Insegnamenti

Accettazione e responsabilità

del venerabile Ajahn Viradhammo

© Ass. Santacittarama, 2007. Tutti i diritti sono riservati.
SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.
Traduzione di Silvana Ziviani


Basato su un discorso tenuto al Monastero di Bodhinyanarama nel 2000

 

LA SETTIMANA PASSATA PARLAVO DELL’ACCETTAZIONE COME QUALITÀ SPIRITUALE. Ma l’accettazione può essere malintesa se la si prende come una filosofia sociale assoluta. La si potrebbe considerare come una specie di apatia o di compiacenza che non sente il bisogno di agire per il bene della società. Io invece sto parlando di una qualità del cuore. Questa qualità del cuore esiste nel contesto sociale di una società, di una comunità, di una famiglia. Il contesto sociale definisce ciò che è socialmente accettabile o inaccettabile.

Mi piace paragonare l’impegno sociale di essere buddhista con l’appartenenza a una corporazione. Se siete membri di una corporazione di mastri costruttori, se in questa corporazione appartenete al gruppo degli artigiani, avrete allora certi obblighi, alcune capacità che dovrete sviluppare prima di essere accettati e accreditati presso la corporazione. Il vostro lavoro deve mantenere un certo standard concordato fra tutti i membri; dovete avere una certa abilità nella vostra arte; avete certi obblighi da osservare e certi standard da mantenere. E se non riuscite a mantenere questi standard allora la corporazione vi cancellerà dai suoi membri. Nello stesso tempo però la corporazione protegge i vostri interessi e vi sprona a mantenere buoni standard o a usare progetti migliori o qualsiasi altra cosa.

E io credo che il monachesimo o qualsiasi tipo di cultura buddhista sia così. E’ un insieme di persone che si impegnano a vivere secondo certi valori, che si impegnano a mantenere uno stile di vita. Si prendono la responsabilità di essere buddhisti. Questo tipo di responsabilità o impegno dà forma alla nostra partecipazione alla comunità e ci sostiene tutti nel nostro lavoro spirituale.

La comunità monastica ha appena finito quello che chiamiamo il “Ritiro delle Piogge”. E infatti ha piovuto veramente. Giovedì, giorno di luna piena, abbiamo avuto il “giorno di pavarana”, che è l’ultimo giorno del ritiro delle piogge. In quella occasione ci siamo incontrati per fare una cerimonia tramandataci fin dai tempi del Buddha. Tutti i monaci e i novizi si riuniscono in una specie di circolo e ognuno ripete una frase pali che, tradotta, significa più o meno “Per qualsiasi cosa io abbia fatto che è contraria ai miei obblighi di monaco buddhista, che è contraria alla pratica a cui mi sono impegnato, per favore ammonitemi o offritemi qualche riflessione o osservazione”.

Questo crea una apertura, un invito ad ascoltare come ci vedono gli altri. E’ una riflessione per ciascuno di noi. Abbiamo vissuto insieme per questi tre mesi, praticando la meditazione e condividendo la bontà di questo santuario, e tutto questo è stato possibile grazie alla generosità della comunità laica. E’ stato un tempo bello e mi sento grato per questi tre mesi.

Usiamo anche altre riflessioni quali “Ho usato bene il mio tempo? Sono stato degno del cibo offertomi dai laici e del mio ruolo monastico? Sono stato sensibile verso i miei compagni monaci?”. Sono tutte riflessioni salutari che ci servono a ricordare l’impegno preso con il cuore verso un cammino di pace e per aiutarci l’un l’altro in questo viaggio.

In tal modo la nostra vita comunitaria è un esercizio per il corpo, per la parola e per la mente, ci incoraggia a lasciar andare l’egoismo e nello stesso tempo ci sprona a portare avanti il nostro personale lavoro spirituale.

