Insegnamenti

Dall’Oscurità alla Luce

del venerabile Ajahn Liem Thitadhammo

© Ass. Santacittarama, 2004. Tutti i diritti sono riservati.
SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.
Traduzione di Giuliana Martini.


Prima parte di un discorso di Dhamma di Luang Por Liem Thitadhammo (abate di Wat Nong Pah Pong, il monastero principale di Ajahn Chah, in Thailandia) offerto ai monaci, novizi e monache in occasione della cerimonia di richiesta di perdono celebrata nel settembre 1996. 

POICHE’ SIETE CONVENUTI PER LA RICHIESTA DI PERDONO, non intendo parlare di cose che riguardano il passato, perché le abbiamo già lasciate alle spalle. In effetti non sono molti i conti in sospeso tra di noi che devono essere regolati in una tale cerimonia, tuttavia questa è utile al livello della pratica personale, influenzando le attitudini che nel corso degli anni si conservano e si portano dietro, nel lavoro sulla propria mente. Un rituale come questo è di sostegno nel rinvigorire le virtù di un contemplativo; se viene coltivato stabilmente il rispetto per queste come base del proprio modo di praticare gli insegnamenti del Buddha, allora si consolida una condotta non disattenta o trascurata. Sebbene le circostanze della pratica siano soggette al cambiamento, verrà a costruirsi un senso di costante calma ed agio interiore; con lo sviluppo dell’interesse e di una sincera disponibilità, la quiete si manifesterà spontaneamente. Lo sforzo di migliorare la condotta individuale procede di pari passo con la maturazione di una persona, tanto che viriyena dukkhamacenti, ossia la possibilità di sconfiggere l’insoddisfazione e la sofferenza attraverso lo sforzo, è uno degli insegnamenti chiave con cui il Buddha incoraggia nella pratica del Dhamma, con parole valide per ciascuno di noi, non soltanto per un’elite ristretta.

Nella pratica dobbiamo costantemente tenere presente che tutti noi incominciamo necessariamente come bambini, e che non è possibile essere adulti dal primo momento. All’inizio non si è ancora purificati, si cade in stati di sudiciume, si vive impantanati nel fango e nella palude, come un fiore di loto non ancora sbocciato, che ancora dipende dalla sporcizia per il nutrimento. Noi siamo come quel fiore: veniamo al mondo non ancora pienamente maturi, pronti e completi, ma appesantiti dalla necessità di dover combattere contro ogni sorta di ostacoli. Ci sono felicità e sofferenza, bene e male, giustizia ed ingiustizia. Sperimentarlo è una cosa normale per una persona non risvegliata, che abbia ancora polvere nei propri occhi. Chi ha polvere negli occhi non può conoscere la luminosità e la chiarezza non gravate da insoddisfazione ed inadeguatezza. Gli inconvenienti della prima fase, il fatto che all’inizio ci sia sempre da soffrire, sono semplicemente normali. E’ come quando si sta al buio. Vivere nell’oscurità non è così piacevole come si potrebbe aspettare. C’è sempre un certo senso di fastidio e disagio, uno stadio in cui non si è ancora liberi dalla dipendenza, non si è completamente compiuti, ma si continua ad avere esperienza di porzioni di felicità e di sofferenza, un po’ di soddisfazione alternata ad un po’ d’insoddisfazione. E tutto questo perché il mondo delle condizioni non è stato ancora trasceso e non siamo ancora in un luogo sicuro, ma in un continuo girovagare attraverso il samsara, il ciclo di nascita e morte. A volte le situazioni che si determinano risultano positive, altre volte negative, secondo ciò che è puramente la condizione naturale delle cose, fino a quando non sarà raggiunto il punto d’arrivo della nostra pratica.

Ognuno ha bontà, perfezione e purezza in sé stesso, e sicuramente in ciascuno di noi ci sono alcuni tratti della personalità che si possono far emergere nella consapevolezza in un modo efficace, con il compito di renderli completi e perfettamente compiuti. Come le fiamme di un fuoco: dove ora queste divampano, prima non c’era fuoco alcuno, ma una volta appiccate esse appaiono, da ciò che era buio e il fuoco incomincia ad ardere esattamente lì. Per noi come per le fiamme; ciascuno proviene da zone oscure, dall’essere un bambino, una persona priva di forza, non ancora pronta, ed è naturale che ciò produca disorientamento, perché sarebbe semplicemente impossibile con uno stato di questo tipo avere fiducia piena e chiarezza.

