Insegnamenti

Buddha, Dhamma, Saṅgha

del venerabile Ajahn Sumedho

© Ass. Santacittarama, 2016. Tutti i diritti sono riservati.
SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.
Traduzione di Donatella Levi.

Dal libro “Now is the knowing” (forestsangha.org/teachings/books)

Quando le persone ci chiedono: “Cosa è necessario fare per diventare buddhisti?”, rispondiamo che abbiamo preso rifugio nel Buddha, nel Dhamma, nel Saṅgha. E per prendere rifugio recitiamo una formula in lingua pāḷi:

Buddhaṃ saranaṃ gacchāmi

Prendo rifugio nel Buddha

Dhammaṃ saranaṃ gacchāmi

Prendo rifugio nel Dhamma

Saṅghaṃ saranaṃ gacchāmi

Prendo rifugio nel Saṅgha.

Man mano che procediamo nella pratica, e cominciamo a realizzare la profondità degli insegnamenti buddhisti, prendere questi rifugi diventa una vera gioia – anche solo recitarli è fonte di ispirazione per la mente. Sono monaco da ventidue anni, eppure mi piace ancora recitare “Buddhaṃ saranaṃ gacchāmi”, a dire il vero ancor più di quanto non mi piacesse ventuno anni fa. All’epoca, infatti, queste parole non avevano per me alcun significato, le intonavo perché dovevo farlo, perché faceva parte della tradizione. Prendere rifugio nel Buddha semplicemente a livello verbale non vuole affatto dire che si stia prendendo rifugio in qualcosa: anche un pappagallo potrebbe essere addestrato a dire “Buddhaṃ saranaṃ gacchāmi”, e questo avrebbe per lui altrettanto poco significato quanto lo ha per molti buddhisti. Queste parole sono intese perché ci si rifletta sopra, perché le si osservi e ci si interroghi sul loro significato: cosa vuol dire “rifugio”, cosa vuol dire “Buddha”? Quando diciamo: “Prendo rifugio nel Buddha”, cosa intendiamo? Come possiamo utilizzare tutto questo in modo che non sia un insieme ripetuto di sillabe prive di senso, ma qualcosa che ci aiuta davvero a ricordare, a darci una direzione, ad accrescere la nostra devozione e dedizione al sentiero del Buddha?

La parola “Buddha” è una parola meravigliosa, significa “colui che conosce”, e il primo rifugio è nel Buddha in quanto personificazione della saggezza. Una saggezza non personificata risulta per noi troppo astratta: non siamo capaci di concepire una saggezza priva di corpo, priva di anima, e così, poiché la saggezza sembra avere sempre una qualità personale, utilizzare il Buddha come suo simbolo è molto utile.

Possiamo usare la parola Buddha per riferirci a Gotama, il fondatore di quello che oggi è noto come buddhismo, il saggio storico che raggiunse il Parinibbāna in India 2.500 anni fa, colui che insegnò le Quattro Nobili Verità e l’Ottuplice Sentiero, insegnamenti da cui traiamo beneficio ancor oggi. Tuttavia, quando prendiamo rifugio nel Buddha non vuol dire che stiamo prendendo rifugio in un qualche profeta storico, ma in ciò che vi è di saggio nell’universo, nelle nostre menti, in ciò che non è separato da noi ma che è più reale di qualsiasi cosa si possa concepire con la mente o di cui si possa fare esperienza attraverso i sensi. Senza una “saggezza-di-Buddha”, sarebbe assolutamente impossibile una vita di una qualche durata nell’universo; è la “saggezza-di-Buddha” che protegge. Noi la chiamiamo “saggezza-di-Buddha”, altri possono utilizzare termini diversi – in fin dei conti si tratta solo di parole, e noi utilizziamo quelle della nostra tradizione. Non litigheremo sulle parole pāḷi, sulle parole sanscrite, o su quelle ebraiche, greche, latine, inglesi o di altro tipo – stiamo solo usando l’espressione “saggezza-di-Buddha” come simbolo convenzionale che ci aiuti a ricordare di essere saggi, di essere vigili, di essere svegli.