Il Buddha e i suoi discepoli non furono in grado di stendere un codice di vita per i laici così dettagliato come quello per i monaci, perché gli stili di vita nelle comunità laica erano troppo diversi. Perciò i vari insegnamenti sui doveri etici e sociali furono dati nel contesto delle strutture sociali già esistenti nelle società di quei tempi. In quelle culture per esempio, quando una coppia si sposava, non si trattava solo di un rapporto con un’altra persona, ma era anche un matrimonio che faceva entrare la coppia dentro alla comunità della gente sposata. Non erano solo una coppia isolata, ma piuttosto una coppia che era diventata membro di una “corporazione di gente sposata”. E questo comportava degli obblighi. Comportava un obbligo morale, un obbligo familiare e un obbligo comunitario.

L’intera comunità comprendeva questi obblighi e perciò l’intera comunità poteva aiutare il matrimonio, incoraggiando, ammonendo, aiutando in tempi di malattia e così via. Non era qualcosa che avveniva isolatamente.

Questo tipo di strutture di sostegno sono difficili da trovare nella società urbana odierna. Per esempio possiamo chiederci “Che cosa significa essere partner? Esiste una corporazione di partner? Quali sono gli obblighi dei partner? Come vengono definiti? e ci sono persone di idee simili che aiutano a mantenere tali obblighi? Non c’è una risposta chiara e ciò credo che sia una vera difficoltà della nostra cultura.

Un luogo come questo monastero e un gruppo come questo, dove la gente viene la domenica a meditare e a riflettere sul Dhamma, è un modo per creare un ambiente sociale di sostegno per il nostro lavoro di Dhamma. Noi, in qualità di comunità, in qualità di un gruppo di esseri umani, possiamo mantenere alcuni valori tradizionali. Possiamo rispettare questi valori e possiamo rammentarceli a vicenda quando questi valori tradizionali nonvengono rispettati, quando il comportamento diventa inaccettabile. Se vediamo che qualcuno al monastero diventa offensivo, se vediamo un monaco che non vive secondo gli standard approvati dalla comunità monastica, questo allora diventa inaccettabile. Dobbiamo esprimere il nostro disaccordo nel modo giusto.

Quando parliamo di accettazione, in genere ne parliamo a livello del cuore. L’accettazione è una strategia interna che ci permette di essere con la vita e di rispondere ad essa con chiarezza.

Ma l’accettazione non è una filosofia sociale assoluta. A livello sociale alcuni tipi di comportamento sono inaccettabili. Il nostro dovere di membri di una comunità spirituale è di andare dalla persona che non vive secondo gli standard concordati, che sia un laico o un monaco, e dire che abbiamo bisogno di parlare di questo e cercare di risolvere la questione.

L’accettazione interiore permette una chiarezza di azione. Ma se non siamo consapevoli del nostro mondo interiore e attacchiamo da una posizione di giusta indignazione e rabbia, i risultati saranno disordinati e confusi. Perciò dobbiamo sempre risvegliarci alle nostre stesse passioni e impurità mentali accettandole onestamente. Questo è un obbligo e un impegno interiore. L’indignazione che deriva dal sentirsi nel giusto è un’energia molto distruttiva, una energia che può essere usata per giustificare la rabbia, l’odio e la gelosia. Dobbiamo avere il coraggio di parlar chiaro quando ce n’è bisogno, ma dobbiamo anche essere onesti e sapere che sensazioni e intenzioni abbiamo.

In una comunità buddhista il comportamento etico accettato è basato sui cinque precetti. Il terzo precetto, ad esempio, ci incita a moderarci nei riguardi della sensualità. E’ un precetto di larga portata che ci sprona a riflettere sul modo che abbiamo di comportarci nei confronti delle esperienze sensoriali. In particolare ci incoraggia ad essere fedeli sessualmente al nostro partner. Le relazioni adulterine sono quindi chiaramente fuori dai limiti di questo precetto.

