del venerabile Ajahn Chah
© Ass. Santacittarama, 2015. Tutti i diritti sono riservati.
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Traduzione di Dhammarato.
Secondo discorso nel libro The Collected Teachings of Ajahn Chah, Vol. I.
È molto importante praticare il Dhamma. Se non pratichiamo tutta la nostra conoscenza è solo una conoscenza superficiale, è solo un involucro esterno. È come avere un frutto senza averlo ancora mangiato. Anche se quel frutto lo teniamo in mano, non ne traiamo alcun beneficio. Solo per mezzo dell’effettivo atto del mangiarlo potremo conoscerne il sapore. Il Buddha non elogiò chi crede agli altri, elogiò chi conosce se stesso. Proprio come succede con quel frutto: se lo abbiamo già assaggiato, non abbiamo bisogno di chiedere ad altri se è dolce o aspro. I nostri problemi sono finiti. Perché sono finiti? Perché vediamo secondo verità. Chi ha compreso il Dhamma è come colui che ha compreso la dolcezza o l’asprezza del frutto. È proprio lì che tutti i dubbi sono finiti.
Quando parliamo del Dhamma, anche se si potrebbe dire molto, si può ridurre tutto a quattro cose. Bisogna solo conoscere la sofferenza, conoscere la causa della sofferenza, conoscere la fine della sofferenza e conoscere il Sentiero della pratica che conduce alla fine della sofferenza. Questo è quanto. Tutto quello che abbiamo sperimentato sul Sentiero della pratica si riduce a queste quattro cose. Quando le conosciamo, i nostri problemi sono finiti.
Dove sono nate queste cose? Sono nate proprio nel corpo e nella mente, in nessun altro posto. Allora perché l’insegnamento del Buddha è così dettagliato e vasto? Per spiegare queste cose in un modo più sottile, per aiutarci a vederle. Quando Siddhattha Gotama (1) nacque nel mondo, prima di vedere il Dhamma era una persona ordinaria proprio come noi. Quando apprese ciò che doveva conoscere, ossia la verità della sofferenza, la causa e la fine di essa, e il Sentiero che conduce alla fine della sofferenza, comprese il Dhamma e divenne un Buddha perfettamente illuminato.
Dopo aver compreso il Dhamma, ovunque sediamo conosciamo il Dhamma e ovunque ci troviamo ascoltiamo l’insegnamento del Buddha. Quando comprendiamo il Dhamma, il Buddha è nella nostra mente, il Dhamma è nella nostra mente e la pratica che conduce alla saggezza è proprio nella nostra mente. Avere il Buddha, il Dhamma e il Sangha nella nostra mente significa che se le nostre azioni sono buone o cattive, conosciamo chiaramente da noi stessi la loro vera natura.
Così il Buddha abbandonò le opinioni del mondo, la lode e il biasimo. Quando la gente lo lodava o lo biasimava, Egli lo accettava solo per quello che era. Tali due cose sono semplicemente condizioni mondane e, perciò, egli non ne era scosso. Perché? Perché conosceva la sofferenza. Sapeva che se avesse creduto in quella lode o in quel biasimo, ciò gli avrebbe causato sofferenza.
Quando la sofferenza sorge, ci agita e ci sentiamo a disagio. Qual è la causa della sofferenza? È che non conosciamo la Verità, questa è la causa. Quando la causa è presente, sorge allora la sofferenza. Una volta che è sorta, non sappiamo come fermarla. Più cerchiamo di fermarla, più ne arriva. Diciamo: « non mi criticare », « non mi biasimare. » Cercando di fermarla in questo modo, la sofferenza aumenta davvero, non si ferma.
Per questa ragione il Buddha ci insegnò che percorrere la via che conduce alla fine della sofferenza significa far sorgere la realtà del Dhamma nella nostra mente. Diventiamo persone che testimoniano il Dhamma in noi stessi. Se qualcuno dice che siamo buoni, non ci perdiamo in questo; se dicono che non siamo buoni, non ci dimentichiamo di noi stessi. Così possiamo essere liberi. “Bene” e “male” sono solo dhamma mondani (2), sono solo stati mentali. Se li seguiamo, la nostra mente diventa il mondo, brancoliamo solamente nell’oscu rità senza conoscere la via d’uscita.