Nel nord-est della Thailandia molti monaci della foresta usano la parola “Buddho” come oggetto di meditazione. La utilizzano come una sorta di koan. Prima calmano la mente seguendo le inspirazioni e le espirazioni usando le sillabe BUD-DHO, poi iniziano a contemplare: “Cosa è Buddho, ‘colui che conosce’? Cosa è il conoscere?”.

Quando andavo in tudong (errare a piedi) percorrendo il nord-est della Thailandia mi piaceva fermarmi presso il monastero di Ajahn Fun. Ajahn Fun era un monaco molto amato e profondamente rispettato, l’insegnante della Famiglia Reale, ed era così popolare che riceveva ospiti in continuazione. Io mi sedevo presso la sua kuṭī (capanna) e lo stavo ad ascoltare mentre teneva alcuni dei suoi straordinari discorsi di Dhamma, tutti incentrati sul tema “Buddho” – da quanto potevo capire, insegnava solo questo. Riusciva a trasformare questa pratica in una meditazione davvero profonda, adatta sia a un contadino analfabeta che a un aristocratico thailandese elegante ed educato all’occidentale. La parte principale del suo insegnamento non consisteva nel ripetere solo meccanicamente “Buddho”, ma nel riflettere e investigare, nel risvegliare la mente a osservare in profondità “Buddho”, “colui che conosce”, investigando realmente il suo inizio e la sua fine, sopra e sotto, così che la propria attenzione vi aderisse completamente. Quando si faceva così, la parola “Buddho” diventava qualcosa che risuonava nella mente. La si investigava, la si osservava, la si esaminava, prima di pronunciarla e dopo averla pronunciata, e a un certo punto si cominciava ad ascoltarla, e a sentire al di là del suono, fino a quando si sentiva il silenzio.

Un rifugio è un luogo in cui si è al sicuro, e così quando delle persone superstiziose si recavano dal mio maestro Ajahn Chah chiedendogli medaglioni avvolti da incantesimi o piccoli talismani che li proteggessero da proiettili, coltelli, fantasmi e così via, lui rispondeva: “Perché volete queste cose? La sola vera protezione è prendere rifugio nel Buddha. Prendere rifugio nel Buddha è sufficiente”. Ma di solito la loro fede nel Buddha non era altrettanto forte di quella in questi sciocchi medaglioni. Loro volevano qualcosa di bronzo o di creta, timbrato e benedetto. Questo vuol dire prendere rifugio nel bronzo e nella creta, prendere rifugio nella superstizione, prendere rifugio in ciò che è davvero insicuro e non ci può essere realmente d’aiuto.

Al giorno d’oggi nella Gran Bretagna moderna le persone sono in genere più sofisticate, non prendono rifugio negli amuleti magici, prendono rifugio in cose come la Westminster Bank – ma anche questo vuol dire prendere rifugio in qualcosa che non offre alcuna sicurezza. Prendere rifugio nel Buddha, nella saggezza, significa avere un luogo sicuro. Quando c’è la saggezza, quando agiamo saggiamente e viviamo saggiamente, siamo realmente al sicuro. Le condizioni intorno a noi potrebbero cambiare, non abbiamo alcuna garanzia su quale sarà il tenore di vita, o se la Westminster Bank supererà questo decennio. Il futuro rimane sconosciuto e misterioso, ma nel presente, prendendo rifugio nel Buddha, abbiamo la presenza mentale che ci consente di riflettere sulla vita e imparare da essa mentre la viviamo.