E’ un precetto che segna chiaramente i limiti in modo che chiunque sia già sposato o impegnato in una relazione permanente, che sia fidanzato o che sia minorenne o abbia preso i voti monastici o che viva in accordo agli otto precetti, tutti questi devono essere tenuti fuori da un coinvolgimento in termini di rapporti sessuali. Osservando questo precetto la nostra responsabilità e il nostro dovere è quello di promuovere l’armonia dei contratti sociali esistenti e prendersi cura di chi non ha ancora l’età o che vive in accordo con i precetti del rinunciante.

Coloro che si dedicano alla vita religiosa basata sui principi buddhisti hanno questo tipo di doveri uno verso l’altro. Se qualcuno nella comunità, sia un religioso che un laico, non mantiene questo principio di impeccabilità nelle relazioni con gli altri, o se qualcuno è in qualche modo promiscuo o offensivo, è nostro dovere di comunità parlare di questo, riflettere su questo. Non come un pettegolezzo ma in modo che il precetto venga rispettato. Questo richiede coraggio e compassione.

E’ un tipo di attivismo sociale. Significa parlare di cose importanti. Questo tipo di onestà può essere di grande aiuto se fatta correttamente, non proveniente dal sentirsi nel giusto o dalla rabbia, ma dal fatto che noi abbiamo l’obbligo di mantenere il benessere nella nostra comunità e nei suoi componenti.

Una qualità a cui il Buddha non venne mai meno durante il suo viaggio spirituale fu la sincerità. La sincerità è il cuore della vita religiosa perché l’illuminazione riguarda la verità. La libertà riguarda la verità mentre la sofferenza riguarda l’ignoranza, la non-comprensione. Se c’è qualcuno nella nostra comunità, sia monastica che laica, la cui mente giustifica un comportamento immorale, diventa molto pericoloso per se stesso. Sfortunatamente gli esseri umani hanno l’abilità di razionalizzare la propria ignoranza. Possiamo essere molto abili nel manipolare la conoscenza e le idee. Probabilmente tutti hanno avuto modo di vedere una persona che cerca di ammonire un’altra ma questa è più abile con il linguaggio e rigira tutta la situazione. In tal modo la scaltrezza finisce per averla vinta piuttosto che la sincerità. Le parole e il linguaggio sono manipolati in modo da accordarsi ai desideri e alle paure dell’ego. E’ quel tipo di intelligenza che potenzialmente può fare grandi danni alla vita spirituale di una persona.

I precetti e le regole morali sono un insieme di conoscenze comuni, un accordo comune sugli obblighi da seguire. Quando qualcuno si comporta in modo tale da rompere una relazione pre-esistente e la giustifica usando un linguaggio manipolatore, possiamo dire: “Sarà, ma riguardo al terzo precetto…” E’ importante avere un insieme di conoscenze comuni a cui riferirsi superando le preferenze personali.

Per esempio, le nostre regole monastiche sono un insieme di conoscenze, disponibili non solo ai monaci e alle monache ma anche ai laici. In una cultura non buddhista, ci sono molti che non capiscono le regole monastiche, ma nell’Asia buddhista la gente ne è spesso al corrente per cui ciascuno sa la linea di demarcazione per i monaci e per i laici. Quando la si supera, allora c’è un punto di riferimento concreto, il corpo degli accordi comuni. Questo aiuta sia chi sta in posizione di autorità sia coloro che cercano una guida.

Certe volte i maestri escono dai confini della loro cultura, fuori dalle regole e obblighi che li aiutano a riflettere sulle loro responsabilità. Questo però può portare il maestro a perdersi in illusioni egocentriche, a bruciarsi o a superare i “confini della proprietà”.

Certe volte i maestri e le guide si smarriscono e cadono in aree confuse. Si perdono nella loro stessa sopravvalutazione. Se però vi è una conoscenza culturale dei confini, dei ruoli e delle aspettative, allora è più difficile che un maestro cada in un auto-inganno. Anche loro hanno bisogno di protezione, non è vero? Noi tutti abbiamo bisogno di protezione, tutti noi abbiamo bisogno di aiuto perché l’inganno è sempre in agguato e ci porta a fare cose poco salutari.