La gente si inebria dell’illusione che il corpo sia esente dalla minaccia di malattia, afflizioni, dolori e febbri. Le persone credono di non dover morire, degenerare e decomporrei; non contemplano questa possibilità, anche se è quello che accade. Sebbene il nostro corpo fisico in realtà è un fenomeno condizionato, sempre soggetto alla necessità di assecondare la natura dei costituenti materiali che lo compongono, ci piace considerarlo come permanentemente potente, solido, forte, non afflitto dalla malattia e dal dolore. Vogliamo guardare al corpo a partire dalla nostra ottica abituale, come se esso dovesse essere immutabile in ogni situazione, mentre il Buddha ha mostrato che: se c’è luce ci sarà buio, se c’è caldo, freddo. Le cose devono procedere necessariamente così, per cui ogni stato di vigore, agilità o agio può, assecondando la propria natura, degenerare in uno stato di declino e rovina nell’arco di un giorno, o in un singolo istante. Il corpo non va considerato come qualcosa d’importante a cui continuare ad attaccarsi o a cui far aderire concezioni di un sé personale.

Il Buddha ha chiamato sakkayaditthi l’illusione generata intorno al corpo, la visione che esso sia un sé, che noi e gli altri siamo i nostri corpi, e che il corpo è un nostro possesso; il Buddha ci ricorda di richiamare continuamente alla mente come nulla sia nostro, o sia il nostro sé,che ci appartiene realmente. Per mezzo di questa riflessione si incomincia a mollare la presa dell’attaccamento alle cose (upadana), che è la radice di ogni senso di importanza personale.

Quanto più diamo importanza a noi stessi, tanto più diveniamo inclini ad un movimento sconsiderato proteso verso sensazioni non salutari, verso l’insoddisfazione, fino al punto che finiamo lanciati all’inseguimento di un sentiero che conduce in regni di oscurità, nella fluttuazione attraverso i cicli di nascita e divenire, che il Buddha ha mostrato costituire l’intera sofferenza. Ecco che vengono in essere stati di rabbia, avidità o confusione; sorgono desiderio, avversione ed ignoranza; e tutto ciò racchiude insoddisfazione ed infelicità.

L’analisi e l’osservazione della nostra personalità ci consente di comprendere che quest’ultima consiste di fenomeni mentali, che non sono nostri, essendo non sé. La personalità non è un “noi” o un “loro”, ma si compone semplicemente di un determinato numero di stati selezionato dall’insieme di tutti i potenziali stati della mente (dhammaramanna). Si guarda alle cose alla luce del dhammaramanna, che sorge da sé, naturalmente, e da sé cessa, piuttosto che secondo la prospettiva del “questo sono io”, “questo è mio”. Esattamente come l’oscurità si manifesta spontaneamente, così, secondo natura passa, e come la luce nasce secondo una modalità che le è intrinsecamente propria, così cessa. Queste condizioni sorgono e svaniscono.

Gli stati mentali appaiono e si dileguano, siano essi stati di felicità o sofferenza, piacevoli o spiacevoli. Chiamiamo tali stati lokadhamma “dhamma mondani”, attributi che dominano il cuore e la mente degli esseri che vivono nel mondo. Se i lokadhamma sono contemplati puramente come elementi di Dhamma, non si costruisce la presupposizione che ogniqualvolta “noi” percepiamo felicità, siamo “noi” ad essere felici, né che tutte le volte che “noi” percepiamo sofferenza, siamo “noi” ad essere sofferenti. Non esiste in realtà nulla di simile ad un concetto di “nostra” bontà o di “nostra” cattiveria personale. Noi percepiamo tali attributi, ma si tratta soltanto di aspetti del Dhamma, essendo ciascuno di essi niente più che uno tra tutti i possibili stati del Dhamma. In questo non c’è nulla di speciale.

Le sensazioni sono semplicemente sensazioni, la felicità è soltanto felicità, la sofferenza puramente sofferenza, ecco tutto: essendo sorta, ogni cosa cessa. Non possediamo la felicità e il dolore, e non ci interessano quelli che non sono nulla più che semplici attributi degli oggetti mentali che si affacciano alla coscienza. I lokadhamma appaiono e scompaiono in funzione di una logica che è loro inerente. In fin dei conti, se non ci mostriamo interessati ai dhamma mondani, non offriamo loro supporto e non vi attribuiamo importanza, così questi perdono la loro esistenza.