Saggezza non vuol dire conoscere tante cose sul mondo; non abbiamo bisogno di andare all’università e raccogliere informazioni sul mondo per essere saggi. Saggezza vuol dire conoscere la natura delle condizioni mentre ne facciamo esperienza. Non consiste nel farsi catturare e assorbire per forza d’abitudine dalle condizioni dei nostri corpi e delle nostre menti, reagendo condizionati dalla paura, dalla preoccupazione, dal dubbio, dall’avidità e così via, ma vuol dire usare quel “Buddho”, “colui che conosce”, per osservare che queste condizioni sono mutevoli. È proprio l’atto del conoscere quel cambiamento ciò che chiamiamo Buddha e in cui prendiamo rifugio. Non abbiamo la pretesa che quel Buddha sia “me” o “mio”. Non diciamo “Io sono Buddha”, ma piuttosto “Prendo rifugio nel Buddha”. È un modo per sottomettersi umilmente a quella saggezza, essendo consapevoli, essendo svegli.

Benché in un certo senso prendere rifugio sia qualcosa che facciamo continuamente, la formula pāḷi che utilizziamo è un richiamo per la memoria, perché dimentichiamo, perché prendiamo abitualmente rifugio nella preoccupazione, nel dubbio, nella paura, nella rabbia, nell’avidità e così via. L’immagine del Buddha ha una funzione simile; quando ci inchiniamo di fronte ad essa non immaginiamo che sia qualcosa di diverso da un’immagine di bronzo, un simbolo. È un modo di riflettere che ci rende un po’ più consapevoli del Buddha, del nostro rifugio nel Buddha, nel Dharma, nel Saṅgha. L’immagine del Buddha siede con grande calma e dignità, non in trance ma pienamente vigile, con uno sguardo colmo di consapevolezza e gentilezza, non scalfita dalle condizioni mutevoli intorno ad essa. Sebbene l’immagine sia fatta di bronzo, mentre noi abbiamo questi corpi di carne e sangue, e quindi per noi è molto più difficile, pur tuttavia è un richiamo. Alcune persone assumono un atteggiamento bigotto rispetto alle immagini del Buddha, ma qui in Occidente non ho trovato che costituiscano un pericolo. I veri idoli in cui crediamo e che veneriamo, e che ci ingannano continuamente, sono i nostri pensieri, le nostre opinioni e convinzioni, i nostri amori e odi, la nostra arroganza e presunzione.

Il secondo rifugio è nel Dhamma, nella verità ultima o realtà ultima. Il Dhamma è impersonale; non cerchiamo in alcun modo di personificarlo, di trasformarlo in una qualche sorta di deità personale. Quando recitiamo in pāḷi il verso sul Dhamma, diciamo che esso è “sandihiṭṭhiko akāliko ehipassiko opanayiko paccattaṃ veditabbo viññūhi”. Dato che il Dhamma non ha attributi personali, non possiamo nemmeno dire che sia buono o cattivo, o dotato di qualsiasi altra qualità superlativa o di paragone: esso è al di là delle concezioni dualistiche della mente.

Perciò quando descriviamo il Dhamma o vi alludiamo lo facciamo attraverso parole come “sandihiṭṭhiko”, che vuol dire immanente, qui-e-ora. Questo ci riporta al presente; avvertiamo un senso di immediatezza, di attualità. Si potrebbe pensare che il Dhamma sia un qualcosa che è “là fuori”, qualcosa da ricercare altrove, ma sandihiṭṭhikodhamma vuol dire che è immanente, qui-e-ora.

Akālikadhamma significa che il Dhamma non è vincolato da alcuna condizione temporale. La parola akāla significa senza tempo. La nostra mente concettuale non è in grado di concepire qualcosa che sia senza tempo, perché le nostre concezioni e percezioni sono condizioni basate sul tempo, però ciò che possiamo dire è che il Dhamma è akāla, non condizionato dal tempo.

Ehipassikadhamma è un richiamo ad andare a vedere, a volgersi o dirigersi verso il Dhamma. Vuol dire guardare, essere consapevoli. Non è che preghiamo il Dhamma di venire, o aspettiamo che ci batta sulla spalla; dobbiamo impegnarci attivamente. È come nel detto di Gesù: “Bussate e vi sarà aperto”. Ehipassiko vuol dire che dobbiamo mettere in atto lo sforzo di volgerci verso la verità.