Contemplando il primo precetto che dice di non fare del male agli esseri viventi, vediamo quanto sia difficile in Nuova Zelanda. Per creare le riserve d’uccelli di Karori e Kapiti, sono stati uccisi molti oppossum, topi, gatti ed ermellini. Senza uccidere questi animali, gli uccelli originari sarebbero morti tutti. Che fare?

La prima cosa da fare è accertarsi di tener ben presente il primo precetto. Se qualcuno sente di dover trasgredire il precetto ci pensi su bene e a lungo, riflettendo sulla necessità e sull’importanza di togliere la vita, poi sia responsabile delle proprie decisioni. Se il precetto non venisse considerato affatto, è facile che sorgano atteggiamenti mentali contrari a certe forme di vita. I regni animale e vegetale sono allora considerati solo in termini di desideri umani, di economia umana invece che secondo compassione e amorevolezza.

Siete mai riusciti a considerare un ragno come un animale domestico? I bambini lo fanno facilmente. Vi è mai capitato di passare dalla considerazione “questa è una bestia inutile” al guardarla invece con simpatia, sentendo che è una creatura senziente che cerca la felicità in un suo modo peculiare? Ciò creerà un rapporto completamente diverso. E anche molto bello. Potrebbe sembrare utopistico e impraticabile ma l’insegnamento buddhista ci sprona a coltivare un cuore amorevole e ad eliminare il cuore alienante. Certo, dobbiamo proteggere l’ambiente dalle male erbe, ecc., ma non lasciamo brutalizzare la nostra mente con atteggiamenti crudeli e violenti.

Il secondo precetto riguarda la non-corruzione: mi impegno a seguire la regola di non prendere nulla che non mi sia dato. Nelle regole monastiche questo punto basilare di non rubare viene ulteriormente raffinato. Per esempio se qualcuno desse a un monaco, qui in Nuova Zelanda, un oggetto del valore di 1000 dollari e poi il monaco andasse in Canada. Secondo la dogana canadese questo oggetto deve essere dichiarato e si deve pagare la tassa d’importazione. Ma se invece il monaco lo mettesse nella propria sacca da viaggio e poi passasse la dogana senza dichiararlo, sapendo benissimo che lo fa per evadere la tassa, commetterebbe un reato di “sconfitta” (defeat), conosciuto come parajika. Abbiamo quattro offese parajika. Quando un monaco ha commesso una offesa parajika deve lasciare l’abito; è una cosa molto seria. Questo tipo di imbroglio sarebbe di forte impedimento alla sua vita spirituale, per cui la regola lo aiuta ad essere molto attento. Stare attenti in queste cose porta ad avere una mente libera dal rimorso e dall’odio verso se stesso. E libera anche dalla paura di essere ripresi.

Questi precetti portano a un senso di impeccabilità come standard di vita spirituale. Gli insegnamenti morali ci spronano a capire le leggi del paese e a seguire queste regole, perché se non lo facciamo noi, chi lo farà?

Questo è il nostro impegno verso la comunità. Non è un modo facile di svicolare o di seguire l’umore del giorno, “Tutti stanno prendendo le cose dal retro del camion e perché non io? L’ufficio è pieno di articoli di cancelleria”.

Una mente così non è una mente impeccabile. Una mente che agisce in modo disonesto diventa una mente afflitta dai rimorsi, dalla paura e dall’arroganza. Non è una mente che può sperimentare la bellezza di un cuore tranquillo.

Il precetto che riguarda la parola è un utile specchio che ci aiuta a vedere le motivazioni e le intenzioni che stanno dietro alle nostre parole. Il parlare scorretto riguarda il mentire, imprecare, calunniare e chiacchierare a vanvera. Il parlare corretto è un parlare veritiero, un parlare che è bello, un parlare che genera armonia invece che divisione. E’ un parlare in accordo con il Dhamma.