I sankhara, le fantasie che fanno girare la nostra mente, si possono contemplare in modo simile. I sankhara sono stati di proliferazione che vengono a disturbarci in continuazione, per il fatto che proprio noi persistiamo nel nutrirli, dando loro importanza ed essi, ovviamente, persistono nel provocarci e a metterci alla prova. Allora si è soggetti ripetutamente a sbalzi emotivi e stati confusionali. Per noi che non siamo rifugio a noi stessi, neppure per un solo istante, non c’è libertà, ed è così solo perché si dà spessore a questi stati della mente.

Il Buddha ci insegna ad essere consapevoli del fatto che i sankhara sono condizioni non permanenti e non durature, riguardo cui non bisognerebbe costruire la percezione di una durata eterna. La loro caratteristica è che essendo sorti, cessano. Anche per quanto concerne la forma materiale, bisogna guardare ai fenomeni condizionati semplicemente come stati cangianti degli elementi, in definitiva null’altro che natura.

Nella nostra pratica aspiriamo ad una comprensione del Dhamma pienamente realizzata. Nel presente ciò di cui c’è bisogno è l’educarsi a sentirsi pienamente a proprio agio nella percezione di quello che viene percepito, sviluppare cioè sati, consapevolezza e nitida presenza mentale. Nel comportamento abituale, il punto di partenza sono le proprie emozioni, da cui ci si lascia dirigere, proprio come la gente nel mondo che crede che quello che davvero conta siano i propri umori altalenanti. Emozioni ed umori transitori sono però illusioni ingannevoli ed infide, che a volte ci indirizzano su una strada buona, altre su una cattiva. Il rincorrere i propri umori si può facilmente rivelare svantaggioso: andrebbero presi come guida gli stati sublimi della mente piuttosto che gli umori alterni e le emozioni. Perché non lasciarci guidare da colui che è stato chiamato “Risvegliato” e “Beato”? Lasciamo che il “Buddha” cammini davanti a noi, che sia l’essenza che ci accompagna, la nostra guida. I vari stati d’animo ci saranno sempre, in qualunque attività si sia impegnati, ma la nostra pratica è di lasciare che ad indicarci la direzione sia “colui che conosce”, la qualità del risveglio e della comprensione. Così non vi sarà più pericolo: con questi stati mentali gli effetti collaterali sono assenti, perché noi stiamo in guardia.

Lasciare che i vari stati d’animo e le emozioni che si presentano siano semplicemente ciò che sono significa educare realmente sé stessi. Insegnare proprio a questo “sé stesso” come stare realmente seduti quando si siede, come stare realmente lì in piedi quando si è in piedi, come camminare e stare realmente lì a camminare…. fino a quando in qualunque postura non vi sia la capacità di essere pienamente svegli, pienamente lì in virtù della propria quiete; che è diverso da quando una persona sta andando al massimo nel mondo dell’esperienza, travolta dal piacere e dal divertimento. Se c’è pace, c’è uno stato di adattabilità a qualunque cosa si presenti, così da trovarsi sempre nella disposizione adeguata, e le cose sono viste correttamente. C’è retta comprensione, dato che gli impulsi mentali (sankhara) sono tranquilli, le proliferazioni assenti e si ha la percezione che i sankhara riposano nella quiete. Non si incomincerà più a polemizzare con tutte quelle opinioni di ogni sorta che si potrebbero affacciare alla nostra mente.

Per quanto concerne la relazione con il mondo, delle persone intelligenti, comprensive e amanti della pace, potranno esprimere la loro approvazione nei nostri riguardi, ma noi non dovremo sentirci felici a seguito di queste lodi, né esserne infatuati, ché, in definitiva, la lode è semplicemente il prodotto dello stato confusivo di chi la sta esprimendo, e niente di più. In assenza di un sentimento di piacere e dispiacere, l’approvazione resta semplicemente quel che è, non c’è bisogno di inseguirla insensatamente. Il nostro orientamento non è quello di procedere sulla via del divenire assoggettati. Con una pace sostenuta, nulla può farci del male: se pure altri dovessero incolparci, criticarci o condannarci, rendendoci vittima di un sospetto nato dall’inimicizia, noi continueremmo in ogni caso ad avere la pace. Pace nei riguardi di stati mentali che non vorremmo avere, che non sono come ci piacerebbe che fossero, ma che neppure hanno il potere di danneggiarci ed essere nocivi. Qualora qualcuno dovesse criticarci, finirà tutto lì, per poi autodissolversi interamente, passando via a suo modo. I lokadhamma non possono dominarci, quando nei nostri cuori non c’è altro che pace.