Se è così, allora non abbiamo ancora imparato a essere padroni di noi stessi. Cerchiamo di sconfiggere gli altri ma, così facendo, sconfiggiamo solo noi stessi. Se invece siamo padroni di noi stessi, abbiamo allora la padronanza di tutto, di ogni stato mentale, della vista, dei suoni, degli odori, dei sapori e delle sensazioni tattili. Adesso sto parlando di cose esteriori, esse è così che sono, ma l’esterno si riflette anche interiormente. Alcune persone conoscono solo l’esterno, non conoscono l’interno. Come quando diciamo di « vedere il corpo nel corpo. » Vedere l’esteriorità del corpo non basta, dobbiamo conoscere il corpo dentro il corpo. Poi, dopo aver investigato la mente, dovremmo conoscere la mente dentro la mente.
Perché dovremmo investigare il corpo? Cos’è questo “corpo nel corpo”? Quando diciamo di conoscere la mente, cos’è questa “mente”? Se non conosciamo la mente, non conosciamo le cose dentro la mente. Questo significa non conoscere la sofferenza, non conoscere la causa, non conoscere la fine e non conoscere il Sentiero che conduce alla fine della sofferenza. Le cose che dovrebbero aiutarci a estinguere la sofferenza non ci aiutano, perché siamo distratti dalle cose che la rendono più gravosa. È proprio come se ci prudesse la testa e ci grattassimo una gamba! Se è la testa a pruderci, allora è ovvio che non proveremo molto sollievo. Allo stesso modo, quando sorge la sofferenza non sappiamo come affrontarla, non conosciamo la pratica che conduce alla fine della sofferenza.
Prendiamo come esempio questo corpo, proprio il corpo che ognuno di noi ha portato qui con sé. Se vediamo solo la forma del corpo non v’è modo di fuggire dalla sofferenza. Perché no? Perché ancora non vediamo l’interno del corpo, vediamo solo l’esterno. Lo vediamo solo come qualcosa di bello, qualcosa di sostanziale. Il Buddha disse che vedere solo questo non basta. Con i nostri occhi vediamo l’esterno: può riuscirci pure un bambino, anche gli animali possono vederlo, non è difficile. L’esterno del corpo si vede facilmente, ma dopo averlo visto ci restiamo invischiati, non ne conosciamo la verità. Dopo averlo visto lo afferriamo, ed esso ci morde!
È per questo motivo che dovremmo investigare il corpo nel corpo. Qualsiasi cosa ci sia nel corpo – forza! – guardiamola. Se guardiamo solo l’esterno, non si capisce. Guardiamo i capelli, le unghie e così via, e vediamo solo belle cose che ci seducono. Così, il Buddha ci insegnò a vedere l’interno del corpo, a vedere il corpo nel corpo. Cosa c’è nel corpo? Guardateci dentro con attenzione! Vi troveremo molte sorprese, perché non le abbiamo mai viste anche se sono dentro di noi. Ovunque si vada le portiamo con noi. Le portiamo con noi quando siamo seduti in un’automobile, ma non le conosciamo affatto!
È come se andassimo a trovare alcuni parenti a casa loro e ricevessimo un dono. Lo prendiamo e lo mettiamo nella nostra borsa, poi ce ne andiamo senza averlo aperto per vedere cosa c’è dentro. Quando infine lo apriamo, è pieno di serpenti velenosi! Così è il nostro corpo. Se vediamo solo l’involucro, diciamo che va bene, che è bello. Ci dimentichiamo di noi stessi. Dimentichiamo l’impermanenza, la sofferenza e il non-sé. Se ci guardiamo dentro, questo corpo è davvero repellente.
Quando osserveremo in accordo con la realtà, senza cercare di addolcire le cose, vedremo che tutto è davvero penoso e stancante. Sorgerà distacco. Questa sensazione di “disinteresse” non significa provare avversione nei riguardi del mondo o di qualcosa; mettiamo semplicemente ordine nella nostra mente, e la nostra mente lascia andare. Vediamo le cose come non sostanziali e non affidabili, le vediamo solo così come sono. Per quanto vogliamo che siano in un certo modo, esse senza curarsene si limitano ad andare per la loro strada. Se ridiamo o piangiamo, sono semplicemente così come sono. Le cose che sono instabili sono instabili, le cose che non sono belle sono non belle.
