del venerabile Ajahn Tiradhammo
© Ass. Santacittarama, 2005. Tutti i diritti sono riservati.
SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.
Traduzione di Gabriela De Franchis.
Un discorso dato a Cittaviveka, Ottobre 2003
AJAHN NATTHIKO MI HA INVITATO A DIRE QUALCHE COSA STASERA, precisando che voleva prendere spunto dalla mia trentennale esperienza di vita monastica. Ecco un tema buono su cui potere riflettere. Che cosa ho fatto durante gli ultimi trent’anni?
Nel corso degli anni ci sono state molte fasi nella mia pratica, che ebbe inizio in Thailandia. Tanto per cominciare avevo una visione molto semplicistica della pratica. Avevo appena finito l’università e la mia prima idea fu quella di trascorrere sei mesi in una grotta in Thailandia, in silenzio, ed ecco fatto, ecco l’illuminazione. Questa fu la mia prima fantasia. “Datemi solo sei mesi ed è tutto finito, posso ritornare a casa”. Illuminazione e poi a casa. Beh, questo succedeva trent’anni fa, e da questo si vede quanta fantasia ci fosse. Però io penso che molte persone siano così. La maggior parte di noi inizia la pratica di meditazione con concetti, idee, aspettative e anche simili fantasie. Nella reale esperienza della pratica, mettiamo alla prova queste idee e questi concetti. Scopriamo le cose da soli. Potrei dire che i miei sforzi di questi ultimi trent’anni sono stati rivolti all’affinamento o al sostegno della pratica.
Ricordo i miei primi anni nel nord della Thailandia, seduto nella mia piccola capanna, nel tentativo di mantenere la mia pratica a un livello molto semplice. Stavo solo seduto e osservavo il respiro. Lo osservavo per ore e ore, ogni giorno. Ero in un monastero per la pratica meditativa intensiva così non vi erano molte distrazioni. Non c’era nient’altro da fare oltre la meditazione seduta e camminata. Non era un monastero della foresta, e così non c’era alcuna routine: nessuna meditazione serale, nessuna meditazione del mattino. Si doveva andare avanti da soli. Io ero abbastanza serio ai tempi, o forse solo illuso – non so quale dei due atteggiamenti mentali prevalesse – e mi dedicai totalmente alla pratica.
Riconobbi che avevo avuto una grande opportunità, perché a quei tempi ce n’erano poche di opportunità simili in Occidente. Così, eccomi in Thailandia, un paese Buddhista, dove mi avevano generosamente donato questo posto per la mia pratica. Così praticavo sedici ore al giorno, camminando e stando seduto, camminando e sedendomi. Non c’era nient’altro da fare.
Ovviamente, senza distrazioni per ore e ore al giorno, per mesi interi, la mente si pacificò ragionevolmente. Ma poiché il monastero era sulla mappa turistica di Chiang Mai, arrivavano un bel po’ di occidentali. Mi ricordo che una volta, mentre ero seduto in meditazione, udii dei passi sulle scale. La porta si aprì ed entrò un turista. Mi vide seduto e così si avvicinò dicendo “Salve, sono John Smith.” Io alzai lo sguardo verso di lui e dissi “Salve, sono…….emmm…Sono……..”
Non riuscivo a ricordarmi chi ero! “Respiro” Questo era tutto quello che potevo pensare. Certo non fu quella che si dice una esperienza gioiosa faceva un po’ paura. Sapete, ho dovuto guardare sul mio passaporto per capire chi ero.
Quei giorni di tranquillità furono però pochi, praticavo così diligentemente che alla fine anche il mangiare diventò una distrazione, un disturbo per la concentrazione. Ma non si può vivere a lungo senza mangiare, così dopo un po’ mi ammalai. Stare male fu un po’ uno shock, perché non potevo continuare a praticare gli esercizi di meditazione, così tutta la confusione mi tornò. La concentrazione o calma mentale, è uno stato condizionato. Se si fanno esercizi di concentrazione per lunghi periodi di tempo, si può sperimentare la concentrazione, ma quella concentrazione è condizionata agli esercizi. Quando non potevo fare gli esercizi, tutta la confusione, tutte le preoccupazioni, tutti i pensieri tornavano, e sempre peggio di prima. Non solo avevo la mia solita confusione, ma era quella confusione che segue l’esperienza della tranquillità, quindi sembrava molto peggio. Era la solita confusione sullo sfondo della precedente calma. Così, ovviamente, la mia prima reazione fu: “Il Buddhismo non funziona. Non può essere colpa mia. Deve essere colpa del Buddhismo”.