Il parlare può essere molto ispirante. Per esempio, quando il Dalai Lama venne in Nuova Zelanda le sue parole furono di grande ispirazione per molte persone. All’opposto, possiamo sentirci molto disturbati sentendo qualcuno parlare con un cuore pieno di crudeltà e odio. Perciò la parola è molto potente sia a beneficio che a detrimento della nostra società.

Ora con i soli precetti non possiamo sempre raddrizzare tutto, ma possiamo riflettere su di essi: la parola che è veritiera, la parola che è bella, la parola che è armoniosa, la parola che è in accordo con il Dhamma, tutto ciò è Retta Parola. Possiamo interiorizzarla nella mente e nel cuore.

Leggendo e contemplando un precetto al giorno per un certo periodo di tempo, questo precetto comincerà a risuonare nella mente. E se ci accorgiamo che parlando con qualcuno stiamo falsando la verità, esagerando o omettendo qualcosa, il precetto ci risveglia con la domanda “Perché sto facendo così? Perché sto mentendo? Perché sento il bisogno di falsare la verità?” Ci risveglia alla verità delle nostre motivazioni. Ma se non abbiamo chiari limiti etici o standard morali possiamo scivolare in un comportamento malsano e scorretto, nocivo a noi stessi e agli altri.

I precetti diventano così un modo di proteggerci dalle spinte interne di egoismo e insensibilità, spinte che tutti noi sentiamo ma che diventano pericolose solo quando crediamo alla loro voce.

Usando i precetti in questo modo, saremo in grado di chiederci “Che intenzioni ho?” Se ho cercato di manipolare qualcuno o se cerco di coprire qualcosa che ho fatto o se ho solo esagerato per rendermi più interessante, da dove viene tutto ciò? Viene dalla paura, dalla bramosia o da altri luoghi malsani? E che risultati ci sono? Sono risultati buoni? Sono risultati che danno pace? Sono risultati che ci rendono felici? Quando parlo così, la mia mente è confusa?

D’altra parte, quando incoraggiamo la gente, quando siamo sensibili verso gli altri, quando diciamo la verità, quando siamo in grado di ammettere i nostri errori, che risultati ne traiamo? Sono risultati buoni o cattivi?

La Retta Parola diventa così parte del cammino verso la libertà. Non è una cosa facile. Molti la trovano difficile. Ci può capitare benissimo di credere in proiezioni ingannatrici e trattare qualcuno con poca sensibilità e con maleducazione. O possiamo credere in banali rimostranze e a cause di esse colpire qualcuno in modo molto duro. O possiamo sentirci gelosi del successo di altri e calunniarli dietro alle spalle: ci sono così tanti modi di chiudere il proprio cuore e perdersi in discorsi sbagliati. L’empatia e l’amore del cuore vengono soffocati e alla fine ci sentiamo sempre più alienati.

Il precetto che riguarda le droghe e gli intossicanti naturalmente è molto importante, perché una vita veramente religiosa e spirituale richiede intelligenza e attenzione, qualità queste che vengono danneggiate dall’alcol e dalle droghe. Non dobbiamo assumere un atteggiamento puritano, “Non dovrai bere neanche un bicchiere di vino al compleanno della nonna”. No, non è così. Piuttosto dobbiamo riflettere sul perché assumiamo queste cose e che effetto hanno sulla nostra vita. Ci fanno diventare persone migliori e membri più responsabili della nostra comunità? E che dire del nostro povero corpo? E’ bello riempire il corpo di misture chimiche solo per amore del piacere o per bisogno di fuggire?

Perciò la struttura portante per una corporazione buddhista, per una corporazione religiosa è formata dai cinque precetti. Ognuno di noi sta lentamente raffinando e approfondendo l’uso e la comprensione dei precetti.

Per esempio il precetto sul non far del male non solo ci sprona a vivere una vita non violenta ma anche una vita di compassione. E noi lavoriamo per approfondire questa possibilità. Molta parte della filosofia buddhista sociale è basata sull’empatia.