Per questa ragione il Buddha disse che quando vediamo delle cose, quando sperimentiamo suoni, sapori, odori, sensazioni tattili o stati mentali, dovremmo lasciarli liberi di andare. Quando l’orecchio sente dei suoni, lasciateli andare. Quando il naso percepisce un odore, lasciatelo andare, abbandonatelo al naso! Quando sorgono sensazioni tattili, lasciate andare il piacere o il dispiacere che ne consegue, lasciatelo tornare nel luogo in cui è nato. Lo stesso vale per gli stati mentali. Tutte queste cose lasciatele andare per la loro strada. Questo è conoscere. Che si tratti di felicità o infelicità, è lo stesso. Questo è fare meditazione.
Fare meditazione significa rendere la mente serena per consentire alla saggezza di sorgere. Ciò richiede che si pratichi con il corpo e con la mente per vedere e conoscere le impressioni sensoriali legate a forma, suono, sapore, odore, tatto, e gli stati mentali. Per dirla brevemente, è solo questione di felicità e infelicità. La felicità è solo una sensazione mentale piacevole, l’infelicità è solo una sensazione mentale spiacevole. Il Buddha insegnò a separare la felicità e l’infelicità dalla mente. La mente è ciò che conosce. La sensazione di piacere o dispiacere è la caratteristica della felicità o dell’infelicità. Quando la mente indulge a queste cose, diciamo che si aggrappa o che ritiene tale felicità o infelicità degne di essere trattenute. Quest’aggrapparsi è un’azione della mente; felicità o infelicità sono sensazioni.
Affermiamo che il Buddha ci ha detto di separare la mente dalla sensazione, ma Egli non voleva dire che, alla lettera, le dovremmo mettere in due posti diversi. Voleva dire che la mente deve conoscere la felicità e conoscere l’infelicità. Ad esempio, quando sediamo in samādhi (3) e la pace riempie la mente, la felicità arriva ma non ci raggiunge, anche l’infelicità arriva ma non ci raggiunge. È così che si separa la sensazione dalla mente. Lo possiamo paragonare all’olio e all’acqua in una bottiglia. Non si uniscono. Potete anche cercare di mescolarli, ma l’olio rimane olio e l’acqua rimane acqua, perché la loro densità è diversa.
Lo stato naturale della mente non è la felicità né l’infelicità. Quando la sensazione entra nella mente ecco che nasce la felicità o l’infelicità. Se abbiamo presenza mentale, conosciamo la sensazione piacevole come sensazione piacevole. La mente che conosce non l’afferrerà. La felicità è lì, ma è fuori della mente, non sotterrata nella mente. La mente la conosce con semplice chiarezza.
Se separiamo l’infelicità dalla mente, questo forse significa che non c’è sofferenza, che non la sperimentiamo? Sì, la sperimentiamo, ma conosciamo la mente come mente e la sensazione come sensazione. Non ci aggrappiamo a quella sensazione e non ce la portiamo appresso. Il Buddha separò queste cose mediante la conoscenza. Egli soffrì? Conobbe lo stato della sofferenza ma non si aggrappò a esso; per questo diciamo che egli interruppe la sofferenza. Ci fu anche felicità, ma egli quella felicità la conobbe; se non è conosciuta, è come un veleno. Egli non s’identificò con essa. La felicità non esisteva nella sua mente, era lì grazie alla conoscenza. Così noi diciamo che Egli separò felicità e infelicità dalla sua mente.
Quando affermiamo che il Buddha e gli Esseri Illuminati uccisero le contaminazioni, non è che le uccisero realmente. Se avessero ucciso tutte le contaminazioni, allora noi probabilmente non ne avremmo alcuna. Non uccisero le contaminazioni: quando le conobbero per quello che sono, le lasciarono andare. Qualche sciocco le afferrerà, ma gli Esseri Illuminati conobbero le contaminazioni nelle loro menti come un veleno e, così, le spazzarono via. Spazzarono via le cose che causavano loro sofferenza, non le uccisero. Chi non lo sa, considererà un bene alcune cose, come la felicità, e poi le afferrerà, ma il Buddha le conosceva e si limitò a spazzarle via.
Quando la sensazione sorge in noi, indulgiamo a essa: la mente porta con sé felicità e infelicità. Nei fatti si tratta di due cose diverse. Le attività della mente, sensazione piacevole, sensazione spiacevole e così via, sono impressioni mentali, sono il mondo. Se la mente lo sa, può lavorare nello stesso modo con la felicità e con l’infelicità. Perché? Perché sa la verità su queste cose. Chi non le conosce, le vede come se avessero un valore diverso, ma chi le conosce le considera uguali. Se vi aggrappate alla felicità, in seguito essa sarà il luogo di nascita dell’infelicità, perché la felicità è instabile, cambia in continuazione. Quando la felicità scompare, sorge l’infelicità.