Fortunatamente qualcosa dentro di me, qualche tipo di intuizione o una certa dose di fede, mi diedero un secondo pensiero: “Forse qui mi sfugge qualcosa.” Così guardai in un libro buddhista e vidi che diceva “sila, samadhi e pañña” Oh si, pañña, che cosa è? Cos’è questo elemento che si chiama saggezza? Forse qui mi sfugge qualcosa. Poi mi resi conto “Mi toccherà tornare indietro e affinare la mia idea di pratica”.
A quei tempi avevo capito che la saggezza era fondamentalmente conoscenza. Così per me la saggezza significava studiare le scritture buddhiste. Avevo capito che il Buddha intendeva questo per “saggezza”. Infatti, in un certo senso, contemplare le scritture mi ha dato un bel po’ di saggezza. Nelle scritture sono menzionati diversi tipi di saggezza. C’è la suta-maya-pañña, che è la saggezza che viene dai discorsi, da ciò che abbiamo letto o ascoltato. Questo è il primo tipo di saggezza, un tipo di saggezza inferiore. Il secondo tipo è cinta-maya-pañña, che è quello che noi pensiamo e contempliamo.
Il terzo tipo, la più alta forma di saggezza, è bhavana-maya-pañña,che è la saggezza che viene dalla meditazione e dalla contemplazione. Non avendo molta esperienza di meditazione, pensavo che per saggezza si intendesse lo studio delle scritture. Ma dopo avere studiato le scritture e avere meditato per un altro po’ di anni, sembrava che qualcosa non funzionasse più. Fortunatamente mi imbattei negli insegnamenti di Ajahn Chah, la cui traduzione era a quei tempi disponibile in Thailandia.
Gli insegnamenti di Ajahn Chah sembravano molto equilibrati. Naturalmente incoraggiava la concentrazione, ma non l’esagerazione. Mi sembrò di capire che egli mirava alla facoltà della saggezza che non viene dalla lettura delle scritture, ma dalla conoscenza di se stessi. Ad esempio una persona gli chiese, “Per quanto tempo devo stare seduto ogni giorno?” La sua risposta fu “Non lo so! Osserva te stesso! Cosa pensi di avere bisogno? Che cosa va bene per te?” E scherzava dicendo che alcune persone stanno a lungo sedute come una gallina che cova le uova. Non è molto utile. Credo che si possano covare non più di un paio d’uova! Naturalmente alcune persone hanno bisogno di più sedute, ma il punto era: guardare se stessi.
Quando mi resi conto che Ajahn Chah aveva solide fondamenta di saggezza, e che sapeva come svilupparla e coltivarla, andai a trovarlo e finii per rimanere nel suo monastero in Thailandia per i sei anni successivi. Anche se i suoi insegnamenti erano molto semplici, spesso mi ci voleva un po’ perché mi “entrassero nel cuore” veramente. Nella lingua Thai le parole che indicano “comprensione” sono “kow jai”, letteralmente “entrare nel cuore”. Gli insegnamenti di Ajahn Chah potevano sì entrarmi nel cervello, io sentivo quello che diceva, ma non mi entravano veramente nel cuore. Ancora non li capivo.
Ricordo che uno dei suoi insegnamenti riguardava il mantenere la consapevolezza e la concentrazione in qualsiasi cosa facciamo, non solo nella sala di meditazione, ma anche in ogni attività. Questo devo averlo sentito una dozzina di volte. Tuttavia un pomeriggio ero seduto nella mia capanna nella foresta e stavo cercando di trovare pace e tranquillità. Poi, alle tre suonò la campana per la raccolta dell’acqua. Con il caldo le tre non erano certo l’ora migliore della giornata. Ma mi resi conto che se dovevo vivere in un monastero dovevo collaborare. Così uscii dalla capanna per aiutare nella raccolta dell’acqua. Me ne andavo rimuginando tra me e me “Questo disturba la mia meditazione. Avrei potuto raggiungere una buona concentrazione se la campana non avesse suonato.” Poi mi fermai e pensai, “Hei, Ajahn Chah ci ha detto di essere concentrati e presenti in tutto quello che facciamo. Beh, giacché vivo in un monastero forse dovrei provarci.” Così cercai di essere concentrato e presente mentre camminavo verso il pozzo, mentre aiutavo a raccogliere l’acqua, mentre distribuivo l’acqua per il monastero, mentre spazzavo la sala di meditazione. Dopo quarantacinque minuti di queste attività tornai alla capanna e mi sedetti per la meditazione e, con mia grande sorpresa – mi accorsi che la mia mente era veramente calma. Prima mi ci sarebbe voluta una mezz’ora per arrestare il brontolio. Ma quando mi misi a sedere, scoprii che funzionava veramente! Anche se avevo spesso ascoltato gli incoraggiamenti di Ajahn Chah sull’essere consapevole, c’è voluto questo piccolo incidente perché capissi veramente ciò che intendeva dire.