Opanayiko vuol dire che porta verso l’interiorità, verso la pace all’interno della mente. Il Dhamma non ci spinge verso ciò che è affascinante o eccitante, verso le romanticherie o l’avventura, ma conduce al Nibbāna, alla calma, al silenzio.

Paccattaṃ veditabbo viññūhi vuol dire che possiamo conoscere il Dhamma solamente attraverso l’esperienza diretta. È come il sapore del miele, se lo assaggia qualcun altro continueremo a non conoscerne il sapore. Potremmo conoscerne la formula chimica, o essere in grado di recitare tutto ciò che di poetico è stato scritto sul miele, ma solo quando lo assaggeremo personalmente sapremo davvero com’è. È lo stesso con il Dhamma: dobbiamo assaggiarlo, dobbiamo conoscerlo direttamente.

Prendere rifugio nel Dhamma vuol dire prendere un altro rifugio sicuro. Non si prende rifugio in una filosofia o in concetti intellettuali, in teorie, idee, dottrine o credenze di qualche tipo. Non ci rifugiamo in una credenza nel Dhamma, o in Dio, o in qualche forza là fuori nello spazio, oppure in qualcosa che è “al di là” o è separato, qualcosa che dovremo incontrare prima o poi nel futuro. Le descrizioni del Dhamma ci tengono ancorati al presente, nel qui e ora libero da vincoli temporali. Prendere rifugio è un modo di riflessione immediato, immanente nella mente; non consiste nel ripetere come pappagalli “Dhammaṃ saraṇaṃ gacchāmi”, pensando “I buddhisti dicono così per cui lo devo dire anch’io”. Noi ci volgiamo verso il Dhamma, siamo consapevoli adesso, prendiamo rifugio nel Dhamma adesso, come un’azione immediata, un riflesso immediato dell’essere il Dhamma, essere quella stessa verità.

La nostra mente, nel suo elaborare continuamente concetti, tende sempre a fuorviarci, portandoci nel divenire. Pensiamo: “Praticherò la meditazione così un giorno mi illuminerò. Prenderò i Tre Rifugi per diventare buddhista. Voglio diventare saggio. Voglio sfuggire alla sofferenza e all’ignoranza ed essere diverso”. Questa è la mente concettuale, la mente desiderante, la mente che ci trae sempre in inganno. Invece di pensare continuamente secondo la prospettiva del divenire in futuro qualcosa, prendiamo rifugio nell’essere Dhamma nel presente.

L’impersonalità del Dhamma costituisce un problema per molte persone, perché la religione devozionale tende a personificare tutto, e chi viene da questo tipo di tradizioni non si sente a suo agio se non in una qualche forma di relazione personale. Ricordo che un giorno un missionario cattolico francese venne nel nostro monastero per praticare la meditazione. Si trovò un po’ in difficoltà con l’approccio buddhista, perché disse che era come una “gelida operazione chirurgica”, non c’era una relazione personale con Dio. Non si può avere una relazione personale con il Dhamma, non si può dire “Ama il Dhamma!”, o “Il Dhamma mi ama!”; non ce n’è alcun bisogno. Abbiamo bisogno di una relazione personale solo con ciò che non siamo, come una madre o un padre, un marito o una moglie, qualcosa di separato da noi. Ma non abbiamo bisogno di prendere rifugio nel papà o nella mamma, in qualcuno che ci protegga e ci ami, e che ci dica carezzandoci la testa: “Ti amo qualsiasi cosa tu faccia. Andrà tutto bene”. Il Buddha-Dhamma è un rifugio che rende maturi, è una pratica religiosa completamente matura e sana, in cui non andiamo più alla ricerca di un padre o di una madre, perché non abbiamo più bisogno di diventare qualcosa di diverso. Non abbiamo più bisogno di essere amati e protetti da qualcuno, perché possiamo amare e proteggere gli altri, e questo è tutto ciò che conta. Non dobbiamo più chiedere o implorare nulla dagli altri, che si tratti di persone o persino di una divinità o forza che percepiamo come separata da noi, a cui dobbiamo rivolgere preghiere e chiedere di guidarci. Rinunciamo a tutti i nostri tentativi di concepire il Dhamma in questo o quel modo, in qualsiasi modo, e lasciamo andare il nostro desiderio di avere una relazione personale con la verità. Dobbiamo essere quella verità, qui e ora. Essere quella verità, prendere quel rifugio, richiede che ci si risvegli nell’immediato, richiede che si sia saggi adesso, che si sia Buddha, che si sia Dhamma nel presente.