Il Buddha lo sapeva, perché sia la felicità sia l’infelicità sono insoddisfacenti, hanno lo stesso valore. Quando la felicità sorgeva, la lasciava andare. La sua era retta pratica, Egli vedeva che entrambe queste cose hanno uguali vantaggi e svantaggi. Sono sottoposte alla Legge del Dhamma, sono cioè instabili e insoddisfacenti. Dopo essere nate, muoiono. Quando Egli lo comprese, sorse la Retta Visione (4) e il retto modo di praticare divenne chiaro. Non importa quale tipo di sensazione o di pensiero sorgesse nella sua mente, Egli semplicemente sapeva che faceva parte dell’altalena continua di felicità e infelicità. Non si aggrappava a esse.
Quando il Buddha aveva da poco conseguito l’Illuminazione, tenne un sermone sull’indulgenza al piacere e sull’indulgenza al dolore. « Monaci! Indulgere al piacere è la via del lassismo, indulgere al dolore è la via della tensione. » Queste erano le due cose che avevano ostacolato la sua pratica fino al giorno in cui divenne l’Illuminato, perché prima non le aveva lasciate andare. Quando le conobbe, le lasciò andare e fu così in grado di pronunciare il suo primo sermone.
Per questo diciamo che un meditante non dovrebbe percorrere la via della felicità o dell’infelicità, bensì conoscerle. Conoscendo la verità della sofferenza, conoscerà la causa della sofferenza, la fine della sofferenza e il Sentiero che conduce alla fine della sofferenza. E la via d’uscita dalla sofferenza è la stessa meditazione. Detto in modo semplice, dobbiamo avere consapevolezza. Consapevolezza è conoscere, o presenza mentale. Proprio ora, cosa stiamo pensando, cosa stiamo facendo? Cosa abbiamo con noi, proprio ora? Se osserviamo in questo modo, siamo consapevoli di come stiamo vivendo. Praticando in questo modo, può sorgere la saggezza. Riflettiamo e investighiamo sempre, in tutte le posture. Quando sorge un’impressione mentale che ci piace, la conosciamo per quello che è, non riteniamo che sia nulla di sostanziale. È solo felicità. Quando sorge l’infelicità, sappiamo che essa è indulgenza al dolore, che non è il Sentiero di un meditante.
Quando diciamo di separare la mente dalla sensazione, è questo che intendiamo. Se siamo abili non ci aggrappiamo, lasciamo che le cose siano. Diventiamo “Colui che Conosce” (5). Mente e sensazione sono come acqua e olio; sono nella stessa bottiglia, ma non si mescolano. Conosciamo la sensazione come sensazione e la mente come mente perfino se siamo ammalati o addolorati. Conosciamo gli stati dolorosi e quelli piacevoli, ma non ci identifichiamo con essi. Dimoriamo solo nella pace: quella pace che è al di là del piacere e del dolore.
È così che dovreste pensare, perché altrimenti, se non c’è un sé permanente, non c’è rifugio. Dovete vivere in questo modo, senza felicità e senza infelicità. Dovete stare solo con il conoscere, senza portarvi dietro le cose. Fino a che non conseguiremo l’Illuminazione, tutto questo può suonare strano, ma non importa: impostiamo il nostro obiettivo in questa direzione. La mente è la mente. Essa incontra felicità e infelicità e noi le vediamo solo in quanto tali, non c’è nulla di più in esse. Sono separate, non mescolate. Se fossero mescolate non potremmo conoscerle. È come vivere in una casa; la casa e i suoi occupanti sono collegati, ma separati. Se nella nostra casa c’è un pericolo, siamo angosciati perché dobbiamo proteggerla, ma se la casa va in fiamme dobbiamo uscire. Quando sorgono sensazioni dolorose usciamo, proprio come usciremmo da quella casa. Se è piena di fuoco e noi lo sappiamo, usciamo di corsa. Sono cose separate; la casa è una cosa, l’occupante un’altra.
Diciamo che separiamo la mente dalle sensazioni in questo modo, ma nei fatti sono già separate per natura. La nostra comprensione consiste semplicemente nel conoscere questa differenza naturale e in accordo con la realtà. Quando diciamo che non sono separate è perché ci stiamo aggrappando a esse per ignoranza della verità.