Di tutti gli insegnamenti di Ajahn Chah che ho ascoltato, quello sul quale rifletto di più è molto semplice. Ancora non lo capisco veramente bene, così lo contemplo tutt’ora. Egli disse “Tutto ci insegna”. Più tardi vi aggiunsi la mia personale interpretazione. “Tutto ci insegna, se siamo pronti ad accoglierlo.” Recentemente dico “Tutto ci insegna, sia che ce ne rendiamo conto o no”. Per me questo significa che gli insegnamenti ci arrivano a diversi livelli, anche se al nostro attuale stato percettivo potrebbe sembrare che non stiamo di fatto imparando. A volte è una reazione istintiva, a volte è solo una vaga intuizione. Ecco perché dico che la mia pratica è stata cercare di equilibrare gli insegnamenti piuttosto che riceverli ad un livello soltanto, del cuore o del cervello o che so io. Si tratta di recepire a tutti i vari livelli. Per me questo concorda perfettamente con i Quattro Fondamenti della Consapevolezza: Consapevolezza del corpo, della mente, delle sensazioni, degli stati della mente e del dhamma.
A volte gli insegnamenti arrivano dal corpo. Sostenere la pratica non significa soltanto essere consapevoli del fatto che, per esempio, come è detto nelle scritture, stiamo camminando o che ci stiamo vestendo, ma significa imparare realmente il linguaggio interiore del corpo umano. Ad esempio per capire la lingua Thai devo prima impararla. Per imparare il linguaggio profondo del corpo umano bisogna apprendere in modo diverso. Ci sono esercizi specifici nelle scritture, che ci aiutano a sviluppare la consapevolezza del nostro corpo. Ma ciò a cui mi riferisco è un po’ più profondo. A volte si hanno delle esperienze che non riusciamo a capire con questa o con questo (indicando la testa o il cuore). Capire quello che il corpo sta dicendo non significa soltanto l’ interpretazione che il cervello dà del corpo. Si tratta di essere aperti a ricevere il corpo, al suo stesso livello di realtà, al suo stesso grado di espressione.
Per me imparare il linguaggio del corpo è come imparare una lingua straniera. Il corpo parla una lingua straniera. Non parla la lingua della “razionalità” o della “emozionalità”. Credo che si possa dire che parla la lingua della “fisicità”. Per capire questa lingua possiamo cominciare con lo sviluppare consapevolezza del nostro corpo sintonizzarci a livello corporeo. Ascoltiamo il corpo stesso che parla, non cerchiamo di interpretarlo con il cervello, lasciamo che esso parli per sé.
Altre volte abbiamo bisogno di essere consapevoli delle sensazioni. Sensazione è la traduzione della parola Pali “vedana”. Negli insegnamenti buddhisti, sensazione o vedana ha a che fare con il tono stesso della sensazione. Non ha niente a che vedere con l’emozione. Sebbene ciò possa apparire semplice, può essere difficile da afferrare. Ricordo che una volta in Inghilterra ho condotto un ritiro di meditazione sulla sensazione, che come sapete può essere:, piacevole, spiacevole, neutra…. piacevole, spiacevole, neutra. Dopo tre giorni un uomo mi si avvicina e mi dice “Ho una domanda: Cosa è la sensazione?”. Dopo tre giorni! E io risposi semplicemente: “Piacevole, spiacevole, neutra”, ma lui non capì.