Il terzo rifugio è il Saṅgha, che vuol dire un gruppo. “Saṅgha” può essere il Bhikku-Saṅgha, l’ordine dei monaci, oppure l’Ariya-Saṅgha, il gruppo degli Esseri Nobili, tutti coloro che conducono una vita virtuosa, facendo il bene e astenendosi dal fare il male con azioni o parole. Prendere rifugio nel Saṅgha con la frase “Saṅghaṃ saranaṃ gacchāmi” significa che prendiamo rifugio nella virtù, in ciò che è buono, virtuoso, gentile, compassionevole e generoso. Non prendiamo rifugio in quelle parti della nostra mente che sono meschine, malevole, crudeli, egoiste, invidiose, piene di odio e di rabbia, anche se non c’è dubbio che questo è ciò che spesso tendiamo a fare per incuria, quando non riflettiamo e non siamo vigili, e quindi reagiamo semplicemente alle condizioni. Prendere rifugio nel Saṅgha vuol dire, a livello convenzionale, fare il bene e astenersi dal fare il male con azioni o parole.

Tutti noi abbiamo intenzioni e pensieri sia buoni che cattivi. I saṅkhāra (i fenomeni condizionati) sono così: alcuni sono buoni e altri no, alcuni sono neutri, alcuni sono meravigliosi e altri molto sgradevoli. Nel mondo le condizioni sono mutevoli. Non possiamo pensare solo i pensieri migliori e più elevati, e provare soltanto i sentimenti migliori e più gentili; i pensieri e i sentimenti buoni e cattivi vanno e vengono, ma noi prendiamo rifugio nella virtù piuttosto che nell’odio. Prendiamo rifugio in ciò che in tutti noi ha l’intenzione di fare il bene, che è compassionevole, gentile e amorevole verso noi stessi e verso gli altri.

Il rifugio del Saṅgha è dunque un rifugio molto pratico per vivere quotidianamente in questa forma umana, in questo corpo, in relazione ai corpi degli altri esseri e al mondo fisico in cui viviamo. Quando prendiamo questo rifugio evitiamo di agire in qualunque modo possa essere causa di divisione, disarmonia, crudeltà, meschinità o cattiveria verso qualsiasi essere vivente, inclusi noi stessi, il nostro corpo e la nostra mente. Questo vuol dire essere “supaṭipanno”, uno che pratica bene.

Quando siamo consapevoli e attenti, quando riflettiamo e osserviamo, cominciamo a vedere che agire spinti da impulsi crudeli ed egoistici arreca soltanto danno e infelicità a noi stessi e agli altri. Non ci vuole chissà quale potere di osservazione per constatarlo. Chi ha incontrato qualche criminale, persone che hanno agito egoisticamente e con malvagità, troverà che sono costantemente impauriti, ossessionati, paranoici, sospettosi. Hanno bisogno di bere molto, di assumere droghe, di tenersi occupati in ogni sorta di attività, perché vivere con se stessi è orribile. Passare cinque minuti da soli con se stessi senza droghe o alcol, o senza fare qualcosa, sembrerebbe loro un inferno senza fine, perché a livello mentale il risultato kammico della malvagità è terribile. Anche se non venissero mai catturati dalla polizia o mandati in prigione, non bisogna pensare che la farebbero franca. In realtà, a volte la cosa più gentile da fare è proprio metterli in prigione e punirli: li fa sentire meglio. Io non sono mai stato un criminale, ma nel corso della mia vita sono riuscito a dire qualche bugia e a fare qualche azione meschina e cattiva, e i risultati sono sempre stati spiacevoli. Ancor oggi, quando ci ripenso, non sono ricordi gradevoli, non sono cose che vorrei raccontare a tutti, né mi procurano gioia quando mi tornano in mente.