È per questo che il Buddha ci disse di meditare. Questa pratica di meditazione è davvero importante. Conoscere solo per mezzo dell’intelletto non basta. La conoscenza che sorge dalla pratica che conduce a una mente serena e la conoscenza che proviene dallo studio sono davvero lontane l’una dall’altra. La conoscenza che proviene dallo studio non è vera conoscenza della nostra mente. La mente cerca di aggrapparsi e di trattenere questa conoscenza. Perché cerchiamo di trattenerla? Solo per perderla! E poi, quando è perduta, piangiamo.
Se davvero conosciamo, c’è il lasciar andare, lasciare che le cose siano. Sappiamo come stanno le cose e non ci dimentichiamo di noi stessi. Se avviene che ci ammaliamo, non ci perdiamo in questo. Alcuni pensano: « Quest’anno sono stato sempre malato, non sono affatto riuscito a meditare. » Queste sono davvero le parole di un folle. Se pensiamo in questo modo le cose diventano difficili. Il Buddha non ci insegnò in questo modo. Disse che proprio allora è il caso di meditare. Quando siamo malati o quasi morenti, è allora che possiamo davvero conoscere e vedere la realtà.
Altri dicono di non aver avuto la possibilità di meditare perché troppo indaffarati. A volte vengono a trovarmi degli insegnanti di scuola. Dicono di avere molte responsabilità e di non avere perciò tempo per la meditazione. Io chiedo: « Mentre state insegnando avete il tempo di respirare? » « Sì », rispondono. « Allora come potete avere il tempo di respirare se il lavoro è così frenetico e caotico? Da questo punto di vista siete molto lontani dal Dhamma. »
In verità questa pratica riguarda solo la mente e le sue sensazioni. Non è una cosa da rincorrere o per cui sforzarsi. Il respiro continua mentre si lavora. È la natura a occuparsi dei processi naturali, tutto quello che dobbiamo fare è cercare di essere consapevoli. Continuate solo a provare a entrare dentro di voi per vedere con chiarezza. Questa è meditazione. Se abbiamo presenza mentale, quale che sia il lavoro che stiamo svolgendo, esso sarà il giusto strumento per consentirci di conoscere giusto e sbagliato in continuazione. C’è una gran quantità di tempo per meditare: è che non comprendiamo appieno la pratica, questo è tutto. Respiriamo mentre dormiamo, respiriamo mentre mangiamo. Lo facciamo o no? Perché non abbiamo tempo di meditare? Respiriamo ovunque siamo. Se pensiamo in questo modo, la nostra vita ha allora lo stesso valore del nostro respiro. Abbiamo tempo ovunque siamo.
I pensieri, di qualsiasi genere essi siano, sono condizioni mentali, non condizioni del corpo, e perciò abbiamo bisogno solo di avere presenza mentale. In questo modo conosceremo sempre giusto e sbagliato. Stando in piedi, camminando, seduti e distesi, c’è una gran quantità di tempo. È solo che non sappiamo come usarlo proficuamente. Per favore, prendete in considerazione quel che vi dico.
Non possiamo fuggire dalla sensazione, dobbiamo conoscerla. La sensazione è solo sensazione, la felicità è solo felicità, l’infelicità è solo infelicità. Sono semplicemente così. Perché dovremmo aggrapparci a esse? Se la mente è abile, basta solo ascoltare questo per essere in grado di separare la sensazione dalla mente. Se investighiamo in questo modo in continuazione la mente si libererà. Non si tratta, però, di una fuga indotta dall’ignoranza. La mente lascia andare, ma conosce. Non lascia andare per stupidità o perché non vuole che le cose siano nel modo in cui sono. Lascia andare perché conosce in accordo con la Verità. Questo significa vedere la natura, la realtà che è tutt’intorno a noi.
Quando sappiamo questo, siamo abili con la mente, siamo abili con le impressioni mentali. Quando siamo abili con le impressioni mentali siamo abili con il mondo. Questo significa essere un “Conoscitore del mondo”. Il Buddha conobbe chiaramente il mondo con tutte le sue difficoltà. Il mondo può confonderci moltissimo. Com’è che il Buddha fu in grado di conoscerlo? Ora dovremmo capire che il Dhamma insegnato dal Buddha non è al di là delle nostre capacità. Dovremmo avere presenza mentale e consapevolezza di noi stessi in tutte le posture e, quando è il momento di sederci in meditazione, lo facciamo.