Mi rendo conto che in parte si tratta di un problema di traduzione. Si dice “Come stai?” e non si risponde “Piacevole, spiacevole, neutro” Si risponde “Sto bene” oppure “Benone” o “Malissimo” e così via. Di solito si risponde in termini di emozioni. Ma la sensazione o vedana è il tono che sta alla base, il sapore generale di queste emozioni, sia che esse siano piacevoli, spiacevoli o neutre. Mettere questa etichetta all’ esperienza dà una prospettiva diversa. Quando è già entrata a fare parte dell’emozione del tipo: “Mi sento benone”, “Sono felice”, c’è già una certa dose di personalità, una forma particolare di felicità o di tristezza o altro. Ma piacevole, spiacevole, neutra a chi appartengono? Questo modo di guardare le cose rende l’esperienza più oggettiva. Così ci offre un modo diverso di guardare le emozioni, che per la maggior parte di noi, sarebbero altrimenti abbastanza cariche di soggettività. Porre la cosa in termini di piacevole, spiacevole, neutra le dà una certa oggettività. Non si tratta di negare la nostra felicità, ma la si vede piuttosto come una sensazione piacevole anziché come il fatto di “essere personalmente felice”, con tutto il coinvolgimento personale che comporta. Divide la realtà personale in categorie.
Quando Ajahn Chah spiegava il Dhamma, spesso dava esempi presi dalla natura, dalle formiche, dalle foglie della foresta ed altre cose del genere. Sebbene io stesso sia cresciuto in campagna, non mi sarebbe mai passato per la mente di guardare le formiche. Che cosa ha a che fare ciò con il Buddhismo? Formiche e foglie? Ecco dove le parole di Ajahn Chah “Tutte le cose ci insegnano” mi sono state tanto di aiuto. Sapete, quando le ho sentite per la prima volta ho pensato: “Cosa vuol dire – tutte le cose ci insegnano – ?”. Di sicuro non intendeva dire che tutti i discorsi insegnano, certamente intendeva dire tutte le cose.
Ajahn Chah era solito enfatizzare l’importanza, per esempio, di fidarsi della propria saggezza intuitiva. E naturalmente non avevo la più pallida idea di ciò che questo significasse. Cioè, gli insegnamenti di saggezza ci vengono dati da un maestro, noi siamo discepoli del Buddha, e allora che cosa ha a che fare la saggezza con me? Nella mia ricerca della saggezza, spesso mi rendevo conto di avere bisogno di una conferma o di una verifica di quello che sapevo o credevo di sapere.
All’inizio ho trovato che la risposta di Ajahn Chah a questo mio bisogno fosse alquanto difficile, ma la apprezzai molto in seguito. Lui era un maestro nel non dare mai una risposta diretta. Quando qualcuno andava da lui e cercava di avere risposte precise, egli affrontava sempre le cose in modo diverso. All’inizio pensavo che fosse soltanto un po’, come dire, non evasivo,….. ma…. forse non sapeva bene…… o forse stava prendendosi gioco di noi, poiché aveva anche uno spiccato senso dell’humour.
Mi resi conto più tardi che stava cercando di indirizzarci verso noi stessi, verso colui che sta ponendo le domande o cercando le risposte. Se cercavamo una risposta al di fuori, da lui, ci metteva sempre fuori strada. Così alla fine, se lo si seguiva abbastanza a lungo si finiva per tornare sempre a se stessi. E’ fondamentale per la pratica del Dhamma essere capaci di interrogare i nostri presupposti di riferimento. Iniziamo col porre domande, ma forse è più importante scoprire chi è che le sta ponendo. Molte volte ho scoperto che i miei quesiti provenivano dal mio ego. Ponevo una domanda ad Ajahn Chah, ma volevo che mi rispondesse ciò che volevo sentire o, almeno, ciò che mi faceva piacere sentire. Volevo che i miei punti di vista fossero confermati. Volevo che le sue risposte mi facessero piacere, mi rendessero felice, mi confortassero e convalidassero il mio senso dell’ io.
Rispondendo così come lui faceva era la sua maniera per riportare la nostra attenzione alla saggezza intuitiva. Dovevamo imparare a fare sorgere domande e lasciarle fluttuare per un po’, senza cercare alcuna risposta. Mi ci è voluto un po’ per capire che negli insegnamenti del Buddha, la saggezza non riguardava soltanto la lettura della scritture, ma riguardava anche la comprensione di sé stessi, capire la propria natura, il proprio corpo, le proprie sensazioni, lo stato della propria mente: mentalità e fisicità, nama-rupa. Quando il Buddha cercava di scoprire la Verità, stava seduto e investigava dentro di sé. Non vediamo mai una statua del Buddha con Buddha che legge un libro, non è vero?. Egli meditava e tutto quello su cui doveva meditare non erano altro che il suo corpo e la sua mente. Non aveva neanche il corpo o la mente di qualcun altro. Solo i propri. Ecco dove trovò l’illuminazione. Non in un libro, non fuori da sé stesso, ma proprio lì nel suo corpo e nella sua mente.
