Insegnamenti

Gratitudine per Luang Por Chah

del venerabile Ajahn Sumedho

© Ass. Santacittarama, 2006. Tutti i diritti sono riservati.
SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.
Traduzione di Sara Bellettato“In onore del mio papà thailandese, Wijit Kumpiyaphol, che è morto il 23 maggio 2549”


Estratto da un discorso tenuto ad Amaravati il 17 Giugno 2003, da Luang Por Sumedho

(in inglese: www.fsnewsletter.amaravati.org)

QUESTA SERA ABBIAMO LA POSSIBILITÀ DI RIFLETTERE sul grande maestro Ajahn Chah. Oggi è il suo compleanno, e ogni anno proprio in questo periodo si tiene un incontro del Sangha nel suo monastero Wat Pah Pong in Thailandia, dove si riuniscono discepoli e laici. Solitamente, appendono le loro glot (zanzariere supportate da un grande ombrello) agli alberi, accampandosi all’aperto per la settimana. La sera, i monaci danno insegnamenti di Dhamma.

Il grande maestro Ajahn Mun, che morì molti anni prima che io arrivassi in Thailandia, nel 1966, fu uno dei grandi maestri di meditazione dei tempi moderni, e molti dei suoi discepoli stavano, a quel tempo, diventando sempre più conosciuti. Ajahn Chah disse che il suo incontro con Ajahn Mun fu molto breve.

Ajahn Chah iniziò la sua vita di monaco a vent’anni, nel monastero di un villaggio, dove studiò il pariyatti Dhamma, che espone gli aspetti più accademici della pratica. Dopo circa quattro anni, decise di sviluppare la sua pratica meditativa, e viaggiò attraverso la Thailandia, incontrando diversi maestri. Passò un po’ di tempo con un maestro a Lopburi, e poi con un altro maestro a Ubon, ma per la maggior parte del tempo viaggiò da solo, approfondendo gradualmente la visione interiore attraverso la sua pratica meditativa. Fu durante questo periodo che trascorse due notti al monastero di Ajahn Mun, dove il grande maestro confermò le sue intuizioni.

A Luang Por Chah piaceva lo stile della pratica della scuola Dhammayut, una delle due scuole in Thailandia in cui il Vinaya, la disciplina monastica, è parte integrante della pratica. La scuola Dhammayut offriva uno stile di vita completo, ed era abbastanza inusuale in Thailandia, dove la meditazione era per lo più insegnata come una tecnica, e poteva quindi essere separata dalla vita monastica. Ad esempio, nel sistema Mahasi Sayadaw non era veramente importante se si era laici o monaci. La tecnica meditativa funziona egualmente bene per un laico. Ma l’approccio di Luang Por Chah era di consapevolezza attraverso la comune vita monastica. Era un modo per usare la forma della vita monastica per sviluppare consapevolezza e riflessività.

Nel suo monastero, Luang Por Chah non incoraggiava molto lo studio. Quando finalmente lo incontrai, vide che studiare era l’ultima cosa di cui avessi bisogno. Avevo frequentato l’università negli Stati Uniti, ed ero un lettore ossessivo; ero drogato di letteratura. Ovunque andassi, dovevo avere con me un libro, o mi sarei sentito nervoso e a disagio. Dovevo sempre avere un libro per rilassarmi. Quando incontrai Ajahn Chah, non gli dissi nulla di tutto questo, ma egli sembrò intuirlo, perché disse “Niente libri!”.

In Thailandia mi chiedono sempre “Come ha potuto insegnarti?”, perché quando ci incontrammo, io non parlavo thai e lui non parlava inglese. Ajahn Chah rispondeva a questa domanda sempre con un tono riflessivo, e diceva “Sumedho ha imparato attraverso il linguaggio del Dhamma”. E allora la gente chiedeva: “Bene, ma che lingua è quella?” Ovviamente non capivano…

La lingua da cui imparai non era inglese o thailandese, ma la acquisii attraverso il vivere, attraverso il risveglio e l’imparare dall’esperienza di essere cosciente, di avere un corpo umano, sentimenti, pensieri, desiderio, odio e delusione. Queste sono cose tutte assolutamente umane, non sono nulla di culturale. Questo è ciò che noi tutti condividiamo, sono problemi e condizioni umane comuni.