Sediamo in meditazione per instaurare la serenità e coltivare l’energia mentale. Non lo facciamo per divertirci con qualcosa di speciale. La meditazione di visione profonda è la stessa pratica del samādhi. Alcuni dicono: « Ora ci sediamo in samādhi, poi faremo meditazione di visione profonda. » Non dividetele in questo modo! La tranquillità è il fondamento che fa sorgere la saggezza; la saggezza è il frutto della tranquillità. Dire che ora facciamo meditazione di tranquillità e poi faremo meditazione di visione profonda: farlo è impossibile! Potete separarle solo a parole. È proprio come un coltello, che ha la lama da un lato e il retro della lama dall’altro. Non potete dividerle. Se prendete un lato, li prendete entrambi. Allo stesso modo è la tranquillità a fa sorgere la saggezza.
La moralità è il padre e la madre del Dhamma. All’inizio dobbiamo avere moralità. Moralità è pace. Questo significa che non si commettono cattive azioni con il corpo o con la parola. Quando non facciamo cose sbagliate, non ci agitiamo; quando non ci agitiamo la pace e il raccoglimento sorgono nella mente. Per questo diciamo che moralità, concentrazione e saggezza sono il Sentiero verso l’Illumi nazione percorso da tutti gli Esseri Nobili. Sono tutte quante una sola cosa. Moralità è concentrazione, concentrazione è moralità. Concentrazione è saggezza, saggezza è concentrazione. È come un mango. Quando è un fiore, lo chiamiamo fiore. Quando diventa un frutto, lo chiamiamo mango. Quando matura, lo chiamiamo mango maturo. Il tutto è un mango, però cambia continuamente. Il grande mango cresce dal mango piccolo, il piccolo mango diventa un grande mango. Li potete considerare frutti differenti oppure uno solo. Moralità, concentrazione e saggezza sono in relazione in questo modo. Alla fine tutto è un sentiero che conduce all’Illuminazione.
Il mango, dal momento in cui all’inizio appare come fiore, semplicemente cresce in direzione della maturazione. È sufficiente. Dovremmo vedere le cose in questo modo. Comunque gli altri lo chiamino, non importa. Appena nasce cresce verso la vecchiaia, e poi verso quale direzione? È così che dovremmo contemplare. Alcuni non vorrebbero invecchiare. Quando invecchiano si deprimono. Queste persone non dovrebbero mangiare mango maturi! Perché vogliamo che i mango siano maturi? Se non maturano presto, li facciamo maturare artificialmente, vero? Quando però diventiamo anziani siamo pieni di rimpianti. Alcuni piangono: temono d’invecchiare o di morire. Se è così, non dovrebbero mangiare mango maturi, meglio che mangino solo i fiori! Se riusciamo a vedere in questo modo, possiamo vedere il Dhamma. Tutto diventa chiaro, siamo in pace. Dovete solo decidervi a praticare in questo modo.
Oggi il Presidente del Privy Council con i suoi collaboratori sono venuti per ascoltare il Dhamma. Dovreste prendere ciò che ho detto e contemplarlo. Se qualcosa non è giusto, vi prego di scusarmi. Sapere se è giusto o sbagliato dipende però dalla vostra pratica e dal vedere da voi stessi. Se è sbagliato, sbarazzatevene. Se è giusto, prendetelo e usatelo. In realtà, però, noi pratichiamo per lasciar andare sia quel che è giusto sia quel che è sbagliato. Alla fine, ci sbarazziamo di tutto. Se è giusto, sbarazzatevene. Se è sbagliato, sbarazzatevene! Di solito, se è giusto ci aggrappiamo alla rettitudine, se è sbagliato lo riteniamo sbagliato e poi seguono discussioni. Il Dhamma è però il posto in cui non c’è nulla, proprio nulla.
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(1) Siddhattha Gotama. Il nome proprio del Buddha storico; nei testi canonici più antichi si menziona il Buddha soltanto con il nome di Gotama.
(2) dhamma mondani. Le otto condizioni mondane di guadagno e perdita, lode e biasimo, felicità e sofferenza, fama e discredito.
(3) samādhi. Concentrazione, unificazione della mente, stabilità mentale.
(4) Retta Visione (sammāditthi). La Retta Visione è il primo fattore del Nobile Ottuplice Sentiero.
(5) Colui che Conosce. La qualità della presenza mentale, quella facoltà della mente che, se rettamente coltivata, conduce alla Liberazione.