In piedi, camminando, seduti, distesi nel sonno, e nel rialzarci. Ecco tutto. Quando abbiamo a che fare con la società e le cose del mondo intorno a noi, possiamo entrare in relazione in un modo che sia benefico per tutti, senza andare fuori strada ed esserne travolti. Si agisce come chi può consentire alle cose di essere; si vive da samana (monaci) ed anagarika (senza casa), coloro per cui non vi è legame. E’ così che coltiviamo noi stessi, in questo modo autenticamente pacifico, con cui si permette alla pace di manifestarsi ininterrottamente. Tutte le volte che ci troviamo nella società, abbiamo sempre un senso di agio e tranquillità.

Questa visione apre la comprensione del modo in cui si lascia che le cose siano Dhamma, una precognizione intuitiva dello stato in cui siamo Dhamma. Se veramente siamo Dhamma, le entità esterne, il regno delle forme e delle condizioni, degli oggetti che ci circondano, e della nostra vita sociale, non rappresentano un problema, non ci danno da combattere. Non c’è confusione, felicità, sofferenza, godimento, e non c’è pena, non c’è nulla che possa dare origine a sentimenti di opposizione o avversione. Ogni cosa fluisce naturalmente seguendo la forza che questo stato di pace porta con sé, ogni cosa si dissolve attraverso la facoltà della tranquillità, e nulla ha davvero importanza, non c’è nulla da conseguire; tutte quelle cose cui eravamo interessati da bambini non sono più attraenti, e nessuna delle condizioni del mondo è in grado di sommergerci, né di disturbarci. Questo è in effetti qualcosa per cui giustamente accettare approvazione, ma non c’è un “qualcuno” da lodare. E’ una virtù che semplicemente onora sé stessa, proprio come fanno il nome e le qualità del Buddha che recitiamo insieme durante i canti al Beato. Il consenso è intrinsecamente lì, in virtù di sé stesso.

Si potrebbe dire che una persona che non ha problemi, che non ha dukkha, è libera dai kilesa (inquinanti mentali), ma la realtà è che sta convivendo con i kilesa, senza però esserne afflitta. L’attenzione che si concede ai kilesa proviene dall’illusione: se una persona non fosse confusa, non se ne curerebbe minimamente. I kilesa sono semplicemente quello che sono. Questo non significa non rapportarsi al mondo o non utilizzare il linguaggio ai fini della comunicazione, in quanto si è ancora nella condizione di dover relazionarci con gli altri, ma grazie ad un’attitudine complessiva che previene la fuoriuscita della rabbia, non consente il sorgere di pericoli ed effetti collaterali.

Non c’è rabbia, e il cuore è proprio come dell’acqua che non contiene particelle di polvere. L’acqua è libera da queste particelle fino a quando qualcuno non incominci ad agitarla, mescolandovi qualcosa che la intorbida. Le acque del cuore sono acque limpide. Pur messi alla prova o provocati, non ci sentiamo messi in agitazione, poiché non vi sono particelle sporche da rimescolare. Manteniamo stabilmente la bontà del cuore, e né la lode né il biasimo potranno interferire. Nel cuore c’è sempre un senso di purezza, che è una qualità che solo noi possiamo conoscere individualmente per noi stessi.

A volte ci si meraviglia, e ci si chiede quale in effetti possa essere l’origine di una tale purezza. La purezza viene dall’impurità – ecco da dove viene veramente – proprio come la tranquillità dall’agitazione, e la felicità dalla sofferenza. Dove c’è sofferenza deve necessariamente esserci anche felicità: il buio può venire in essere solo perché vi è la luce, che a sua volta si manifesta in funzione delle tenebre. E’ così che quella purezza si svela al nostro sguardo.