Mi ricordo di aver sentito una immediata sicurezza con Ajahn Chah, un senso di fiducia. Lo incontrai attraverso una serie di coincidenze. Ad alcune persone piace pensare che il mio destino era di stare con Ajahn Chah, che era scritto nelle stelle; ma forse fu solo fortuna, o una coincidenza. E’ interessante come, nella vita, si possano avere esperienze che non possano essere ricondotte a ciò che ci si aspetta. Incontrare un maestro come Ajahn Chah non era ciò che mi aspettavo. Quando lo incontrai, ero stato da tutti gli altri maestri. Non che non mi fossero piaciuti, o che fossi critico nei loro confronti, o che pensassi che non erano abbastanza buoni per me. Ma la molla non era scattata, non era sorta nessuna magia. Semplicemente non sentivo di voler stare con loro.

E così ero andato per la mia strada, il primo anno come samanera, e solo per caso ordinato a Nongkai, su nel Nord Est della Thailandia, e avevo trascorso il mio primo anno insegnando a me stesso. Poi, l’anno seguente incontrai Phra Summai, il monaco devaduta (“Messaggero Divino”) di cui avete tutti sentito parlare.

Mentre vivevo da solo, avevo avuto l’intuizione che sarei potuto arrivare fino ad un certo punto, ma mai andare oltre, mai vedere chiaramente, a meno che non avessi appreso un po’ di umiltà. Mi ricordo di aver espresso il desiderio di incontrare un maestro (perché a quel punto non avevo ancora cominciato il training da bhikkhu, avevo previsto di cominciare nel 1967). E poi, quasi immediatamente, apparse Phra Summai, il discepolo di Ajahn Chah. Coincidenza? Non lo so. Comunque, qualunque cosa vogliate pensare, questa è la verità. Aveva più o meno la mia età, 32 o 33 anni. Parlava inglese. Era stato nella Marina Thailandese durante la guerra di Corea. Ioero stato nella Marina Americana durante la guerra di Corea. Quando ci incontrammo, non parlavo inglese da mesi e mesi. Se non avete parlato la vostra lingua madre per mesi e mesi, alla prima occasione, è come se cedesse una diga. No vi potete fermare. Inizialmente, pensai di averlo spaventato. Era come avere la diarrea; non riuscivo a fermarmi in nessun modo. Ciononostante, rimase con me in questo monastero per un po’ e poi alla fine mi convinse che, dopo che fossi stato ordinato, sarei dovuto andare ad incontrare Ajahn Chah. Il mio precettore acconsentì. Mi impartì l’upasampada e mi spedì a stare con Ajahn Chah.

A quel tempo, Ajahn Chah non era molto conosciuto a Bangkok nemmeno dai thailandesi, figurarsi dalla comunità di stranieri, ma era sempre più conosciuto nel Nord Est della Thailandia, la zona conosciuta come “Isaan”. E’ strano, perché l’Isaan era l’ultimo posto in cui avrei voluto vivere. E’ la zona più povera della Thailandia. Avevo sempre immaginato di vivere sulla costa, dove ora sono sorti tutti gli alberghi. Avevo questa immagine romantica di essere un monaco, seduto sotto una palma da cocco su una spiaggia bianca. Invece, finii per passare dieci anni nell’Isaan.

Ciò che mi colpì di Luang Por Chah era la sua enfasi nell’insegnare le Quattro Nobili verità. Non mi ero mai imbattuto in questo insegnamento con gli altri maestri, o forse semplicemente non lo avevo colto- c’erano sempre dei problemi linguistici, perché io non parlavo il thailandese. Molte delle tecniche di meditazione che avevo imparato erano basate sull’insegnamento dell’Abhidhamma, che personalmente trovavo molto noioso. L’ultima cosa che volevo imparare era tutto quell’ Abhidhamma incredibilmente complicato. Mi ricordo di essere andato da un maestro di Abhidhamma a Bangkok, che teneva delle lezioni in inglese; non mi ero mai annoiato tanto in vita mia. Pensai: “Questo non è quello che voglio da questa religione”.