Avendo trascorso tanti anni, quindici anni, in classe a guardare la lavagna, con un’insegnante che mi raccontava la verità, la verità che per me era “al di fuori”, mi ci è voluto un po’ di tempo per cambiare questo atteggiamento.
Ricordo una volta in Thailandia c’erano degli studenti in visita al monastero. Ajahn Chah disse loro, con molta semplicità, “Mettete via i vostri libri e leggete le vostre menti.” Sembra facile, ma come si fa? Abbiamo tutti imparato a leggere i libri, sin da piccoli, ma a pochi è stato insegnato come leggere la mente. Quale mente, chi legge la mente di chi? La mia mente mi sta forse leggendo? Ma ecco di che cosa tratta la meditazione. Essere capaci di leggere la propria mente o di leggere la mente.
Così, negli anni, il mio sforzo è stato quello di affinare o equilibrare molte mie idee sulla pratica. Questo significa metterle alla prova. Naturalmente il metterle alla prova implica il fatto che a volte falliamo. Ma le prove sono così. A volte abbiamo dei successi e a volte dei fallimenti. Devo ammettere che in trent’anni, e spero che questo vi possa ispirare, in trent’anni mi rendo conto di avere imparato alcune delle lezioni più importanti dai fallimenti, non dai successi. I successi sono secondari ti danno una carica per un po’, ma imparare da errori o fallimenti…. queste sono lezioni veramente molto importanti. Naturalmente chi è che vuole imparare dai fallimenti? Chi vuole, quanto meno, riconoscere i propri fallimenti, che minacciano così tanto il nostro senso dell’io, il nostro orgoglio e la nostra presunzione. Ma per me i fallimenti ci mostrano il nostro lato oscuro. Dove non guardiamo, dove non vediamo. Per me l’illuminazione non è illuminare la luce. La luce è già illuminata. Illuminazione significa illuminare il buio, dove non guardiamo, dove non abbiamo visto, illuminare quello che abbiamo finora ignorato. Si tratta di illuminare la nostra ignoranza.
Può apparire un paradosso, spero non deludente, dire che possiamo imparare molto dai nostri errori. Lì è dove non vogliamo guardare, al nostro orgoglio, alla nostra presunzione, alle fondamenta del nostro senso dell’io. Tutto ciò diventa visibile nei fallimenti. Ma il successo a mio avviso può essere anche dannoso, perché alimenta la presunzione e l’orgoglio. Quindi, in sostanza, per me la pratica riguarda il cambiamento e la trasformazione della nostra parte oscura, la parte perdente: imparare da tutte le cose, specialmente dalle cose che non vogliamo guardare, specialmente dalle cose che non riteniamo utili o di valore. Ho avuto la conferma di tutto questo durante il ritiro invernale di quest’anno.
In inverno noi abbiamo tre mesi di ritiro monastico. E’ un buon momento per la pratica e di solito è un periodo calmo e tranquillo. Ma ad appena un mese dal ritiro ebbi un piccolo scontro con delle persone mi rimase una sensazione di disagio, che forse si può chiamare rabbia. Non erano persone del monastero. Se fosse stato così avrei potuto parlare con loro e rimediare la cosa. Si trattava di gente che incontrai per caso durante una passeggiata e che poi non vidi più. Non potevo neanche inseguirli e risolvere la cosa. E così eccomi qua, nel bel mezzo di un ritiro monastico, senza distrazioni e con questa cosa addosso.
La chiamavo “rabbia” perché era un modo per affrontarla, e questa “rabbia” non voleva proprio andar via. Trovai fastidioso, nel bel mezzo di un ritiro monastico, avere l’assillo di questa rabbia. Ma alla fine mi arresi e mi resi conto che “era una buona opportunità per imparare”.
Iniziai a contemplare questa irritazione, a esaminare quello che accadeva. Era una spiacevole sensazione fisica nella zona del cuore. Mentre la guardavo, questa rabbia, improvvisamente, si rivelò essere qualcosa di diverso: risentimento. Ciò mi sorprese perché la persona verso la quale provavo risentimento non era neanche presente!
Era solo un ricordo, una immaginazione. Così contemplai questo risentimento per i seguenti due o tre giorni. Scoprii che il risentimento si riferiva al fatto di essere stato frainteso. Risaliva a qualcosa che era successo decenni fa. Iniziai a guardarlo, ad aprirmi ad esso, a riceverlo senza giudicare. Così facendo cominciò a dipanarsi, era come se si stesse disfacendo. Venne fuori che quello che ritenevo fosse rabbia aveva un meccanismo complesso. Risultò essere una serie di cose.