Vedere la propria mente, e proteggerla, ha come conseguenza la conoscenza e la visione in accordo con la realtà. Conoscendo la mente, la mente è vista. Si contempla la mente nella mente. Proprio come è detto nel Satipatthana Sutta, quando il Buddha indica che la mente è soltanto mente, esortandoci a contemplarla ininterrottamente, “solleciti, risoluti e pienamente presenti, messo da parte desiderio ed angoscia mondani” (atapi sampajano satima vinneya loke abhijjhadomanassam). Con questa consapevolezza, non si può essere sopraffatti o trascinati dalla condizione mondana (lokadhamma). Nel vivere consapevolmente le nostre vite, sentiamo di essere sempre pronti e preparati, possedendo perfezione e un luogo di purezza, non suscettibile a provocazioni. Sfortunatamente, nel caso della maggior parte di noi, la sensazione che si avverte è quella di trovarsi ad uno stadio in cui queste qualità non sono ancora stabilizzate – ad ogni modo, anche se non sono ancora atteggiamenti abituali, resta comunque la possibilità di farli diventare tali! E non è vero che questa è una cosa difficile a farsi; non è un grosso problema ottenere una base da cui poter incominciare.

In rapporto ad esempio ai problemi sociali intorno a noi, costruiamo un atteggiamento di disponibilità alla tolleranza, o perlomeno conserviamo un’attitudine di rinuncia (caga) e generosità (dana). Generosità e tolleranza andranno così a sostenere la nostra presenza mentale. Poi, qualunque malcontento si dovesse presentare, si può riflettere così “Ok, questa volta la vita in comune è stata così”. Possiamo paragonare il presentarsi di quel malcontento ai denti ed alla lingua nella bocca: come può capitare che i denti mordano la lingua – è una cosa normale – quando delle cose si trovano a stare assieme, a volte capita che non vadano d’accordo.

Naturalmente nella vita succede un po’ in questo modo. Ma sappiamo come perdonare, come lasciar andare, come aprirci ed invitare gli altri ad esprimere delle critiche costruttive (pavarana). Condividendo la vita in una comunità, è necessario trovare dei modi di esprimere sé stessi agli altri tali che il nostro vivere assieme conduca alla tranquillità, quindi in una direzione di armonia. Pavarana vuol dire dare alle persone con cui viviamo l’opportunità di criticarci, garantire loro questa forma di libertà di parola. Questo ci aiuta a coltivare l’abilità di sapersi aprire, ed implica anche la capacità di saper ascoltare in modo ricettivo, accettando i sentimenti e le opinioni degli altri. A prescindere dalla correttezza o meno delle loro idee, possiamo sempre considerarle come qualcosa da cui imparare, e se ne siamo capaci, possiamo portare il contributo di quest’apertura del pavarana, al nostro vivere insieme. Con queste qualità è possibile percorrere la propria strada e nello stesso tempo creare un senso comunitario di pace e felicità, senza avere più nulla che stimoli il senso d’importanza personale o la tendenza a mantenere stretta la presa su sé stessi.

Quando si vive all’interno della società circondati dalle cose del mondo, è ovvio che vi sia precarietà, ma possiamo ancora vivere assieme in armonia, senza considerare niente come sicuro, in sintonia con i principi fondamentali della realtà. C’è mutamento (anicca), e pure stabilità; c’è insoddisfazione (dukkha) e assenza di insoddisfazione; c’è il senso del sé e proprio nel mezzo anche un senso di non-sé (anatta). Il senza-morte (amata), il Dhamma che non muore, si trova anch’esso proprio qui. Quando contempliamo l’impermanenza, e viviamo con l’attitudine di essere preparati ad essa, vediamo che la permanenza viene alla luce come una realtà, così come la morte ha dentro di sé il senza-morte.

Con questa visione nascerà la percezione della pace, un senso di immobilità, quiete totale sotto ogni aspetto, pace da tutti gli stati mentali, dai piaceri dei sensi, dal desiderio, dalla lode e dal biasimo, pace dalla contentezza, e dall’insoddisfazione.

Cari amici nel Dhamma, nei monasteri occidentali affiliati a Wat Nong Pah Pong, gradirei condividere i meriti, ed esprimere il mio più profondo rispetto ed apprezzamento per il vostro impegno nella pubblicazione di una traduzione del mio discorso di Dhamma “Dall’Oscurità alla Luce”. Possa ciò ispirare molti lettori ad impegnarsi nella pratica del Dhamma. E possa essere di aiuto nel nutrire un senso di armonia nella pratica tra i nostri monasteri in occidente e in Thailandia. 

              Con i migliori auguri nel Dhamma,

Phra Visuddhisamvara Thera (Luang Por Liem Thitadhammo)