In quel primo anno da solo, mentre imparavo da un piccolo libro, avevo sviluppato molte intuizioni sulle Quattro Nobili Verità. Lo trovavo un insegnamento potente, molto semplice nella forma; è come “uno-due-tre-quattro”. Pensai “è abbastanza facile”. Puntava alla sofferenza (dukkha), e io ne avevo in abbondanza. Non c’era carenza di sofferenza, non dovevo andare a cercarla. Mi accorsi che questo era l’insegnamento che avevo cercato. E quando incontrai Luang Por Chah scoprii che tutta la sua attenzione era nello sviluppare comprensione di queste verità attraverso la vita quotidiana nel monastero.

Sento di aver ricevuto il meglio dalla vita, non solo in termini dell’insegnamento del Buddha, ma anche in termini della sua manifestazione nella forma e nella vita di Ajahn Chah. Non che io sia un devoto di Ajahn Chah o un cultore della sua figura. Verso Ajahn chah provo gratitudine (kataññu katavedhi) per la sua compassione.

Lui non voleva che noi lo rendessimo un oggetto di culto. Non parlò mai di sé stesso dicendo di essere un sotapanna o un arahant. Ogni volta che qualcuno voleva scoprire a che punto fosse – e non so dire quante persone gli abbiano chiesto se era un arahant – lui rispondeva in un modo che ti spingeva ad osservare ciò che stavi chiedendo. Chi è che sta chiedendo? Perché lo vuoi sapere? In questo modo, puntava nella giusta direzione, rifiutandosi di rispondere si o no.

Ciò che ho appreso da quei dieci anni è un buon fondamento nella pratica e nella Vinaya. All’epoca in cui venni in Inghilterra avevo trascorso solamente dieci anni come bhikkhu. A volte penso di essere stato pazzo a venire qui dopo aver passato solo dieci anni nella veste. Oggi, non penseremmoneppure di mettere un monaco con soli dieci anni di esperienza in una tale posizione. Ma la mia fiducia nella pratica si era consolidata in quei dieci anni, e Luang Por Chah se ne era ovviamente accorto, perché fu lui stesso ad incoraggiarmi a venire qui. Una volta che si ha fiducia nella consapevolezza, qualunque cosa accada, si può riflettere e imparare da ogni esperienza.

E ora sono in Inghilterra da più di 26 anni, e sono stati anni in cui ho imparato moltissimo da tutte le molte cose che mi sono accadute; sono stato lodato e biasimato, le cose sono andate bene e poi andate in pezzi, alcune persone vengono, altre se ne vanno, vengono ordinate e lasciano la veste. Ma la consapevolezza è sempre la via.

Persino un maestro non è un rifugio, perché anche Ajahn Chah alla fine si ammalò gravemente. Restò invalido per dieci anni. Non poté più parlare e fu accudito fino alla morte, nel 1992. Quindi il rifugio non è in un maestro o nelle scritture o in un monastero o in una tradizione religiosa o nella Vinaya, in nessuna di queste cose, ma nella consapevolezza.

La consapevolezza è così ordinaria, così naturale per noi, che la ignoriamo, la sottovalutiamo tutto il tempo. Quindi, è qui che abbiamo bisogno continuamente di ricordare, di risvegliarci, di riflettere, cosicché quando accade qualche tragedia o altre cose spiacevoli possiamo usare quelle stesse cose come parte del nostro percorso, come parte del nostro sentiero di coltivare la Via. Questa è la quarta Nobile Verità.

Avete solo bisogno della fiducia per riflettere, per essere consapevoli, non di come le cose dovrebbero essere ma di cosa state veramente provando, senza rafforzarlo, senza aggiungervi altro. Quindi, quando mi sento triste, penso “sono triste” e l’ho già reso più grande di quello che è. Invece, sono semplicemente consapevole della tristezza – che è pre-verbale. In questo modo, la consapevolezza è presente senza il sorgere di alcun pensiero. La tendenza abituale è di pensare: “Sono triste, e non voglio essere triste, voglio essere felice”. E allora diventa davvero un grosso problema per noi. La consapevolezza non è una qualità speciale che io ho più di te. E’ una abilità naturale che tutti condividiamo. La pratica sta nell’usare questa abilità naturale e nel desiderio di imparare da essa.