L’empatia è un atteggiamento meraviglioso che ci aiuta a uscir fuori dal nostro egoismo e auto-ossessione. Quando abbiamo l’opportunità di dare a qualcuno e sentiamo la gioia di aiutare e curare qualcuno, vedremo che sono loro che ci danno molto. Sembra un controsenso, vero? Talvolta ho detto alle coppie che hanno adottato un bambino che il bambino è molto fortunato. Invariabilmente hanno sempre risposto: “No, no, siamo noi i fortunati”.

Abbiamo solo un centinaio di anni da vivere su questo pianeta, da 80 a un massimo di 100 anni. Qual è lo scopo della vita? Se possiamo fare qualcosa di bene per la società, per il pianeta terra e per gli esseri che lo abitano, questo dà un significato alla vita. Se questa è la base della nostra filosofia sociale, possiamo vedere con più chiarezza quanto siamo manipolatori, quanto razionalizziamo le nostre azioni per giustificarne lo scopo egoistico. Quando sorgono impulsi dannosi impariamo ad essere pazienti e a non seguire queste energie. Ma nel contempo coltiviamo anche stati mentali salutari, cercando di far fiorire la compassione e la gentilezza nel cuore. Questo è uno sviluppo molto bello della vita spirituale.

I progressi scientifici e tecnologici in campo medico e agricolo hanno creato complicati dilemmi morali che non esistevano ai tempi del Buddha. Per esempio, qual è la posizione del buddhismo sull’ingegneria genetica? In quale dei cinque precetti rientra?

Forse non c’è bisogno di prendere una posizione fissa. Ciò che è importante, comunque, è che i nostri cuori e le nostre menti siano libere da situazioni personali basate sulla bramosia o l’arroganza. Parte della Retta Parola allora potrebbe essere la capacità di discutere le questioni che sorgono e partecipare al processo di educazione che tutta la nostra società sta portando avanti. Questo significa un impegno personale a tenersi informati sulle questioni e poi pensare accuratamente come ci si sente nei loro riguardi alla luce dei propri valori etici. Questo ci darebbe la qualificazione necessaria di cuore e di intelligenza per partecipare a una discussione e dare un contributo significativo alla direzione morale della nostra società.

In una corporazione di artigiani c’è la responsabilità di mantenersi all’altezza degli standard raccomandati dalla corporazione, ma vi è anche la gioia di creare qualcosa di bello, come espressione della propria maestria.

Allo stesso modo, la nostra comunità buddhista ha degli standard all’altezza dei quali dobbiamo vivere e spronare gli altri a farlo; ma c’è anche la parte creativa del nostro essere che è parte della maestria o arte di vivere. Dare una parte di sé per il bene degli altri è veramente meraviglioso.

Alcune volte l’enfasi buddhista sulla pratica della consapevolezza può sembrare che uno stia sempre pensando a se stesso: un modo veramente poco edificante di vivere questa vita. La vita non è equilibrata se non ho niente da dare, se non ho niente che serve, nessuno da amare, nessuno da curare. L’opposto naturalmente è essere talmente proiettati fuori, talmente servizievoli e amorevoli che vado a finire in ospedale con un esaurimento nervoso. Dobbiamo mantenere l’equilibrio tra l’amore per sé e l’amore per gli altri.

E forse allora, il livello più profondo che la nostra comunità buddhista ci spinge a vivere è semplicemente amore reciproco. Il senso di accettazione e il nostro impegno per una buona etica è sempre sostenuto da un cuore di gentilezza amorevole.

 

 

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Ajahn Viradhammo, nato in Germania da famiglia lettone ma canadese di adozione, è monaco della tradizione della foresta dal 1974. E’ stato uno dei primi discepoli occidentali di Ajahn Chah e ha fondato il monastero Bodhinyanarama in Nuova Zelanda. Dal 2006 si occupa nel fondare un nuovo monastero in Canada, vicino ad Ottawa (www.tisarana.ca).