Dopo il risentimento apparve la paura, paura di lasciare uscire questo risentimento, paura che esplodesse, paura di cosa avrebbe fatto l’altra persona se lo avessi lasciato venire fuori. La paura durò tre o quattro giorni. Sotto la paura c’era la frustrazione e trascorsi tre o quattro giorni con essa e questa sensazione, che io avevo chiamato “rabbia”, andava dipanandosi giorno dopo giorno. Iniziò a dipanarsi in modo quasi meccanico. Mentre si dipanava, si apriva. Mentre si apriva diventava più paurosa perché non aveva più forma.. Divenne più indistinta e più grande. Diventò più grande di me. Ma mentre si dipanava andava diventando meno solida e più diradata e c’era anche più duttilità. Quando arrivò ad essere frustrazione, sembrò meno personale, più universale. Questa rivelazione andò avanti per alcune settimane. Poi un giorno notai che era soltanto una energia incolore. Non aveva né colore, né consistenza, né sentimento. Non sapevo dire se fosse risentimento o frustrazione, si trattava solo di questa energia pulsante, una energia incolore, sebbene non fosse piacevole. Vedevo che non mi apparteneva, e questo mi faceva paura. Per lo meno con la rabbia potevo dire “Beh, d’accordo, mi appartiene”. Ma mentre si andava rivelando raggiunse un tipo di livello quasi archetipo. Era una fondamentale emozione di base. Poi c’era solo questa energia, che pulsava. Una potente energia senza né colore né direzione. Non potevo dire che mi appartenesse. Potevo soltanto dire che si trattava di una forza vitale. E questo per me fu una rivelazione, scoprire che la rabbia fa parte del nostro essere, che è’ una espressione della forza vitale. Certamente è stata contaminata da influenze negative, in questo caso da cose mie personali come la frustrazione, il risentimento e la paura. Ma alla radice è solo forza vitale. Fu una scoperta paurosa, perché non potevo controllarla. La rabbia, in un certo qual modo, potevo controllarla: potevo tirarla fuori o tenere la bocca chiusa, ma questa cosa che cosa era?
Perciò è importante lavorare con la rabbia, non contro di essa, perché è parte della nostra forza vitale. Se cerchiamo di contrastarla è come se cercassimo di uccidere noi stessi. Questo è quello che molta gente fa, cerca di soffocare la propria rabbia.
Si cerca di bloccarla e poi si diventa depressi, si prova risentimento, ci si sente frustrati, perché si sta bloccando la propria forza vitale. Lavorare con la rabbia non vuol dire farla venire fuori, ma lavorarci su, essere capaci di sintonizzarsi su di essa ad un certo livello, al livello di forza vitale. Una volta che la vediamo in maniera diversa, acquista un significato diverso.
Mi resi conto che quando pensavo si trattasse soltanto di rabbia, in me sorgevano pensieri di rimprovero, “Oh, non dovresti essere arrabbiato. Trent’anni di meditazione e sei ancora arrabbiato”. Ma quando si trasformò in questa energia, questa energia pulsante, allora tutte queste voci terminarono, perché non c’era alcuna storia. Non c’era storia, né colore, né coinvolgimento personale, perché si trattava solo di pura forza vitale. Di sicuro questo è quello che il Buddha ci ha detto: non prendere le cose di cui acquisiamo consapevolezza come una espressione di noi stessi, ma di essere consapevoli di quali siano le loro vere implicazioni, quale sia la loro reale profondità. Molte volte guardiamo soltanto in superficie, non vediamo realmente quale sia la radice. Se coltiviamo la presenza mentale, la consapevolezza, questa può iniziare a scavare, a dipanare sentimenti come la rabbia.
La rabbia non è qualcosa che si deve soffocare e strangolare, ma qualcosa da esplorare, alla quale aprirsi e da scoprire. Deve essere trasformata in qualcosa che deve essere illuminata. Praticare significa illuminare quella qualità, non respingerla, o cercare di strangolarla o ignorarla. La rabbia ci dice qualcosa di noi stessi sia che vogliamo ascoltarla o meno. Dovremmo ricordare gli insegnamenti di Ajahn Chah, che “tutte le cose ci insegnano”, e ricordare che le cose che non ci piacciono probabilmente sono le cose che ci insegnano più delle altre.