Quando meditiamo realizziamo che dobbiamo essere completamente responsabili per il modo in cui viviamo. Non possiamo in alcun modo incolpare qualcun altro di qualcosa. Prima che cominciassi a meditare ero solito incolpare la gente e la società: “Se solo i miei genitori fossero stati degli arahant pieni di saggezza e illuminati, io starei bene. Se solo gli Stati Uniti avessero un governo davvero saggio e compassionevole che non facesse mai errori, mi desse sostegno e mi apprezzasse in pieno. Se solo i miei amici fossero saggi e incoraggianti, e gli insegnanti saggi, generosi e gentili. Se tutti intorno a me fossero perfetti, se la società fosse perfetta, se il mondo fosse saggio e perfetto, allora io non avrei tutti questi problemi. Ma hanno tutti fallito nei miei confronti”. I miei genitori avevano alcuni difetti, e in realtà hanno fatto alcuni errori, ma quando ora ripenso al passato, non ne avevano fatti nemmeno troppi. All’epoca, quando cercavo di incolpare gli altri, e mi davo da fare per trovare le colpe dei miei genitori, dovevo davvero impegnarmi per riuscirci. La mia generazione era molto brava a incolpare di tutto gli Stati Uniti, e non era affatto difficile, perché gli Stati Uniti fanno molti errori. Ma quando meditiamo non possiamo più continuare a mentire così a noi stessi. Ci rendiamo improvvisamente conto che non importa ciò che qualcun altro ha fatto, o quanto sia ingiusta la società, o come siano stati i nostri genitori, non possiamo più passare il resto della nostra vita a incolpare qualcuno altro – è un’assoluta perdita di tempo. Dobbiamo accettare la totale responsabilità per la nostra vita, e viverla. Se anche davvero i nostri genitori fossero stati tremendi, se fossimo cresciuti in una società spaventosa che non ci avesse offerto alcuna opportunità, non importa ugualmente. Non possiamo incolpare nessun altro per la nostra sofferenza attuale se non noi stessi, la nostra ignoranza, il nostro egoismo, la nostra presunzione.

Nella crocifissione di Gesù possiamo vedere un esempio straordinario di un uomo in preda al dolore, denudato, deriso, totalmente umiliato e poi giustiziato pubblicamente nel più orribile e atroce dei modi, il quale però non ha mai incolpato nessuno: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Questo è un segno di saggezza, vuol dire che anche se le persone ci stanno crocifiggendo, inchiodando alla croce, flagellando, umiliando in ogni modo, è la nostra avversione, la nostra autocommiserazione e autocentratura che sono il problema, la vera sofferenza. Non è nemmeno il dolore fisico che fa davvero soffrire, è l’avversione. Ora, se Gesù Cristo avesse detto: “Vi maledico per ciò che mi state facendo!”, sarebbe stato solo un altro criminale e sarebbe stato dimenticato dopo pochi giorni.

Riflettete sul perché tendiamo facilmente a incolpare gli altri per la nostra sofferenza. Potrebbe essere anche giustificabile, perché forse c’è qualcuno che ci sta maltrattando, o sfruttando, o non ci sta capendo, o ci sta facendo cose tremende. Non neghiamo tutto ciò, ma non ce ne curiamo più. Perdoniamo, lasciamo andare questi ricordi, perché prendere rifugio nel Saṅgha vuol dire, qui e ora, fare il bene e astenerci dal fare il male con azioni o parole.

Che possiate dunque riflettere su tutto ciò, e vedere davvero il Buddha, il Dhamma e il Saṅgha come un rifugio. Considerateli come opportunità per riflettere e contemplare. Non si tratta di credere nel Buddha, nel Dhamma, nel Saṅgha – non si tratta di avere fede in concetti – ma piuttosto di usarli come simboli per la consapevolezza, per risvegliare la mente qui e ora; per essere qui e ora.