Quattro Nobili Verità della sofferenza, delle sua cause, della sua cessazione e del sentiero che conduce alla cessazione. Questo consiglio ci indica di andare a guardare proprio le cose che ci affliggono piuttosto che farci distrarre da divagazioni spirituali. Molta della nostra sofferenza ha radici nei nostri primi anni di sviluppo e quindi pratiche come quella di coltivare la gratitudine verso i nostri genitori e la cordialità verso familiari e amici possono aiutare a tamponare alcune delle forme più estreme di disturbi collegati all’infanzia. La cosa più importante, tuttavia, è avere un atteggiamento di apertura verso la nostra sofferenza, piuttosto che mettere un bypass spirituale.

Spesso c’è qualche tendenza predominante che, per i suoi effetti dirompenti, ci spinge verso la pratica spirituale. Mentre ci lavoriamo sopra, potremmo anche non accorgerci che in realtà nella nostra psiche si nascondono ancora diverse ‘tendenze latenti’. Potremmo così sviluppare ad esempio gentilezza (mettā), per aiutarci a lavorare con la rabbia, ma poi questo finisce per diventare bramosia e ci ritroviamo a lottare con l’attrazione. C’è chi, per contrastare il forte desiderio, ha cercato di meditare sulla mancanza di attrattiva del corpo (asubha), generando di conseguenza avversione verso il corpo piuttosto che distacco.

Un altro punto molto importante, che ho impiegato anni a riconoscere, è imparare a lavorare con le nostre tendenze piuttosto che contro di esse. Sebbene potrebbe sembrare a prima vista riaffermarle, in realtà vuol dire riconoscerne chiaramente l’esistenza, per poi trovare i mezzi adeguati per controllarne l’energia con saggezza. Ciò che noi interpretiamo come un ostacolo non è altro che ‘forza vitale’ diventata tossica. Se attingiamo alla sua fonte possiamo incanalare o trasformare questa energia per renderla più virtuosa.

Disfunzione Spiritualizzata

Un fenomeno al quale si riferiva Ajahn Chah è ‘la follia del Dhamma’ e accade quando qualcuno all’inizio ha delle intuizioni di Dhamma e poi, nell’entusiasmo, inizia una crociata d’insegnamenti per diffondere il messaggio. Se le intuizioni spirituali non sono bene integrate possono essere spesso soppiantate dall’abituale tendenza all’autoaffermazione. Questo zelo messianico è dunque guidato da un’attività egoica e dà l’impressione di essere troppo esuberante, forzato ed eccessivo. Se si è afflitti da questa disfunzione, il consiglio di Ajahn Chah è: ‘Non insegnare’.

Un fenomeno più conosciuto è quello dei maestri che affascinano gli altri sfoggiando le proprie doti oratorie. Giacché vengono osannati per questa abilità, possono scambiare questa proiezione per la conferma di qualche forma di realizzazione spirituale e, di conseguenza, montarsi la testa. Questo si traduce poi in una relazione di codipendenza, per cui il maestro incanta i discepoli e i discepoli esaltano il maestro. Dove alcuni (i tipi dipendenti) vedono una persona risvegliata, altri vedono un enorme ego gonfiato.

Alcuni sintomi di questa sorta di autoesaltazione sono parlare per assoluti o con un eccesso di semplificazione, intrattenere le folle, decantare eccessivamente le proprie virtù e avere un bisogno eccessivo di essere riconosciuti. Portato al massimo questo si traduce in atteggiamenti presuntuosamente difensivi, irrazionalità logiche, creazione di allarmismi e paranoia.

Il Sentiero Completo

Il Buddha ha indicato il cammino della pratica spirituale nell’Ottuplice Sentiero. Questo viene suddiviso a volte in tre gruppi: retta comprensione (retto scopo e retta motivazione), retta condotta (coltivando il proprio comportamento nella parola, nell’azione e nei mezzi di sostentamento) e meditazione (energia, consapevolezza, concentrazione). Il giusto scopo della pratica spirituale è comprendere chiaramente e profondamente la sofferenza per intendere e lasciare andare le cause che vi stanno alla base. Il giusto atteggiamento è quello della rinuncia, di non ostilità e di benevolenza. La pratica spirituale buddhista è tale solo quando tutte queste parti sono in armonia tra loro. Se non sono complete o ben integrate fra loro può risultarne una vita spirituale disgregata e anche potenziali problemi psicologici. Dobbiamo pertanto essere molto vigili e flessibili nei confronti del nostro mutevole ambiente spirituale.